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Sesso, morale e potere.
A voler tenere conto sia della lezione freudiana che di quella marxiana, possiamo dire che la morale sessuale (o, per meglio dire, sessuofobica) è per le coscienze, per la psiche delle persone, ciò che la proprietà dei mezzi di produzione è per i rapporti economici all’interno delle società.
Sono entrambe strumenti di oppressione, sottomissione e, quindi, di potere.
Attraverso i sensi di colpa (legati al sesso) le gerarchie (di qualsiasi tipo, ma soprattutto quelle religiose) hanno da sempre nella storia affermato e rinsaldato il loro potere “spirituale”.
© Giovanni Lamagna
Etica della responsabilità ed etica della convinzione.
Anche a non voler considerare la menzogna una virtù o, quanto meno, una dote, un’abilità, dell’uomo politico (vedi ciò che ne pensavano Platone, Machiavelli, Hannah Harendt), non si può di certo negare che l’uomo politico sia tenuto spesso alla riservatezza, alla diplomazia, in altre parole a non poter dire sempre e comunque ciò che sa o che pensa (vedi ciò che afferma Gramsci in proposito: “Quaderni del carcere”; pp. 669-700).
L’intellettuale, invece, per definizione è tenuto a dire sempre ciò che pensa, a dire cioè la verità o, meglio, quello che egli ritiene sia la verità.
Sempre e comunque, a qualunque costo; pena tradire la sua funzione specifica.
L’intellettuale non ha interessi superiori di cui tener conto, se non la verità come valore assoluto.
Da questo punto di vista il “politico” e l’ “intellettuale” hanno deontologie molto diverse.
Gli intellettuali, quindi, possono, anzi devono, costituire la coscienza critica, il pungolo morale dei politici.
Perché essi hanno una libertà, un’assenza di vincoli sociali, che i politici non hanno, non possono permettersi.
Potremmo concludere – prendendo a prestito due espressioni oramai divenute classiche di Max Weber – che, mentre i politici sono tenuti ad agire prevalentemente secondo “l’etica della responsabilità”, gli intellettuali sono tenuti ad agire prevalentemente secondo “l’etica della convinzione”.
© Giovanni Lamagna
Morale sessuale.
La morale sessuale della maggior parte delle persone è figlia della pigrizia, del conformismo, delle convenzioni, del quieto vivere, delle paure e dei tabù, della povertà di fantasia e della scarsa immaginazione.
È, insomma, a mio avviso, figlia della loro miseria emotiva, sentimentale, intellettuale e spirituale in senso lato.
Altro che virtù: la virtù c’entra ben poco!
Se fosse figlia della virtù, sarebbe accompagnata dalla gioia di vivere e, quindi, dall’allegria, dall’entusiasmo, dalla vitalità, dalla pace interiore ed esteriore.
E, invece, io vedo ben poche di queste “qualità” in giro tra le persone con le quali vengo in contatto, in maniera più o meno intima e profonda.
© Giovanni Lamagna
Il paradosso della psicoterapia: accettare sé stessi/cambiare sé stessi.
James Hillman, nel suo “La ricerca interiore” (Moretti & Vitali 2010), tra pag. 79 e pag. 80, scrive alcune cose, a mio avviso di fondamentale importanza, riguardo al suo modo di intendere la psicoterapia.
Le riporto qui in maniera schematica con parole mie, citando ogni tanto le sue (tra virgolette) e osando integrare, in qualche punto, il suo pensiero con il mio.
Lo faccio non solo perché penso che dicano cose molto importanti e significative a chiunque svolga una qualsiasi professione di aiuto; quindi non solo a chi fa lo psicoterapeuta di “mestiere”.
Ma perché penso che dicano cose molto importanti e significative anche a chi voglia impegnarsi da solo (senza cioè aiuti esterni) in un percorso di crescita interiore, per realizzare al meglio le sue potenzialità, la sua vocazione fondamentale.
1.Parto allora dalla prima affermazione di Hillman: “Amarsi non è una cosa facile”; con la quale concordo, anche se essa, sulle prime, può apparire paradossale.
Infatti, “amare sé stessi” significa non solo accettare la parte di sé che (eventualmente) risplende e ci piace, ma anche la parte di sé che sta in ombra, quella che di solito tendiamo a non mostrare all’esterno, perché non ci piace.
L’amore di sé richiede, insomma, l’accettazione (quantomeno l’accettazione) di tutte le parti di sé: quelle che ci piacciono e quelle che non ci piacciono.
L’umiltà di dire (innanzitutto a sé stessi e poi – come postura psicologica di fondo – anche agli altri): io sono questo, io sono fatto così; io mi accetto per come sono, abbiate anche voi (altri) la bontà, la misericordia, di accettarmi per come sono.
2. Senza questa accettazione la stessa psicoterapia non può manco iniziare.
In questo, il ruolo dello psicoterapeuta è fondamentale; chi svolge una professione di aiuto, come prima cosa, deve accettare così com’è la persona che è venuta da lui in cerca di aiuto e deve aiutare costui/costei a fare altrettanto; almeno come posizione di partenza.
