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Amore, frustrazione, aggressività, violenza.

In ogni amore c’è sempre una componente aggressiva.

Ogni amore, infatti, si deve confrontare prima o poi con la separazione/allontanamento, per quanto provvisori, dell’altro e con l’impossibilità di superarli del tutto.

Questa consapevolezza genera allora frustrazione e la frustrazione inevitabilmente l’aggressività; almeno come moto istintivo e iniziale dell’animo.

Il fatto poi che la consapevolezza e l’amore ci consentano di tenere a bada e non agire questa aggressività non vuol dire che essa non sia insorta e che in alcuni casi duri anche nel tempo.

Questa dinamica la si vede benissimo nei bambini.

Capita, infatti, che essi, mentre stanno giocando allegramente e gioiosamente con la madre o con il padre, in un’atmosfera che a volte sembra di armonia pura, perfetta, quasi magica, improvvisamente si rannuvolano e diventano aggressivi, perfino violenti.

È questo il loro modo di difendersi dall’amore, che li rende dipendenti dalle figure che amano, mentre sono ancora incapaci di gestire l’allontanamento, per quanto solo provvisorio, dei loro genitori.

A dimostrazione che amore, frustrazione, aggressività e, persino, violenza sono sentimenti che lungi dall’essere inconciliabili e del tutto estranei, molto spesso si legano l’uno all’altro e si alternano tra di loro nella stessa persona e verso la stessa persona.

© Giovanni Lamagna

Madre, moglie e amante.

Nessuna donna potrà essere una buona madre se non sarà prima di tutto una buona moglie o compagna del suo uomo.

E, se dopo essere diventata madre e ad aver assolto per una certa fase al compito primario e impegnativo della cura e dell’allevamento dei figli, non tornerà ad essere prima o poi innanzitutto una moglie o una compagna.

O, meglio e per dirla tutta, l’amante del proprio uomo: nel senso propriamente erotico e sessuale del termine; recuperando appieno non solo la propria vita sessuale ma anche la propria femminilità e il proprio erotismo.

Cosa che, invece, non sempre accade; o, perlomeno, non è scontato che accada.

Anzi – se proprio vogliamo dirla tutta – molto spesso non accade.

Perché la donna molto spesso, una volta diventata madre, rimane prigioniera a vita, di questo suo ruolo di madre.

E, invece, – è questo che ci tengo a sottolineare qui – solo se tornerà ad essere prima di tutto l’amante del suo uomo, la donna riuscirà a trovare l’energia per separarsi dal figlio.

Così da favorirne il giusto distacco e allontanamento; e, quindi, una crescita sana, una positiva evoluzione.

Dimostrandosi in questo modo (e solo in questo modo) una buona e brava madre.

La madre, invece, che vuole tenere legato a sé il figlio (o la figlia), che fa del figlio (o della figlia) un sostituto (asessuato e sublimato) del marito, tutto è tranne che una buona e brava madre.

Anche se tenderà a spendersi questa immagine all’esterno e nell’immaginario collettivo sarà pure ritenuta, riconosciuta, confermata, come tale.

Mentre l’altra, la madre che tornerà a fare l’amante, sarà magari ritenuta una cattiva madre, solo perché non si riduce ad essere tutta “serva” e “tappetino” dei propri figli.

Perché avrà rotto il cordone ombelicale (anche quello simbolico) che correva il rischio di tenerla legata a vita in maniera simbiotica al figlio o ai figli.

© Giovanni Lamagna

Due reazioni al “tradimento”.

Il “tradimento” della persona che amiamo può suscitare in noi due reazioni opposte e contrastanti.

La ribellione, il rifiuto rabbioso, l’allontanamento, la rottura drastica, persino l’odio viscerale e rancoroso.

Oppure – per paradosso – l’acuirsi e l’eccitarsi del nostro desiderio per la persona che ci ha “traditi”.

© Giovanni Lamagna

Stagnazione melanconica del lutto versus elaborazione simbolica della perdita.

“Il dolore del lutto è sempre statico, esclude il movimento e la trasformazione proprio perché rifiuta di riconoscere pienamente la separazione dall’oggetto perduto.” (Massimo Recalcati; “La luce delle stelle morte”; 2022 Feltrinelli; pag. 46).

