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Sofferenza.
C’è in giro molto più sofferenza (e anche una sofferenza parecchio profonda) di quanto non appaia ad uno sguardo superficiale.
Anche laddove meno te lo aspetteresti.
© Giovanni Lamagna
Bianco o nero?
La felicità, la gioia, il piacere, perfino il buonumore non sono l’esatta antitesi del dolore, della sofferenza, del lutto, della malattia.
Ci sono situazioni in cui essi si alternano a breve distanza di tempo o sono addirittura misteriosamente compresenti.
La vita non è fatta solo di bianco o di nero, ma è un impasto strano, a volte inspiegabile, assurdo, di opposti, apparentemente inconciliabili.
© Giovanni Lamagna
Fuga dal dolore della perdita, reale o anche solo temuta.
Il concetto di “fuga nella guarigione” in psicoterapia è molto importante.
Esso sta a indicare che il soggetto precorre i tempi della guarigione; si illude di essere guarito anzitempo, appena si sente un po’ meglio e più rinfrancato, rispetto alla condizione in cui si trovava quando era entrato in terapia.
In questo caso il soggetto, anziché elaborare fino in fondo il “lutto”, da cui derivava la sua sofferenza (cioè la perdita, la mancanza, dell’oggetto a lui più caro, per lui fondamentale), prende una scorciatoia per risolvere velocemente, il più in fretta possibile, il lutto.
Trova cioè un sostituto dell’oggetto perduto prima di averne elaborata fino in fondo la perdita o l’assenza.
In questo modo l’oggetto sostituto surroga (anche se al momento e solo provvisoriamente e superficialmente) l’assenza dell’oggetto perduto e non consente una piena e risolutiva elaborazione del lutto.
Che continuerà, quindi, ad agire in maniera subdola e sotterranea nella psiche del soggetto, che non lo ha veramente elaborato del tutto, minandone, corrodendone l’equilibrio e il benessere psichico.
Oltre a impedirgli di trovare un vero sostituto, all’altezza dell’oggetto d’amore perduto, e non un suo surrogato, che ovviamente non sarà mai in grado di riempire il vuoto creato dal lutto.
p. s. Questo movimento si verifica spesso anche fuori della psicoterapia, nelle normali relazioni.
Quando, di fronte ad un abbandono o anche solo alla sua minaccia, una persona sostituisce subito o addirittura preventivamente l’oggetto d’amore perduto, anziché elaborare fino in fondo il dolore della perdita subita o anche solo temuta.
© Giovanni Lamagna
Sullo spot della Esselunga.
Sono tra quelli che ha reagito negativamente allo spot pubblicitario della Esselunga di cui tanto si sta parlando in questi giorni; ieri ho utilizzato addirittura parole feroci per commentare il post di un’amica che ne aveva scritto su facebook esprimendo la sua opinione; oggi ne vorrei parlare in maniera più riflessiva e pacata.
Ho reagito negativamente, dicevo, ma per un motivo diverso da quello per il quale i molti critici lo hanno condannato; e cioè che esso esalterebbe, rimpiangendolo, il modello della famiglia tradizionale, indissolubile, per principio contraria alle separazioni e al divorzio, in nome del bene supremo della “tutela” dei figli.
Non escludo che lo spot (coi tempi che corrono) intendesse lanciare, tra le righe, un messaggio in questo senso; anche se devo riconoscere, dopo averlo visto più volte, che, seppure voleva farlo, non lo ha fatto in maniera eclatante, rozza o volgare: il suo messaggio, da questo punto di vista, non è univoco e chiaro.
E tuttavia, in ogni caso, non mi sembra questa la ragione principale per criticarlo, come hanno fatto in molti, i più.
Il motivo per cui lo critico è che – come in tante occasioni del resto (la guerra, la violenza sulle donne, i naufragi degli immigrati, i terremoti, le alluvioni, la fame e le malattie nei paesi sottosviluppati…), in una società che oramai fa dello spettacolo il suo paradigma principale – ancora una volta una situazione in sé oggettivamente dolorosa, triste, malinconica, viene fatta oggetto di una piccola sceneggiatura.
Non solo; ma questa piccola sceneggiatura viene utilizzata come pretesto per fare pubblicità a un prodotto; viene in pratica messa sul mercato per fare pubblicità ad un supermercato.
Mi chiedo: quale e quanta ipocrisia c’è dentro una società che vieta ai giornali e ai telegiornali di mostrare i volti dei minori, quando accadono fatti nei quali essi sono coinvolti, e poi consente ad uno spot come questo di mettere in mostra la sofferenza evidente (addirittura vistosa) di una bambina per fare pubblicità a un prodotto?
Mi chiedo: cosa proverà il bambino o la bambina che vive la stessa situazione mostrata in questo spot, quando vedrà scorrere davanti ai suoi occhi – continuamente, perché viene trasmesso più volte nel corso della giornata – le immagini della loro coetanea che soffre, è triste, per la separazione dei suoi genitori?
Se lo è chiesto l’autore dello spot? Se lo sono chiesti la Meloni (che lo ha trovato “molto bello e toccante”), i ministri Crosetto e Salvini, che lo hanno esaltato senza ombra di dubbi?
