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L’omosessualità e il concetto di “normalità”.

Esistono, a mio avviso, tre modi di considerare il concetto di “normalità”, quando parliamo di essere umano: il primo assume a criterio di riferimento la cosiddetta “statistica”, il secondo la “funzionalità oggettiva” e il terzo “la felicità soggettiva”.

Cercherò di spiegare qui di seguito quale significato hanno per me questi tre approcci al concetto di “normalità”, prendendo a pretesto una situazione, una condizione umana, che, ancora oggi, è molto al centro del dibattito relativamente a ciò che è (o sarebbe) normale e ciò che non lo è (o non lo sarebbe): l’omosessualità.

1.Se valutiamo l’omosessualità dal punto di vista statistico essa è oggettivamente fuori della norma: la maggioranza degli esseri umani, infatti, nasce e si comporta da eterosessuale; solo una minoranza è omosessuale.

Qui non si tratta affatto di concordare con le “analisi” e i giudizi, espressi addirittura in un libro, da un generale dell’esercito italiano che è assurto di recente agli onori della cronaca: si tratta di prendere semplicemente atto di un dato di realtà.

Credo che questo dato anche gli omosessuali lo possano e lo debbano riconoscere: è un puro dato numerico, che in sé non contiene (o non dovrebbe per me contenere) alcun giudizio di valore.

Che importanza ha, infatti, sul piano sociale, delle relazioni umane questo dato? Nessuna, assolutamente nessuna!

Soprattutto per chi ritiene che un principio basico e sacro delle democrazie debba essere il rispetto delle minoranze da parte delle maggioranze.

Ovviamente chi non ritiene che le maggioranze debbano rispetto alle minoranze si sente in diritto di disprezzarle e, al limite, anche vessarle; e quindi disprezzerà e, al limite, vesserà anche le minoranze LGBT.

Ma in questo modo si metterà, senza alcun dubbio, fuori dall’ambito democratico: anche questo è un dato oggettivo.

È grave, quindi, molto grave, che un generale, il quale ha dovuto giurare sulla Costituzione per svolgere il suo ruolo, tragga da un semplice dato statistico, anche se oggettivo, pretesto per esprimere giudizi che offendono gravemente la dignità di alcune minoranze del nostro Paese, anzi del genere umano, da sempre esistite e che sempre esisteranno.

D’altra parte a voler essere conseguenti col principio statistico dovremmo dire che anche i geni sono anormali, perché neanche i geni rientrano nel livello normale, cioè medio, del Q. I. (Quoziente Intellettuale): si situano, infatti, ad un livello superiore.

Ma non per questo la maggioranza disprezza i geni e meno che mai li vessa o persegue. Anzi!

2. Esiste poi un secondo approccio al concetto di “normalità”, che si misura rispetto alla “funzione”, che ha (o dovrebbe avere) un determinato organo e perfino un individuo.

Da questo punto di vista, nel momento in cui si riconosce che una funzione (ma non l’unica) della sessualità è quella procreativa, ne consegue che all’atto omosessuale è negata per natura – e non solo per scelta – questa funzione.

Per natura, nel senso che due omosessuali, anche se lo volessero, non possono procreare nel momento in cui si congiungono sessualmente.

Al contrario di due eterosessuali che possono congiungersi sessualmente e fare in modo – per scelta (con opportuni metodi e strumenti) – che il loro atto non abbia (almeno in quel caso) un esito procreativo.

Anche questa è una realtà oggettiva, che non può essere negata da nessuno; manco (a meno che non vogliano negare l’evidenza) dagli omosessuali.

E, però, anche questo dato di realtà oggettiva cosa toglie alla dignità umana, esistenziale di un omosessuale? Cosa lo renderebbe meno degno (o, addirittura, non degno) di rispetto?

A me sembra, nulla, assolutamente nulla!

La sua scelta, infatti, è in tutto simile da questo punto di vista a quella di un eterosessuale, che rinuncia ad avere dei figli.

Semmai gli si potrebbe obiettare: non sai cosa ti perdi! È questa l’unica obiezione che gli si può fare.

Ma la stessa obiezione può essere fatta – appunto! – anche ad un eterosessuale che rinuncia, per sua libera scelta e non per impedimento fisiologico, ad avere dei figli.

3. Esiste, infine, un concetto di “normalità” che si misura in base al livello di felicità o di benessere soggettivi di una determinata persona.

Da questo punto di vista è del tutto evidente, è sotto gli occhi di tutti, che abbiamo omosessuali felici e omosessuali infelici, esattamente come abbiamo eterosessuali felici e eterosessuali infelici.

Abbiamo, anzi, omosessuali che sono molto più felici ed hanno raggiunto livelli di benessere psico-fisico e, perfino, spirituale di gran lunga superiori a quelli di tanti eterosessuali.

In questo caso allora è lecita, anzi viene spontanea la domanda: chi è più “normale”? l’eterosessuale infelice, depresso, ripiegato su sé stesso o nel migliore dei casi, triste e malinconico? oppure l’omosessuale felice o, quantomeno, gaio, allegro, aperto e socievole cogli altri?

Come si vede, il concetto di “normalità” può essere visto ed esaminato da svariati punti di vista; io ne ho colti tre, ma forse ce ne sono anche altri che potrebbero essere considerati e analizzati.

E da nessuno di essi riceve giustificazione e legittimità l’atteggiamento ostile, spregiativo, in una parola “omofobo”, che ancora oggi caratterizza il comportamento di molti individui nei confronti degli omosessuali e delle minoranze LGBT in generale.