Aggiungo che quando il dolore del lutto si prolunga oltre un certo limite questo è il segno che è sopraggiunta una depressione; o, meglio, che il lutto ha “risvegliato” ed attivato una depressione che era già potenziale, latente.

Significa che il soggetto depresso è stato risucchiato in un gorgo mortifero, che è attratto più dalla presenza di chi e di ciò che è morto che da quella di chi e di ciò è ancora vivo; in altre parole è attirato più dalla morte che dalla vita.

Ma non è il prolungamento anomalo del lutto, la cronicizzazione del lutto, l’incapacità di elaborare simbolicamente la perdita della persona defunta, che attivano la melanconia, la depressione, quella che Recalcati definisce “la stagnazione melanconica del lutto” (ibidem; pag. 46).

E’ – a mio avviso – piuttosto il carattere (potenzialmente, latentemente o manifestamente) depresso del soggetto che vive un lutto a prolungare questo lutto oltre limiti anomali, a renderlo cronico, incapace di una sua elaborazione simbolica.

Nella persona sana il lutto, prima o poi, viene elaborato e superato; la persona sana prima o poi simbolizza la separazione e la supera; nella persona sana l’istinto di vita prevale prima o poi sull’istinto di morte.

La persona sana prima o poi riprende in mano la sua vita, ricomincia a guardare al futuro; la persona insana rimane, invece, bloccata sul passato, prigioniera della nostalgia, anzi del rimpianto, incapace di guardare in avanti, alle persone e alle cose che sono rimaste in vita.

A questo punto però mi chiedo: che vuol dire “simbolizzare una separazione”, “elaborare un lutto”?

A mio avviso, vuol dire fare un percorso interiore (Recalcati lo chiama un “lavoro”), tale che la persona perduta entri simbolicamente, cioè psicologicamente, (potrei dire anche spiritualmente, se non temessi il fraintendimento del termine) a far parte di noi.

Che non la viviamo più come separata, altro da noi (come in un certo senso – per certi aspetti addirittura paradossali – era quando stava con noi), ma l’abbiamo come interiorizzata, fatta diventare oramai una parte stabile di noi.

Quando la separazione e il lutto sono stati elaborati, il ricordo della persona perduta (e di tutto ciò che ad essa si riferisce) è dolce, ci fa teneramente compagnia, ci aiuta addirittura a vivere e a progettare il futuro, per certi aspetti ce la rende ancora più presente di quando stava fisicamente con noi.

Ricordo qui (quasi per inciso) una frase alquanto oscura di Gesù (riportata dal Vangelo di Giovanni 16,7-15), ma che, alla luce della riflessione che sto in questo momento svolgendo, può risultare meno oscura o addirittura trasparente: “E’ bene per voi che io me ne vada perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paràclito; se invece me ne vado, lo manderò a voi”.

Il Paràclito è qui da intendersi come lo Spirito Santo, cioè Gesù stesso in forma spirituale, interiorizzata.

Ricordo che Gesù rivolge queste parole ai suoi discepoli, poco prima del suo arresto e della sua crocifissione, per consolarli ed aiutarli ad accettare la sua morte, la sua perdita, il suo allontanamento fisico (ma non certo spirituale; anzi!) dalle loro vite.

Secondo questa profezia e questo auspicio di Gesù la sua morte avrebbe addirittura giovato ai suoi discepoli, nel senso che li avrebbe costretti – in mancanza della sua presenza fisica – ad interiorizzare la sua realtà spirituale, a farla diventare carne della loro carne, fino a poter dire (come dirà effettivamente un giorno Paolo di Tarso): “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Lettera ai Galati; 2, 20).

In questo caso la morte è vissuta come separazione fisica, indubbiamente dolorosa, perfino lacerante, straziante, almeno inizialmente, ma infine, prima o poi, come ricongiungimento spirituale, resurrezione in qualche modo della persona morta, addirittura più presente spiritualmente di quando essa era ancora fisicamente viva, generatrice di linfa ed energia vitale in chi le è sopravvissuta.

Al contrario nella “stagnazione melanconica del lutto” il morto prende il posto dei vivi, li sopravanza e quasi li oscura con la sua presenza fantasmatica, quasi li caccia fuori dalla scena dell’esistenza, il passato si sostituisce al presente e nientifica ogni prospettiva di futuro, la nostalgia e il rimpianto impediscono il godimento di chi (e anche di ciò che) è rimasto vivo.

