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L’Altro da me.

“L’altro da me” non esiste, è il frutto di una mia invenzione/creazione.

O, meglio, della mia capacità di simbolizzazione.

Ovverossia della capacità di sostituire all’Oggetto primario perduto (la Cosa materna), interdettomi dalla Legge di castrazione del Padre, un oggetto simbolico.

“L’altro da me”, dunque, non esiste.

Eppure è ciò che mi permette di poter continuare a dare un senso alla mia esistenza.

Che mi permette di recuperare il senso smarrito dopo il lutto della perdita dell’oggetto primario: “la Cosa”, di cui parlava Lacan.

© Giovanni Lamagna

Non basta voler amare. Bisogna imparare ad amare.

Non basta volere amare.

Ancora meno basta dire “Ti amo”.

Occorre, si deve, sapere amare, per amare davvero.

Occorre, insomma, tradurre l’intenzione di amare, il sentimento dell’amore, in atti effettivi di amore, di cura, attenzione, rispetto, interesse, ascolto, verso la persona che si dice di amare, che si desidera amare.

Infatti, quasi sempre in noi – come ci ha insegnato la psicoanalisi, specie Jung, che sosteneva l’esistenza in noi di una duplice personalità – c’è una persona che vuole una cosa e una persona che ne vuole un’altra, a volte addirittura una opposta alla prima.

C’è, dunque, una persona che ama effettivamente e una persona che, se non arriva proprio ad odiare (anche se, alle volte, arriva persino a questo), di certo non ama per davvero.

Ora, fin quando questa seconda persona è viva, attiva in noi, fin quando non sfumerà, non si dissolverà, perché sarà stata sconfitta, domata e resa inerme, l’amore in noi, il nostro amore sarà sempre in conflitto con sentimenti che ad esso si oppongono e, quindi, sarà disturbato, incerto, ambivalente, a volte impotente, come paralizzato.

Ne consegue che non basta volere amare.

Bisogna imparare ad amare, bisogna fare dell’amore una “costruzione”, come dice una bella canzone di Ivano Fossati.

L’amore in noi non è, affatto, un moto spontaneo, naturale, scontato, come i più ritengono: se io provo amore per una persona, allora la sto anche amando.

No, non è così, non è così semplice.

In amore non si nasce già imparati, l’amore si deve imparare, si deve apprendere.

Come diceva il grande Eric Fromm, l’amore è un’arte.

Che, come tutte le arti, si apprende, bisogna apprendere.

Se non ci sono, però, la giusta volontà, il desiderio fermo e non oscillante, la decisione forte e non più contrastata di andare alla scuola dell’amore, l’amore non si apprende, rimane in noi una pia intenzione, che non si realizza poi nei fatti.

La volontà e il desiderio di amare non diventano capacità effettiva di amare.

Come spiega bene Luigi Zoja (in “Nascere non basta. Iniziazione e tossicodipendenza”; 1985, Raffaello Cortina Editore), “L’innamoramento… nasce dall’inconscio. Ma… ha poi bisogno di forza di volontà, di forza dell’Io, per trasformarsi da fantasia autistica in evento reale che assolve una funzione rinnovatrice.”

E diventare, quindi, amore.

“L’amore – afferma ancora Zoja – poco alla volta, non dovrebbe essere più vissuto come “trasporto”, come qualcosa di esterno all’Io, come spinta dell’inconscio che ci trasporta. Va spostato nell’Io.”

In altre parole anche qui – come ci ha insegnato Freud – all’Es (l’amore come forza dell’inconscio, puro “trasporto” e “fantasia autistica”) dovrà subentrare l’Io (l’amore come forza conscia, della volontà; e, quindi, “evento reale”).

© Giovanni Lamagna

Non tutti quelli che vi aspirano sono predisposti, adatti a diventare psicoterapeuti.

In un colloquio del 21 novembre 1958 Carl Gustav Jung così riferisce alla sua collaboratrice Aniela Jaffé, che ne ha raccolto le parole:

Ho una capacità immediata di immedesimarmi negli altri, cosicché mi posso identificare con “n’importe qui”. Riesco a sentirmi, per così dire, sulla sua lunghezza d’onda. Mi sono sempre meravigliato che altre persone non riescano a farlo, e ho pensato che ciò sia dovuto a una mancanza di fantasia. Oppure che siano troppo rigidamente imprigionate nella propria linea personale.

A volte mi spavento nel vedere con quanta immediatezza io riesca a entrare nelle sensazioni vissute da altri esseri umani. Mi ci trovo semplicemente dentro, senza far nulla attivamente al riguardo. Io so poi esattamente quali sentimenti provino gli altri, soprattutto coloro che presentano qualche aspetto difficile da comprendere. Ne osservo magari l’andatura. Imito dentro di me il modo in cui camminano o come muovono le mani, e in questo modo scopro quali sentimenti si instaurino in me.