Se lo psicoterapeuta o il counselor si mettono a giudicare il loro cliente e come prima cosa gli indicano in quale modo e in quale direzione deve cambiare, la relazione d’aiuto abortisce ancora prima di iniziare.
L’accettazione preliminare e incondizionata di sé – dice Hillman – è già parte della terapia; anzi costituisce la base, la prima fase di ogni terapia.
3. Questa accettazione deve essere vera e quindi totale; non può essere diplomatica e quindi parziale, finalizzata cioè ad altri scopi: la cura, la guarigione, la realizzazione di sé, il potenziamento dell’Io…
Deve essere, in un certo senso, come l’amore della madre, che esiste e sussiste a prescindere; a prescindere dalle doti e dalle qualità del figlio e, persino, dal suo comportamento morale; per una madre il figlio è figlio, sempre e comunque.
4. E però… qui c’è un però… che fonda il paradosso stesso della vita e, quindi, anche della terapia; che costituisce un po’ la sua follia, che non è la follia solo di alcuni (i matti, i nevrotici…), ma è la follia che possiamo rintracciare in tutti noi.
Allo stesso tempo che si accoglie ed accetta la propria Ombra, “gioiosamente”, per certi aspetti addirittura “definitivamente”, nel corso della psicoterapia si prende consapevolezza che ci sono parti di sé che sono “gravose e intollerabili e che devono cambiare”.
Qui insorge il ruolo che solitamente, prevalentemente (anche se non esclusivamente), svolge il padre nel rapporto genitori-figli.
Mentre la madre accetta e ama incondizionatamente il figlio, il padre gli impone degli obblighi, in quanto rappresenta “lacanianamente” la Legge; il padre gli indica dei traguardi, degli obiettivi.
Il paradosso della terapia è che ti porta, ti guida ad accettare, fino in fondo, incondizionatamente te stesso, quello che sei; ma, allo stesso tempo, ti chiede di cambiare, di apportare alla tua vita i cambiamenti necessari a realizzare al meglio le tue potenzialità.
La consapevolezza di sé e l’accoglimento/accettazione della propria Ombra costituiscono solo la prima parte della terapia, ne sono la base, ne rappresentano le fondamenta; ma su queste fondamenta bisogna poi costruire il nuovo Sé.
Quello capace di eliminare (il più possibile) dalla propria vita i fattori che generano sofferenze non necessarie e di aprirsi ai piaceri, alle gioie e perfino ai momenti di felicità possibili, alla nostra portata; in altre parole il Sé sano, rigenerato, persino saggio.
5. Qui – dice Hillman – gli opposti si incontrano e si integrano.
“Si fa tutto con impegno e al tempo stesso si lascia perdere”; io aggiungo: si fa tutto con impegno, come se si stesse lavorando, e allo stesso tempo si fa tutto allegramente, gioiosamente, come se si stesse giocando; si fa come se tutto dipendesse da noi e allo stesso tempo sapendo bene che non tutto dipende da noi.
“… si giudica con durezza, e si sta insieme contenti.”; io aggiungo: ci si giudica con durezza, paternamente, ma allo stesso tempo ci si giudica con dolcezza, maternamente.
“Moralismo occidentale e abbandono orientale”, io preferisco dire “attivismo occidentale e fatalismo orientale” si incontrano e fondono in un singolare, un po’ misterioso e pur reale paradosso.
Il Dio ebraico della Legge, dei dieci Comandamenti e della Giustizia, incontra e si fonde con il Dio ebraico “della misericordia, del perdono e dell’amore”.
Si vive, insomma, come i Chassidim, capaci di unire profondo rigore morale e intenso “piacere per la vita”.
© Giovanni Lamagna
Solitudine,isolamento, compagnia.
Io sto bene da solo; anzi, in certi momenti, preferisco più stare da solo che in compagnia.
Ma non sono certo contento quando la solitudine diventa troppo prolungata.
Quando cioè la solitudine corre il rischio di trasformarsi in isolamento, che è altra cosa dalla solitudine.
La solitudine, infatti, si sceglie; l’isolamento si subisce.
Dopo un po’ che sono stato da solo (e, magari, ci sono stato pure bene) è inevitabile che anch’io cerchi compagnia.
Naturalmente una buona compagnia, non una qualsiasi compagnia.
Morale della “favola” (almeno per me): la solitudine fa bene entro certi limiti, fa male quando supera certi limiti.
Ovviamente i limiti di cui parlo qui sono del tutto soggettivi.
© Giovanni Lamagna
Legittima difesa e nonviolenza.
Ho la ferma, solida, intuizione (non arrivo alla presunzione di definirla “convinzione”) che la violenza contraccambiata sia solo uno dei modi coi quali si possa (qualcuno invece presuntuosamente, arriva a dire: si debba) reagire alla violenza ricevuta.
Certo, la risposta violenta è sicuramente quella più istintiva, quella che viene più immediata e facile; e (forse per questo) quella che finora ha prevalso nella storia delle relazioni umane, soprattutto tra le Comunità e gli Stati.