Nella “stagnazione melanconica del lutto” il ricordo della persona perduta è ossessivo, amaro, persecutorio, colpevolizzante, onnipresente.

Lungi dall’aiutare la persona sopravvissuta (come nella profezia e nell’auspicio evangelici) a vivere, a continuare a vivere, anzi (in quel caso) a nascere addirittura a nuova vita, le rovina e intossica l’esistenza.

La morte – quando il lutto ristagna melanconicamente – attrae e risucchia nel suo gorgo depressivo e distruttivo la vita, il freudiano istinto di morte prevale sull’istinto di vita, la necrofilia (cito qui Erich Fromm) vince sulla biofilia.

© Giovanni Lamagna

Le fasi di un rapporto: nascita, crisi, rottura.

Ogni rapporto nasce per realizzare non una fusione (che sarebbe cosa impossibile e, forse manco auspicabile) ma almeno una integrazione dei percorsi di vita, un rimescolamento, negli auspici un arricchimento, delle identità delle due persone che si incontrano.

Quando questa integrazione non riesce (perché una delle due persone – o tutte e due – frappongono ostacoli e resistenze, faticano a mettere in discussione se stesse, non riescono in altre parole ad uscire dal loro ego individuale per realizzare un noi), il rapporto fallisce.

Si determina, allora, dopo la prima fase di apertura spontanea, caratterizzata a volte perfino da entusiasmo ed euforia, un allontanamento reciproco, che all’inizio è quasi impercettibile, poi gradualmente diventa sempre più vistoso, fino a giungere, in alcuni casi, anche alla rottura.

© Giovanni Lamagna

Dipendenza, indipendenza e interdipendenza in amore

L’amore (parlo qui dell’amore, in cui c’è un coinvolgimento sessuale, ma anche dell’amore in cui questo coinvolgimento non c’è, quello che comunemente viene definito “amicizia”) vive sempre su un doppio registro, cammina su due binari, oscilla tra due poli contrapposti: quello della dipendenza e quello della indipendenza.

Per poter dire che io amo una persona, financo se la considero “solo” amica, devo sentire che ho bisogno o, quantomeno, desiderio della sua presenza.

Se una persona mi è indifferente, se posso fare tranquillamente a meno di lei, non posso certo affermare di amarla o di sentirla amica.

In questo senso l’amore denota sempre una certa qual dipendenza: io dipendo dalla persona che amo; ne sento la mancanza quando essa non c’è; la sua presenza riempie un vuoto che c’è in me e che, senza di lei, torna a manifestarsi come vuoto, come “mancanza di”.

Allo stesso tempo un eccesso di dipendenza non fa bene all’amore. Quando la dipendenza dalla persona amata diventa assoluta, non possiamo più parlare di amore, perlomeno non possiamo più parlare di amore sano: ci troviamo in presenza – diciamolo pure – di un “amore” guasto, malato, che tende a succhiare il sangue alla persona “amata”.

Se, infatti, io dipendo in maniera assoluta dalla persona che dico di amare, se non sono dotato di un minimo di autonomia e di indipendenza, cosa posso darle? In linea teorica, ma anche nella pratica, non posso darle nulla! Posso darle tutt’al più la mia ammissione, il mio riconoscimento, di aver un assoluto bisogno di lei.

Ma questo è amore? Basta questo perché si possa parlare di amore o anche di “semplice” amicizia tra due persone?

Se io dipendo in maniera assoluta da una persona, se non riesco a stare da solo e senza di lei, vuol dire che non ho nulla in me, che tutto quello che ho sta nella persona che dico di amare.

Quindi non sono in grado di darle nulla di mio, di me, di quello che sta in me, perché questo qualcosa semplicemente non esiste, non c’è.

E, se in un rapporto non sono in grado di dare qualcosa, anche poche cose, posso definire questo rapporto un rapporto d’amore o di amicizia? Con tutta evidenza no!

Ecco perché un amore (quello che possiamo definire davvero amore, in altre parole un amore sano) ha bisogno sia della dipendenza che della indipendenza.

Se io fossi già completo in me stesso, privo di ogni mancanza, hortus conclusus, del tutto autosufficiente, perché mai dovrei aver bisogno di una persona da amare? Basterei già a me stesso e non dovrei andare, quindi, in cerca di qualcuno/a con cui costruire una relazione di amore.