Un appellativo del Buddha, Tathagata, significa letteralmente “colui che così va”: colui che si muove in modo molto caratteristico. Questa è proprio l’espressione che indica l’individualità specifica di ciascuno. Il modo in cui uno cammina è molto peculiare. È essenzialmente la situazione umorale del momento che viene espressa nell’andatura; e questo mi colpisce a livello subliminale.

Dato che sono sufficientemente sicuro di me, posso lasciarmi andare a tali identificazioni; so di poterne uscire di nuovo. Io mi identifico con l’altro e lo riconosco, ma la cosa non riesce a sopraffarmi. Lei potrebbe restarne sommersa e ne sarebbe danneggiata; io invece ne riemergo come da un’onda di risacca.

(da Aniela Jaffé; “In dialogo con Carl Gustav Jung”; Bollati Boringhieri 2023; p. 149-150)

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In questo scritto viene fuori una straordinaria dote umana di Jung, di cui egli parla con molta semplicità e naturalezza, senza alcuna presunzione, ma, allo stesso tempo, con grande lucidità e consapevolezza: la capacità (possiamo anche dire innata) di leggere nel cuore degli altri, di intuirne stati d’animo e problematiche.

In altre parole l’empatia, termine oggi molto usato, forse persino abusato; dal momento che pochi poi in realtà la posseggono; come lo stesso Jung, maliziosamente, tra le righe sembra lasciare intendere.

Qui la prima riflessione che mi viene da fare è questa: non è l’empatia una dote/qualità che tutti gli psicoterapeuti dovrebbero possedere, in partenza, ancora prima di iniziare i loro studi e il loro percorso di formazione?

A cosa potranno, infatti, servirgli le nozioni apprese a scuola prima e all’Università poi e i corsi di formazione specialistica successivi, se ad un futuro psicoterapeuta manca questa dote/qualità di base, fondamentale?

Seconda riflessione: quanti psicoterapeuti, con tanto di laurea e corsi di specializzazione postlaurea, posseggono (anche solo a livelli ordinari) la qualità empatica di cui parla qui Jung e che lui aveva in maniera straordinaria e, forse, come dote innata?

A mio avviso, anzi a mia conoscenza, ben pochi!

Terza riflessione: non tutti sono adatti a fare gli psicoterapeuti; come non tutti – lo dico en passant – sono adatti a fare gli insegnanti; ci vogliono doti umane naturali e in un certo senso innate, che ben difficilmente si possono acquisire con lo studio e con la formazione; anche con le migliori intenzioni e con la migliore disposizione della volontà.

Lo studio e la formazione le possono affinare, arricchire, ma non le possono generare, creare, se esse non ci sono, in qualche modo e misura, già in partenza.

Non basta, dunque, desiderare o aspirare a fare lo psicoterapeuta o l’insegnante; bisogna esservi anche in qualche modo naturalmente predisposti.

© Giovanni Lamagna

Insoddisfazione sessuale maschile, mercato della prostituzione e diffusione della pornografia.

A me pare evidente che ci sia – ancora oggi, nonostante la “rivoluzione sessuale” del ‘68 – una notevole discrasia, tra la natura del desiderio sessuale maschile, ciò di cui esso si alimenta, e la capacità femminile (media) di condividerlo e soddisfarlo.

Qui, ovviamente, io parlo da maschio e non ho alcuna remora a farlo; perché il fatto che analoga discrasia ci sia, senza alcun dubbio, tra il desiderio sessuale femminile e la capacità maschile di soddisfarlo non elimina il problema, semmai lo raddoppia.

Tanto è vero che questa doppia discrasia sembra confermare ai miei occhi la nota teoria lacaniana, per molti incomprensibile, ma a questo punto – a me pare – non poi così difficile da intuire, de “l’inesistenza del rapporto sessuale”.

E, di conseguenza, spiegare anche altri due fenomeni; uno antico quanto l’uomo: il mercato della prostituzione; l’altro più recente, almeno quanto a diffusione: quello della pornografia.

L’oggettiva e diffusa insoddisfazione sessuale maschile nei confronti delle loro abituali compagne non giustifica – sia chiaro – né l’uno né l’altro fenomeno (entrambi sono risposte surrogatorie e degradanti al problema) ma in qualche modo li spiegano.

Ovviamente – ne sono pienamente consapevole – lo stesso problema di insoddisfazione potrebbe essere esaminato dal punto di vista femminile; ma questo discorso è forse meglio che lo affrontino le donne; senz’altro lo faranno meglio di me.

© Giovanni Lamagna

Violenza e linguaggio.