Se lo è chiesto lo stesso Massimo Recalcati, psicoanalista insigne, che su “la Repubblica” di ieri ha scritto un articolo intitolato “Come ci guardano i figli” e che ha definito “immaturi” (ancora una volta facendo ricorso a questo aggettivo per tagliare la società in due) tutti coloro che hanno criticato lo spot?
© Giovanni Lamagna
Felicità e infelicità.
In un mondo di infelici è difficile essere felici.
Come si può essere pienamente felici quando si è circondati da così tanta sofferenza, materiale e spirituale?
© Giovanni Lamagna
Il sintomo doloroso è un messaggio.
Il sintomo doloroso (sia quello fisico che quello psichico) è un messaggio che il nostro corpo o la nostra psiche (la sua parte inconscia) ci lanciano per dirci che c’è qualcosa di sbagliato nella nostra vita, qualcosa che dobbiamo correggere, medicare, sanare.
La cura è una forma di conversione: attraverso la cura decidiamo di cambiare strada, di prendere una via diversa da quella stavamo seguendo e che, almeno da un certo momento in poi, ha cominciato a darci un disagio o una vera e propria sofferenza.
© Giovanni Lamagna
Raccontare la sofferenza.
Trovare le parole per dirla è uno dei modi per non dico eliminare completamente la sofferenza che ci affligge (sarebbe troppo bello!), ma quanto meno per lenirla, alleviarla, addolcirla un po’.
© Giovanni Lamagna
Sulla “stagnazione melanconica del lutto”.
La “stagnazione melanconica del lutto” – di cui parla Massimo Recalcati a pag. 46 del suo “La luce delle stelle morte” (2022 Feltrinelli) – è, a mio avviso, una (quasi) diagnosi, il sintomo patologico acclarato in una persona di un insufficiente, carente, “amore per la vita”.
Quell’amore di cui ognuno di noi nasce dotato, in una misura più o meno adeguata, che potremmo identificare con l’istinto di sopravvivenza; o, meglio, con la “volontà di vivere”, di cui parlava Schopenhauer.
Nella persona incapace di elaborare un lutto in tempi ragionevoli si fronteggiano, competono, confliggono “l’amore per la vita” e “l’amore per la morte”: dell’esistenza di questi due amori ci ha parlato l’ultimo Freud, che li considerava e chiamava addirittura “istinti”.
In questo tipo di persona l’amore per la vita non riesce ad averla vinta sull’amore per la morte.
Il secondo blocca il fluire normale, l’affermarsi del primo, lo neutralizza e, talvolta, vince, prevale sul primo.
In tal caso il soggetto afflitto da un lutto irrisolto imbocca una strada di regressione che gli intossica l’esistenza sul piano psichico; non solo; talvolta può rovinargli persino la salute fisica.
Da cosa è causata una simile dinamica, cosa spiega una tale deriva spirituale ed umana?
Provo a dare una risposta, in base a ciò che ho spesso osservato in persone afflitte da tali problematiche.
Il soggetto di cui stiamo qui parlando non può accettare in buona sostanza che l’altro sia morto e che lui sia, invece, ancora vivo; si sente in colpa per questo e, quindi, bisognoso di espiare; espiare vuol dire morire in qualche modo con l’altro, assieme a lui.
Lo stesso fenomeno (anche se in forme più blande e meno tragiche) può verificarsi anche di fronte alla “semplice” sofferenza (quindi non la morte) dell’altro.
In questo caso il soggetto predisposto alla “stagnazione malinconica del lutto” non può accettare che la sua vita goda dei piaceri e delle gioie che una vita normalmente (salvo rari casi eccezionali) è in grado di donare.
Allora deve fare in modo di angustiarsi, di rovinarsi l’esistenza – anche quando non ce ne sarebbero le ragioni personali oggettive – per poter condividere il dolore, il patire dell’altro.
Sarebbe, infatti, per lui insostenibile stare bene o anche solo non stare male mentre l’altro sta male e soffre; se ne sentirebbe insopportabilmente in colpa.
Colpa che può essere lenita, in qualche misura, solo dalla sofferenza propria, dalla condivisione sulla propria pelle della sofferenza dell’altro.
Quasi a conferma dell’antico proverbio, che, come tutti i proverbi, una qualche verità la dice: mal comune è mezzo gaudio.
© Giovanni Lamagna
Desideri, sofferenza, felicità, infelicità.
Non condivido affatto la teoria buddhista che bisogna rinunciare ai desideri per liberarsi dalla sofferenza e raggiungere il nirvana.
Credo, però, che ai desideri occorra rinunciare quando la loro realizzazione si manifesta, con tutta evidenza, del tutto infondata e impossibile o addirittura dannosa e distruttiva.
Perseguire desideri impossibili e irrealizzabili (per non parlare, ovviamente, di quelli dannosi e distruttivi) è sicuramente causa di disordine interiore e, quindi, di infelicità; a volte di grave infelicità.
Non c’è bisogno di essere buddhisti per pensarlo; anche la tradizione mistica e filosofica occidentale condivide lo stesso pensiero.
© Giovanni Lamagna