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Pseudomarxismo.

Non c’è niente di più lontano dal pensiero marxista del ritenere che in contesti economico-sociali diversi siano applicabili le stesse procedure (economiche, sociali, culturali, politiche e istituzionali) di riforma o, addirittura, di rivoluzione.

© Giovanni Lamagna

Sul messaggio di Cristo.

Il messaggio di Cristo – che arriva a comandarci l’amore per il prossimo e a consigliarci, addirittura, di porgere l’altra guancia a chi ci ha dato uno schiaffo – è per me di una forza straordinaria, anzi sconvolgente.

Mi è chiaro, del tutto evidente, perché sia persino scandaloso per il mondo, per il modo di pensare comune: quello del 99% delle persone.

Perché ci chiede di andare contro l’istinto e, quindi, in un certo senso, contro la nostra natura primigenia, che è quella animale.

Non sorprende, pertanto, che in alcuni casi (anzi, diciamo pure le cose fino in fondo: nella maggior parte dei casi), il comandamento di Cristo provochi un sentimento istintivo di opposizione, di rifiuto, anzi di rivolta.

Cristo ci chiede di andare, se non contro, di certo oltre la nostra natura originaria; ci chiede di diventare altro; ci chiede quasi di inventare un’altra natura.

Altra da quella del “homo homini lupus”, a cui Hobbes e – in fondo, in fondo – lo stesso Machiavelli pensavano si riducesse e fosse condannata la natura umana.

Ci chiede, quindi, di operare una vera e propria rivoluzione; interiore prima che esteriore, spirituale prima che sociale e politica.

Una rivoluzione interiore e spirituale senza la quale anche quelle sociali e politiche avrebbero/hanno ben poco solide fondamenta.

© Giovanni Lamagna

Fraternità e rapporti sociopolitici.

Nel libro-intervista “La speranza oggi” (Mimesis 2019) Sartre afferma (pag. 102) di non credere che il rapporto primario tra gli uomini sia quello di produzione, come sosteneva Marx.

Sartre afferma (in modo quasi sorprendente, conoscendo il suo itinerario filosofico) che “il rapporto più profondo tra gli uomini è quello che li unisce al di là del rapporto di produzione. È quello che fa in modo che essi siano gli uni per gli altri un’altra cosa dall’essere produttivi. Sono uomini. (…) Tutta la distinzione delle sovrastrutture di Marx è un buon lavoro, ma è interamente sbagliato, perché il rapporto primario di un uomo con un altro uomo è un’altra cosa…” (pag. 102)

Sartre fa addirittura autocritica rispetto al suo precedente pensiero, quando afferma: “… se considero la società come l’ho considerata nella “Critica della ragione dialettica”, devo ammettere che la fraternità vi ha poco posto. Se, al contrario, considero la società come il risultato di un legame tra gli uomini più fondamentale della politica, allora ritengo che le persone dovrebbero avere o possono avere o hanno un certo rapporto primario che è il rapporto di fraternità… il rapporto familiare è primario rispetto a tutte le altre relazioni… In un certo senso, formiamo una sola famiglia.” (pag. 102-103)

Sono abbastanza e sostanzialmente d’accordo con queste affermazioni di Sartre; ma non del tutto e non completamente; per cui voglio analizzare ed esprimere la mia posizione in proposito.

Gli uomini (anche per me) nella loro “essenza” (termine nel quale – lo so – Sartre non si sarebbe riconosciuto, ma che io invece ritengo legittimo dal punto di vista filosofico), sono tra loro fratelli, nel senso che appartengono alla stessa famiglia, allo stesso ceppo di origine.

E, però, per essere fratelli, non solo nella loro astratta essenza ontologica, ma anche nella concreta pratica sociale, occorre (la condizione è) che si modifichino radicalmente gli attuali rapporti di produzione, che oggi, quasi sempre, tutto sono tranne che rapporti basati sulla fratellanza.

Per cui il tema della rivoluzione, posto da Marx, ovverossia della modifica dei rapporti di produzione, torna per me immediatamente a galla nella pratica, dopo essere stato apparentemente messo, da Sartre, in secondo piano nella teoria, con le affermazioni che ho citato all’inizio.

Infatti, solo nella misura in cui sarà superata la dicotomia sociale tra coloro che detengono la proprietà dei mezzi di produzione e coloro che ne sono privi e che possono solo offrire sé stessi sul mercato del lavoro (quasi merce tra le merci) per far funzionare i mezzi di produzione di cui attualmente sono proprietari esclusivi i capitalisti, potrà realizzarsi pienamente nei fatti e non solo come potenzialità (legata all’essenza) la fraternità tra gli esseri umani.