E, quand’anche lo facessi, forse riuscirei a dare alla persona amata molte cose, le cose che già ho, ma non riuscirei a donarle il sentimento – unico – di quello che lei è per me, di quello che lei può donare a me. Sentimento che in amore è fondamentale, costitutivo dell’amore stesso.

Se, all’opposto, sono del tutto dipendente dall’altro/a, incapace di stare da solo, senza una mia vita e – diciamolo pure – una mia solidità autonoma, se, senza l’altro, non riesco a vivere (come spesso si dicono romanticamente gli innamorati) cosa posso riuscire a dare all’altro? La mia dipendenza, il mio bisogno di lui/lei?

L’altro allora mi vivrà – fatalmente, inevitabilmente – come una specie di sanguisuga. Potrà anche darsi che all’inizio il suo narcisismo ne risulti lusingato. Ma, alla lunga, egli si sentirà oppresso e svuotato dalla mia presenza e reagirà con uno speculare e fisiologico sentimento di rifiuto e di allontanamento-distanziamento.

Per concludere dico che, forse, né il termine “dipendenza” ne quello di “indipendenza” sono adeguati a definire compiutamente lo stato d’animo di chi ama ed è riamato, in modo sufficientemente sano e corretto. Il termine più adatto (come del resto già altri hanno detto prima di me) è forse quello di “interdipendenza”.

In amore non si è (o, meglio, non si dovrebbe essere) né assolutamente dipendenti né assolutamente indipendenti. Entrambi questi due atteggiamenti sono sbagliati e, quindi, insani. In amore si è (o, meglio, si dovrebbe essere) inter-dipendenti.

Dipendenti l’uno dall’altro, desiderosi di stare insieme all’altro, di godere della sua presenza, consapevoli della propria strutturale incompletezza. Ma senza che questa dipendenza diventi esagerata, cioè morbosa ed ossessiva.

Ciascun amante dovrebbe coltivare la propria autonomia e indipendenza e allo stesso tempo essere rispettoso/a dell’autonomia e della indipendenza dell’altro/a.

Senza, però, che questa autonomia e indipendenza arrivino al punto di trasformarsi in frigidità affettiva o, addirittura, indifferenza, distacco e, financo, misantropia.

© Giovanni Lamagna

Sensi di colpa e scarico di responsabilità (Genesi 3, 12 – 3, 13)

11 ottobre 2015

Sensi di colpa e scarico di responsabilità (Genesi 3, 12 – 3, 13)

3,12 L’uomo rispose: «La donna che tu mi hai messa accanto, è lei che mi ha dato del frutto dell’albero, e io ne ho mangiato».

A questo punto l’uomo replica alla contestazione del suo Dio nel modo più banale, ma che è diventato un classico per chi si sente in colpa. Scaricando le sue responsabilità su un altro, in questo caso su un’altra: è stata la donna che (quasi) lo ha costretto a mangiare il frutto dell’albero (o, quantomeno, indotto in tentazione).

Qui emerge un altro archetipo maschilista: la donna tentatrice, la donna seduttrice (nella sua duplice versione: positiva e negativa); in questo caso (a dire il vero) solo negativa.

Inoltre l’uomo in questa situazione si rivolge alla donna con ben altro sentimento rispetto a quanto la incontrò per la prima volta, a quando Dio la creò staccandola da una costola di lui. Allora le sue prime parole furono di gioia e di ammirazione: “Questa, finalmente, è ossa delle mie ossa e carne della mia carne”.

Adesso dopo la colpa egli sembra quasi disprezzarla, le sue parole sono di separazione e quasi allontanamento: “La donna che tu mi hai messo accanto…”; come a dire: “Tu hai la responsabilità di avermela messa accanto, io non la volevo.”

Segno che i sensi di colpa dividono, creano angoscia, dissociazione dentro di sé e, per conseguenza, anche fuori di sé, tra me e l’altro/a.

3,13 Dio il SIGNORE disse alla donna: «Perché hai fatto questo?» La donna rispose: «Il serpente mi ha ingannata e io ne ho mangiato».

Chiamata in causa, la donna non assume un atteggiamento molto diverso dal suo compagno: scarica le sue responsabilità sul serpente.

(9, continua)

Giovanni Lamagna