Il concetto di “difesa legittima” (per quanto limitato dal carattere della giusta proporzionalità rispetto all’offesa ricevuta) è parte integrante del diritto di tutti gli Stati, anche di quelli più democratici e tendenzialmente pacifisti.
Ed è stato assunto perfino dalla morale cristiana, in modo particolare da quella cattolica; anche se negli ultimi decenni molti pronunciamenti delle gerarchie ecclesiastiche hanno cominciato a metterlo seriamente in discussione.
Eppure è mia profonda sensazione che alla reazione violenta in risposta all’azione violenta subita possano esserci delle alternative, concretamente praticabili; e che, prima o poi bisognerà cominciare ad attuarle, se l’Umanità vorrà evitare di mettersi (se non si è già messa) sul pendio scosceso che la porterebbe fatalmente verso la catastrofe atomica mondiale e, quindi, verso il suicidio.
Ritengo, infatti, che sia istintivo e, quindi, naturale reagire difendendosi con la violenza dalla violenza, ma che sia altrettanto naturale e forse persino istintivo (almeno per alcuni) provare ripugnanza per la violenza in sé, anche per quella eventuale difensiva e non solo (com’è ovvio) per quella eventuale subita.
Chi prova ripugnanza istintiva, direi addirittura fisica prima che morale, verso ogni forma di violenza, avverte intimamente e profondamente che dovrà reagire con metodi non violenti alla violenza di cui sarà oggetto, che “all’occhio per occhio, al dente per dente” dovrà sostituire, se non proprio la scelta evangelica del “porgere l’altra guancia”, una difesa attiva nonviolenta.
Anche a costo di risultare inizialmente perdente e di dare scandalo, apparendo codardo agli occhi di chi non vede e non concepisce alternative alla “legittima difesa violenta”.
Ma tant’è: qui si confrontano due visioni del mondo, che entrambe hanno, a mio modesto parere, dei fondamenti di razionalità.
Anche se a chi ne sostiene una (specie a chi non vede alternative alla “legittima difesa violenta”) risulterà difficile riconoscere i fondamenti di razionalità (e, quindi, di legittimità) dell’altra.
La mia previsione è che non sarà la preveggente autocoscienza (come sarebbe auspicabile, anche se forse è pura utopia) ma la storia e solo la storia a stabilire (quindi – purtroppo! -solo a posteriori) quale di essa era la più saggia e lungimirante.
Spero solo che non sarà una storia tragica, anzi apocalittica.
Come temo, invece, sarà, se l’Umanità non si deciderà a fare (quanto prima, non ci resta molto tempo a disposizione) una scelta radicale di nonviolenza.
Che poi – sia detto qui solo per inciso; il discorso richiederebbe ben altro spazio – non vuol dire affatto arrendersi passivamente alla violenza subita (come la caricatura propagandistica che ne fanno i “militaristi” tende a far passare nel comune immaginario), ma significa fare ricorso ad altre forme di conflitto, diverse da quelle pur legittime (almeno in sede teorica) della difesa violenta, dell’occhio per occhio, dente per dente.
© Giovanni Lamagna
Non sempre l’obbedienza alla Legge è una virtù.
L’unica funzione che riconosco legittima della Legge (sia quella giuridica che quella morale) è di far presente al soggetto i limiti che impone la Realtà.
Quando la Legge pretende di imporre limiti che niente hanno a che fare con il principio freudiano di realtà, commette un abuso.
E’, a mio avviso, una Legge… fuori legge, una legge capricciosa; alla quale, quindi, è lecito disobbedire.
Non sempre, allora, l’obbedienza è una virtù etica.
Anzi, in certi casi, disobbedire è un dovere morale.
© Giovanni Lamagna
Sesso e consenso.
Nel sesso tutto è moralmente (oltre che giuridicamente) lecito, se incontra il consenso libero dell’altro/a e se non offende la sensibilità, il “senso del pudore” di terzi.
Sono leciti tutti i desideri, tutte le fantasie, tutte le parole, tutte le posizioni, tutte le situazioni, perfino quelle che una volta la psichiatria giudicava “perversioni”.
Dal momento che – come ci hanno insegnato Freud e la psicoanalisi, rivoluzionando la psichiatria classica – la sessualità umana, al contrario di quella bestiale, è per sua natura “perversa e polimorfa”.
Nel senso che l’uomo riesce, quando vuole, a separarla (perciò, “perversa”) dal suo scopo biologico primario, quello della procreazione, ed è capace di viverla nelle forme più varie e diverse (perciò, “polimorfa”).
Ovviamente per consenso libero si intende un consenso non comprato, non ricevuto per circonvenzione d’incapace, né, tantomeno, estorto con la violenza fisica o morale.
Ogni riferimento a Silvio Berlusconi (pace all’anima sua!) è puramente casuale; anche se la sua morte recente mi ha dato lo spunto per questa riflessione.
© Giovanni Lamagna