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Figlio/a di zoccola!

A Napoli si usa appellare spesso qualcuno o qualcuna con l’espressione “sei un figlio (o una figlia) di zoccola!”.

A volte con un’intenzione chiaramente offensiva e dispregiativa.

Più spesso col tono affettuoso di chi sta a fare addirittura un complimento.

Perché dico questo?

Per evidenziare che (anche) nella cultura popolare il termine “zoccola” ha una valenza quantomeno ambivalente.

Può significare una persona del tutto negativa: volgare, rozza, moralmente inaffidabile, una persona che si prostituisce.

Ma può anche significare (e più spesso significa) una persona in gamba, una persona con i giusti attributi (e qui non mi riferisco solo a quelli sessuali, anche se pure a quelli), una persona che sa quello che vuole e sa farsi valere; in svariati campi.

© Giovanni Lamagna

Sullo spot della Esselunga.

Sono tra quelli che ha reagito negativamente allo spot pubblicitario della Esselunga di cui tanto si sta parlando in questi giorni; ieri ho utilizzato addirittura parole feroci per commentare il post di un’amica che ne aveva scritto su facebook esprimendo la sua opinione; oggi ne vorrei parlare in maniera più riflessiva e pacata.

Ho reagito negativamente, dicevo, ma per un motivo diverso da quello per il quale i molti critici lo hanno condannato; e cioè che esso esalterebbe, rimpiangendolo, il modello della famiglia tradizionale, indissolubile, per principio contraria alle separazioni e al divorzio, in nome del bene supremo della “tutela” dei figli.

Non escludo che lo spot (coi tempi che corrono) intendesse lanciare, tra le righe, un messaggio in questo senso; anche se devo riconoscere, dopo averlo visto più volte, che, seppure voleva farlo, non lo ha fatto in maniera eclatante, rozza o volgare: il suo messaggio, da questo punto di vista, non è univoco e chiaro.

E tuttavia, in ogni caso, non mi sembra questa la ragione principale per criticarlo, come hanno fatto in molti, i più.

Il motivo per cui lo critico è che – come in tante occasioni del resto (la guerra, la violenza sulle donne, i naufragi degli immigrati, i terremoti, le alluvioni, la fame e le malattie nei paesi sottosviluppati…), in una società che oramai fa dello spettacolo il suo paradigma principale – ancora una volta una situazione in sé oggettivamente dolorosa, triste, malinconica, viene fatta oggetto di una piccola sceneggiatura.

Non solo; ma questa piccola sceneggiatura viene utilizzata come pretesto per fare pubblicità a un prodotto; viene in pratica messa sul mercato per fare pubblicità ad un supermercato.

Mi chiedo: quale e quanta ipocrisia c’è dentro una società che vieta ai giornali e ai telegiornali di mostrare i volti dei minori, quando accadono fatti nei quali essi sono coinvolti, e poi consente ad uno spot come questo di mettere in mostra la sofferenza evidente (addirittura vistosa) di una bambina per fare pubblicità a un prodotto?

Mi chiedo: cosa proverà il bambino o la bambina che vive la stessa situazione mostrata in questo spot, quando vedrà scorrere davanti ai suoi occhi – continuamente, perché viene trasmesso più volte nel corso della giornata – le immagini della loro coetanea che soffre, è triste, per la separazione dei suoi genitori?

Se lo è chiesto l’autore dello spot? Se lo sono chiesti la Meloni (che lo ha trovato “molto bello e toccante”), i ministri Crosetto e Salvini, che lo hanno esaltato senza ombra di dubbi?

Se lo è chiesto lo stesso Massimo Recalcati, psicoanalista insigne, che su “la Repubblica” di ieri ha scritto un articolo intitolato “Come ci guardano i figli” e che ha definito “immaturi” (ancora una volta facendo ricorso a questo aggettivo per tagliare la società in due) tutti coloro che hanno criticato lo spot?

© Giovanni Lamagna