Da questo punto di vista torna ancora valida l’analisi marxiana dei rapporti economici come struttura fondamentale di ogni altra relazione.

Si può, infatti, definire fraterna una relazione nella quale uno è padrone (il capitalista) e l’altro è, se non proprio il servo, quantomeno il sottoposto?

Si può definire fraterna una relazione così sbilanciata, nella quale non solo le proprietà e i redditi, ma anche e soprattutto i poteri, sono così difformi e ineguali?

Per me l’eguaglianza (nella proprietà dei mezzi di produzione) è l’altro nome della fraternità.

Come lo è- d’altra parte e sia detto per inciso – della libertà.

Una fraternità senza uguaglianza è pura ipocrisia, è buonismo senza vera sostanza.

Così come la libertà senza uguaglianza si riduce a quasi vuoto formalismo.

La crisi delle odierne democrazie – se non bastasse già l’analisi teorica – sta lì a dimostrarlo in tutta la sua macroscopica evidenza.

© Giovanni Lamagna

Sulla fraternità come concetto ed obiettivo della politica.

La fraternità – come obiettivo politico (e non solo spiritualistico/religioso) – è qualcosa in più della uguaglianza; è un surplus rispetto all’uguaglianza.

Per garantire l’uguaglianza bastano, infatti, le leggi, anzi servono innanzitutto le leggi.

L’uguaglianza è, dunque, per sua natura un principio giuridico, legato alla cittadinanza, alla polis.

Non a caso nelle aule di tribunale campeggia la scritta “Tutti i cittadini sono uguali di fronte alla Legge”.

Nelle varie società poi questo valore è nei fatti più o meno realizzato.

In alcune è del tutto negato, in altre è riconosciuto solo formalmente, ma non nella sostanza, in altre ancora l’uguaglianza sostanziale, non solo formale, ha avuto qualche – sia pur parziale, piccolissimo –  riconoscimento.

La fraternità, invece, di certo, non è un principio giuridico: non può essere, infatti, imposta con le leggi.

La fraternità è piuttosto un sentire, che il singolo individuo o avverte dentro di sé o non lo avverte.

Se non lo si avverte, non si riesce a praticarla.

E si avverte, se si è stati educati o se ci si educa ad esso.

Il sentirsi fratelli di un altro (non consanguineo) è frutto pertanto di una consapevolezza che non può essere imposta da una norma giuridica.

La consapevolezza che l’altro è un mio simile, che – al di là delle ovvie e a volte notevoli differenze individuali – siamo fatti in fondo della stessa sostanza, che siamo figli della stessa specie, che originiamo dallo stesso ceppo.

Questa consapevolezza e solo essa (nessuna legge vi si può sostituire) genera il sentimento e, di conseguenza, l’agire fraterno.

La fraternità, dunque, nasce come sentimento, come consapevolezza, ovverossia come percezione anche emotiva e non solo intellettuale, che tutti gli uomini (senza distinzioni di sesso, razza, etnia, cultura, religione, condizione economica…) appartengono alla stessa famiglia: quella umana.

E, però, per diventare reale, per non restare solo un sentimento romantico, del tutto retorico, ha bisogno di azioni, scelte, comportamenti conseguenti.

Ha bisogno innanzitutto di educazione, formazione, culturale, filosofica, spirituale, interiore, prima che politica ed esteriore.

E poi ha bisogno anche di fatti esteriori; che, ad esempio, cambino i rapporti di produzione; che la proprietà dei mezzi di produzione non stia nelle mani di pochi, dei capitalisti (com’è oggi), ma che venga diffusa, sia partecipata tra molti; anzi tra tutti i cittadini di una comunità, nessuno escluso.

Che i luoghi della produzione si trasformino in luoghi della cooperazione, dove i ruoli non siano più rigidamente distinti tra chi comanda/dirige e chi esegue/lavora, ma tutti decidano e lavorino insieme.

Infine e per chiudere questa breve e semplice riflessione, occorre dire che c’è fraternità e fraternità.

C’è una fraternità che affratella alcuni ma contro altri: è questa ad esempio la fraternità dei clan, quella che ha caratterizzato soprattutto gli inizi della storia dell’Umanità; o la fraternità che unisce i membri di una stessa classe sociale (la fraternità di cui si è incominciato a parlare dal XIX secolo in poi).

E c’è poi una fraternità che potremmo definire universale, quella che affratella gli uomini in quanto umani; ed è questa la vera fraternità, la fraternità alla quale deve aspirare una vera rivoluzione; una rivoluzione che non sia soltanto delle strutture esteriori della società, ma anche, anzi in primis, delle strutture interiori degli individui.

La fraternità che è capace di amare persino il nemico, perché si fonda sul puro riconoscimento dell’umanità dell’altro, a prescindere dai suoi comportamenti.