Il ricorso alla violenza fisica presuppone sempre un deficit della capacità di pensiero e di linguaggio, denuncia sempre comunque una sconfitta del pensiero e del linguaggio verbale.

Questi, infatti, per loro natura, si fondano sul ricorso all’astrazione e al simbolico, come sublimazione, trasfigurazione del reale.

Quanto più, dunque, una persona è incapace di sublimare, in altre parole di pensare, traducendo in parole, in linguaggio verbale, la sua aggressività, tanto più è incapace di dominare e arginare i suoi impulsi aggressivi.

Allora la violenza fisica, che – in alcuni casi estremi – diventa addirittura omicida, resta la sua unica forma di linguaggio e di (paradossale) comunicazione.

© Giovanni Lamagna

Lasciarsi andare ad un moto inerziale o assumere la guida consapevole della propria esistenza?

Molte persone ritengono che, ponendosi nei confronti della vita con un atteggiamento ultra-rilassato, in altre parole lasciandosi trascinare semplicemente dalla corrente, abbandonandosi alle onde, senza dare alle proprie azioni e scelte una direzione consapevole, senza farsi troppo domande e porsi troppi interrogativi, vivranno meglio, faticheranno e soffriranno di meno.

Nulla – a mio avviso – di più sbagliato, di più illusorio!

In questo modo, infatti, queste persone disperderanno una quantità di energie senza un obiettivo preciso e saranno preda degli umori più diversi e altalenanti: a volte saranno prese dall’entusiasmo (in genere, effimero e breve) altre volte dalla depressione e dallo sconforto (in genere, più frequenti e prolungati).

Tale atteggiamento nei confronti della vita è molto simile a quello di chi, dovendo fare un viaggio, non si preoccupa minimamente di farsi un programma prima di partire, di stabilire un itinerario almeno di massima, con le tappe dei luoghi da visitare e i tempi, almeno orientativi, da dedicare a ciascuna di esse.

Certo costui si risparmierà la fatica e forse anche la noia di questa ricerca e programmazione iniziali; ma poi, quando sarà giunto sul luogo meta del viaggio, dovrà perdere del tempo prezioso per orientarsi e forse questo gli impedirà di visitare tutti i luoghi che avrebbe potuto conoscere, se tale ricerca l’avesse fatta prima di partire.

Indubbiamente chi cerca di assumere il controllo, la guida della propria barca interiore, chi cercherà di darle una direzione, una rotta, pur in mezzo alle onde in rivolta e alle tempeste, chi in altre parole cercherà di connettersi con il proprio Sé profondo, all’inizio e forse anche per un periodo non brevissimo, faticherà parecchio, dovrà sottoporsi ad un esercizio che richiederà sforzo e costanza.

Ma una volta che la sua capacità di guida si sarà consolidata, che la disciplina che si sarà imposta sarà diventata in lui un’azione quasi automatica e irriflessa, egli faticherà molto di meno nel cammino della vita e vi troverà molta più soddisfazione di chi, per pigrizia, indolenza o iniziale paura, si sarà lasciato andare ad un moto inerziale e quasi senza alcun controllo e consapevolezza.

È vero, in questi due tipi di approccio all’esistenza molto c’entrano il temperamento con cui si nasce e l’educazione che si riceve da bambini.

Ma viene un tempo, più o meno per tutti, in cui si è chiamati a decidere in prima persona; anche perché si fanno esperienze e soprattutto si incontrano persone che ci invitano, stimolano al cambiamento.

Per cui anche chi nella prima fase della propria vita ha avuto un atteggiamento del primo tipo potrà decidere di dare una svolta alla propria esistenza ed assumere un atteggiamento del secondo tipo.

Ma è un dato di realtà che pochi ci riescono; qui vale l’antica parola evangelica “molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti” (Vangelo di Matteo 22, 14).

© Giovanni Lamagna

Rapporto col sesso e capacità di godersi la vita.

Mi vado convincendo ogni giorno di più che pochi sanno veramente godersi la vita.

E che questo abbia parecchio a che fare con il rapporto che molti hanno con la loro sessualità?

Forse – anzi sicuramente – è esagerato dire che gran parte dell’infelicità umana dipende da un cattivo rapporto col sesso.

Ci sono indubbiamente anche altre cose che fanno la felicità dell’uomo, oltre ad un buon rapporto con il sesso.

Ma è certo che un cattivo rapporto con il sesso incide negativamente (e parecchio, a mio avviso) sul benessere psico-fisico dell’essere umano.

© Giovanni Lamagna

Le ragioni del poli-amore contro quelle della monogamia.

Io credo che ogni donna (come del resto ogni uomo) abbia un suo carisma, cioè delle qualità potenziali, dalla cui esplicitazione dipenda la sua realizzazione di persona, cioè di essere umano.