Non si fa in altre parole corrompere e magari omologare dall’ostilità dell’altro e manco dalla sua eventuale bestialità.

Per cui non risponde all’odio e alla violenza con uguale odio e uguale violenza (“occhio per occhio, dente per dente”; “homo homini lupus”), ma interrompe il circolo vizioso dell’odio e della violenza con l’amore e la nonviolenza, in nome di un’Umanità che non vuole tradire sé stessa, manco di fronte all’odio e alla violenza dell’altro.

© Giovanni Lamagna

Rivoluzione e fratellanza.

Per l’ultimo Sartre – quello dell’intervista a Benny Levy, pubblicata nel libro “La speranza oggi” (Mimesis 2019) – l’idea di rivoluzione – in cui Sartre evidentemente ancora credeva o che (sarebbe meglio dire) alimentava ancora la sua speranza esistenziale – non è legata ad un atto, un evento specifico, cioè all’atto/evento insurrezionale nel quale sono inevitabili azioni cruente, di natura perfino terroristica.

Ma è piuttosto associata al messianesimo ebraico, cioè al processo intrinseco alla Storia, al termine del quale gli uomini si vivranno come autentici fratelli.

La rivoluzione, insomma, come piena realizzazione della fratellanza tra gli uomini.

Speranza forse illusoria, perché del tutto utopica.

Ma che unica – anche per me, come per Sartre, si parva licet – riesce a dare un senso (o, almeno, una direzione di marcia) alla vita.

E, quindi, la voglia di camminare, procedere, andare avanti.

© Giovanni Lamagna

Rivoluzione e ribellione.

Giustamente Maurizio Bettini nel suo recente saggio “A sinistra da capo” (Paper FIRST 2022) fa notare che “chiedere in questi momenti la “buona educazione” appare quantomeno “peloso”. La calma e la ragionevolezza sono il privilegio di chi sta in alto; che ha il tempo di pensare e poi deliberare” (pag. 15).

Sta parlando (come era facile intuire) dei momenti, che segnano la Storia, in cui gli oppressi si ribellano agli oppressori, in genere in maniera violenta e spesso cruenta, talvolta ricorrendo persino al terrore.

Concordo pienamente, prendendo atto di quella che pure a me sembra una realtà che ci viene consegnata dalla Storia.

E però mi chiedo: sono davvero rivoluzionari momenti come questi? O non sono destinati fatalmente a riproporre molte volte, anche se in forme diverse, gli stessi soprusi ai quali essi avevano provato a ribellarsi?

Qui mi sovviene la distinzione che già altre volte ho fatto tra il concetto di “ribellione” e quello di “rivoluzione”.

Nella “ribellione” prevale nettamente, se non esclusivamente, la pars destruens; l’abbattimento del sistema considerato ingiusto; senza andare troppo per il sottile quanto ai mezzi e ai modi.

Nella “rivoluzione” (in una vera rivoluzione) c’è indubbiamente una “pars destruens”, ma allo stesso tempo è già ben presente anche una “pars construens”, che presuppone (o, meglio, presupporrebbe) “calma” e “ragionevolezza” anche da parte di chi sta sotto e si ribella a chi sta in alto.

Proprio la “calma” e la “ragionevolezza” definiscono per me la rivoluzione.

Di cui, invece, fa sempre a meno la ribellione, che le considera un lusso, che non ci si può permettere, se si vogliono raggiungere determinati obiettivi di cambiamento.

Per questo io non credo alle cosiddette rivoluzioni violente; alle “rivoluzioni” intese come evento; anche quando nascono e sono animate in partenza dalle migliori intenzioni.

Per me la vera rivoluzione è quella che si realizza un poco alla volta, attraverso riforme progressive dell’esistente, facendo ricorso appunto alla “calma” e alla “ragionevolezza”, avendo “il tempo di pensare e poi deliberare”.

Per me la rivoluzione è un processo, non un evento; è tutt’al più una catena di eventi legati tra di loro che, in maniera graduale e mai improvvisa, realizzano il cambiamento.

E’ una categoria concettuale (oltre che una concreta realtà psicologica o sociale) più affine a quella di “evoluzione” che a quella di “ribellione”.

Aggiungo, per chiudere questa riflessione, che ciò che vale in ambito politico-sociale per me vale – pari, pari – anche in ambito psicologico- individuale.

I veri e profondi cambiamenti dentro di noi non avvengono mai all’improvviso e in base ad un singolo fattore.

Sono sempre il frutto dell’accumularsi, intrecciarsi, sedimentarsi di una molteplicità complessa di elementi.

Che possono anche esplodere in forma vistosa ed eclatante in un singolo momento, ma non si riducono mai semplicisticamente a questo.

© Giovanni Lamagna

Ricchezza, povertà, sobrietà (2).

Io auspico (e mi batto per) una società nella quale non ci siano più né ricchi né poveri, ma ci sia una eguaglianza sostanziale (e non solo formale), senza grosse differenze di reddito, tra i suoi membri.

Auspico anzi (e mi batto per) una società nella quale la ricchezza non sia più il valore e l’ambizione dominanti delle persone che ne fanno parte, ma sia egemone, invece, il valore culturale ed etico della sobrietà.

Come ci ha insegnato, in maniera esemplare, José Mujica, Presidente della Repubblica dell’Uruguay dal 1° marzo del 2010 al 1° marzo del 2015.

La rivoluzione necessaria è, quindi, per me non solo economica e sociale, ma anche (anzi prima di tutto) culturale.

© Giovanni Lamagna

Un vero rivoluzionario.

Secondo Bakunin (“Stato e anarchia”, Feltrinelli, Milano, 1979, pagg. 168-171), Marx era un uomo “vanitoso, ambizioso, litigioso, intollerante e assoluto al massimo grado, nonché vendicativo sino alla follia”.

Non sono in grado di verificare, dai dati storici in mio possesso, se questo giudizio di Bakunin su Marx sia corrispondente (o no) alla realtà; quindi mi astengo da un giudizio sulla “persona Marx”.

Quello che mi sento di dire, però, è che un uomo con tali caratteristiche mai e poi mai possa e dovrebbe essere definito un vero rivoluzionario.

Un vero rivoluzionario è per me colui che ha fatto la rivoluzione innanzitutto dentro se stesso, domando le sue passioni ed equilibrandole in una psicologia serena e armoniosa.

Un vero rivoluzionario è per me l’esatto contrario dell’uomo descritto da Bakunin; in questo caso ha, quindi, poca importanza se le caratteristiche descritte da Bakunin siano realmente attribuibili a Marx o no.

© Giovanni Lamagna

Sinistra, sessualità e rivoluzione

Ho potuto più di una volta verificare, parlando con uomini e donne della sinistra culturale e politica, quindi uomini e donne dalla mentalità teoricamente (almeno teoricamente) aperta e progressista, dunque disponibile, anzi favorevole, predisposta ai cambiamenti, che, quando si affrontano argomenti che ineriscono la sessualità e in generale i rapporti tra i sessi, essi/e tendono ad assumere posizioni piuttosto convenzionali, scontate, figlie del pensiero comune, diffuso, corrente, dominante.

Se non addirittura puritane e persino vicine al pensiero cattolico, neppure il più avanzato.

Questo dice (a mio modesto modo di vedere) quanto siamo lontani da una situazione rivoluzionaria o anche solo prerivoluzionaria, come pure molti di questi uomini e donne (i famosi compagni e le famose compagne) dicono di intravedere o di vedere come prossima o, perlomeno, di volere, desiderare, auspicare.

Per me, invece. (sulla base anche di quanto ci ha spiegato un pensatore autenticamente radicale come Wilhelm Reich già parecchi decenni orsono) non si darà mai un vero rivoluzionamento della struttura economica, sociale e politica di un popolo, se – prima o quantomeno in contemporanea – non verranno messi in discussione comportamenti, usi, abitudini, mentalità, che riguardano la vita sessuale delle persone, per essere sostituiti con altri radicalmente diversi, anzi alternativi.

La rivoluzione sociale e politica o sarà contemporaneamente (se non addirittura prima) psicosessuale o semplicemente non ci sarà.

Questo a conferma di una tesi su cui torno spesso: la rivoluzione (una qualsiasi rivoluzione) non potrà mai consistere in un “semplice” moto insurrezionale di breve durata, di presa (ovviamente violenta!) di un qualche palazzo del potere.

Ma dovrà e non potrà che essere l’esito, il risultato finale di un processo lungo, progressivo e, quindi, necessariamente graduale, che dovrà investire tutte le dimensioni del vivere personale e collettivo di una determinata società, a cominciare dalle strutture profonde (quindi anche quelle che riguardano lo psichismo individuale, a partire da quello sessuale) delle persone che vi saranno coinvolte.

© Giovanni Lamagna

Rivoluzione e Regno di Dio

Mi pare di capire che Ernest Bloch tenti una sintesi di cristianesimo e marxismo, inserendoli entrambi nel filone messianico ed escatologico del pensiero ebraico.

La rivoluzione (concetto marxista) per lui è la realizzazione del Regno di Dio (concetto cristiano); non nell’alto dei cieli, ma qui in terra.

© Giovanni Lamagna