Ci sono donne che hanno una marcata femminilità, che spesso si traduce in una spiccata e naturale, istintiva, innata capacità di attrazione erotica e sessuale.

Ce ne sono altre che hanno una forte propensione verso la maternità e la donazione agli altri.

Altre che brillano soprattutto per le loro capacità intellettuali e di raziocinio.

Altre ancora che hanno un forte senso operativo: sanno organizzare e risolvere problemi di ordine pratico.

Altre ancora che hanno un naturale e spiccato senso estetico: sono attratte dalla bellezza e sanno produrre bellezza.

Ognuno di questo tipo di donna potrà quindi attrarre un uomo per un motivo e per motivi di carattere diverso dalle altre.

E’ molto difficile, estremamente raro, se non del tutto impossibile, che tali caratteristiche diverse si ritrovino raggruppate, tutte allo stesso livello, nella stessa donna.

Ecco perché un uomo si può sentire attratto (e in maniera ugualmente importante e significativa) da più tipi di donne contemporaneamente.

Ovviamente quello che vale per un uomo nei confronti delle donne vale uguale, pari-pari, anche per una donna nei confronti dei maschi.

Se qui ho fatto riferimento alle donne è solo perché io sono un maschio che è attratto dalle donne.

Ma lo stesso ragionamento si può fare, a mio avviso, anche per le femmine che sono attratte dai maschi.

Anche una donna potrà sentire attrazione per più maschi contemporaneamente; uno lo attrarrà soprattutto per certe caratteristiche, altri l’attrarranno per altre caratteristiche.

Ecco perché è difficile, a mio avviso, molto difficile, sostenere le ragioni della monogamia contro quelle del poli-amore.

© Giovanni Lamagna

Libertà o necessità?

La mia vita (ma penso che la stessa cosa potrebbe dire chiunque parlando della propria) è una perfetta esemplificazione delle riflessioni che spesso faccio – in ultimo quelle che stanno accompagnando la lettura de “L’esistenzialismo è un umanismo” (1946) di Sartre – a proposito del tema della libertà e della necessità.

Se la guardo retrospettivamente, vedo e penso che essa non poteva che essere quale è stata.

Credo di aver fatto tutto quello che potevo; tutto quello che era nelle mie capacità fisiche, emotive e intellettuali, tenuto conto del contesto ambientale e di quello storico nel quale sono nato, cresciuto e vissuto.

Posso, quindi, dire, in un certo senso a posteriori, che la mia vita si è svolta (e suppongo si svolgerà ancora, per quel poco che ancora me ne resta) all’insegna di una sua interna necessità.

Allo stesso tempo sento che in me c’erano delle potenzialità che non si sono realizzate del tutto o che si sono realizzate solo in maniera molto parziale; e che oramai non si realizzeranno più, visto il tempo (suppongo molto limitato) che mi resta da vivere.

Mi ci vorrebbe una vita molto più lunga di quella che invece, in base alle statistiche, mi aspetta, per realizzare quelle potenzialità (ammesso che siano vere potenzialità).

O, meglio, mi servirebbe un’altra vita, una vita che ricominciasse da capo, ma dal punto in cui sono arrivato oggi, fresca di energie giovanili, ma con il bagaglio di risorse esperienziali che ho accumulato nel corso del tempo di questa mia “prima” vita.

Come capisco, quindi, certe credenze, soprattutto orientali, che immaginano diverse vite della stessa persona, attraverso successive reincarnazioni!

Esse esprimono, infatti, lo stesso desiderio, molto fantasmatico e immaginifico, che provo io oggi: quello di avere una vita allungata.

O, meglio, di avere una seconda vita, per poter realizzare almeno una parte di quelle potenzialità che sentivo (sento) di avere dentro e che sicuramente oramai non realizzerò più, dato il tempo limitato che mi rimane a disposizione.

Desiderio che mi (ci) dà l’illusione della libertà; ovverossia di ciò che poteva essere e non è stato; come se quello che non è stato sia/fosse in qualche modo dipeso da una mia (nostra) volontà, da una mia (nostra) libera decisione.

Cosa che probabilmente (anzi – per me – sicuramente) è solo una magnifica illusione.

© Giovanni Lamagna

La capacità di comunicare.

La capacità di comunicare bene cogli altri non dipende solo da una disposizione naturale, che si manifesta spontanea.

Anche se, indubbiamente, vi sono alcune persone che per carattere vi sono maggiormente portate.

Essa, anche in chi vi è naturalmente meglio predisposto, va comunque educata, curata, sviluppata, coltivata, come qualsiasi altra abilità di natura fisica o psichica.

© Giovanni Lamagna