© Giovanni Lamagna

Sulla fraternità come concetto ed obiettivo della politica.

La fraternità – come obiettivo politico (e non solo spiritualistico/religioso) – è qualcosa in più della uguaglianza; è un surplus rispetto all’uguaglianza.

Per garantire l’uguaglianza bastano, infatti, le leggi, anzi servono innanzitutto le leggi.

L’uguaglianza è, dunque, per sua natura un principio giuridico, legato alla cittadinanza, alla polis.

Non a caso nelle aule di tribunale campeggia la scritta “Tutti i cittadini sono uguali di fronte alla Legge”.

Nelle varie società poi questo valore è nei fatti più o meno realizzato.

In alcune è del tutto negato, in altre è riconosciuto solo formalmente, ma non nella sostanza, in altre ancora l’uguaglianza sostanziale, non solo formale, ha avuto qualche – sia pur parziale, piccolissimo –  riconoscimento.

La fraternità, invece, di certo, non è un principio giuridico: non può essere, infatti, imposta con le leggi.

La fraternità è piuttosto un sentire, che il singolo individuo o avverte dentro di sé o non lo avverte.

Se non lo si avverte, non si riesce a praticarla.

E si avverte, se si è stati educati o se ci si educa ad esso.

Il sentirsi fratelli di un altro (non consanguineo) è frutto pertanto di una consapevolezza che non può essere imposta da una norma giuridica.

La consapevolezza che l’altro è un mio simile, che – al di là delle ovvie e a volte notevoli differenze individuali – siamo fatti in fondo della stessa sostanza, che siamo figli della stessa specie, che originiamo dallo stesso ceppo.

Questa consapevolezza e solo essa (nessuna legge vi si può sostituire) genera il sentimento e, di conseguenza, l’agire fraterno.

La fraternità, dunque, nasce come sentimento, come consapevolezza, ovverossia come percezione anche emotiva e non solo intellettuale, che tutti gli uomini (senza distinzioni di sesso, razza, etnia, cultura, religione, condizione economica…) appartengono alla stessa famiglia: quella umana.

E, però, per diventare reale, per non restare solo un sentimento romantico, del tutto retorico, ha bisogno di azioni, scelte, comportamenti conseguenti.

Ha bisogno innanzitutto di educazione, formazione, culturale, filosofica, spirituale, interiore, prima che politica ed esteriore.

E poi ha bisogno anche di fatti esteriori; che, ad esempio, cambino i rapporti di produzione; che la proprietà dei mezzi di produzione non stia nelle mani di pochi, dei capitalisti (com’è oggi), ma che venga diffusa, sia partecipata tra molti; anzi tra tutti i cittadini di una comunità, nessuno escluso.

Che i luoghi della produzione si trasformino in luoghi della cooperazione, dove i ruoli non siano più rigidamente distinti tra chi comanda/dirige e chi esegue/lavora, ma tutti decidano e lavorino insieme.

Infine e per chiudere questa breve e semplice riflessione, occorre dire che c’è fraternità e fraternità.

C’è una fraternità che affratella alcuni ma contro altri: è questa ad esempio la fraternità dei clan, quella che ha caratterizzato soprattutto gli inizi della storia dell’Umanità; o la fraternità che unisce i membri di una stessa classe sociale (la fraternità di cui si è incominciato a parlare dal XIX secolo in poi).

E c’è poi una fraternità che potremmo definire universale, quella che affratella gli uomini in quanto umani; ed è questa la vera fraternità, la fraternità alla quale deve aspirare una vera rivoluzione; una rivoluzione che non sia soltanto delle strutture esteriori della società, ma anche, anzi in primis, delle strutture interiori degli individui.

La fraternità che è capace di amare persino il nemico, perché si fonda sul puro riconoscimento dell’umanità dell’altro, a prescindere dai suoi comportamenti.

Non si fa in altre parole corrompere e magari omologare dall’ostilità dell’altro e manco dalla sua eventuale bestialità.

Per cui non risponde all’odio e alla violenza con uguale odio e uguale violenza (“occhio per occhio, dente per dente”; “homo homini lupus”), ma interrompe il circolo vizioso dell’odio e della violenza con l’amore e la nonviolenza, in nome di un’Umanità che non vuole tradire sé stessa, manco di fronte all’odio e alla violenza dell’altro.

© Giovanni Lamagna

Può un corpo apparirmi nel tempo sempre nuovo?

Il corpo di cui conosco a memoria la geografia, le insenature, i rilievi, le profondità, la consistenza, è reso sempre nuovo dall’onda inarrestabile del tempo.” (Massimo Recalcati; “Mantieni il bacio”; Feltrinelli 2019; pag. 120-121)

Sono d’accordo e, allo stesso tempo, non sono d’accordo con questa affermazione.

Sono d’accordo, perché effettivamente quello che dice Recalcati può succedere, non è impossibile, è nell’ordine delle possibilità, anche se, a dire il vero, non è molto frequente.

Il trascorrere del tempo non è fatale, non è destino che renda obsoleto (e quindi non più desiderabile) lo “stesso”, oggetto del mio desiderio; anche – perfino – lo stesso corpo della persona che frequento da anni e che conosco oramai come le mie tasche.

Non sono d’accordo, perché Recalcati in questa sua affermazione utilizza un verbo (“è reso”) al modo indicativo, come se questa esperienza fosse la norma, rientrasse cioè nell’ordine normale e naturale delle cose.

E non fosse solo una possibilità (come, invece, la considero io), quindi niente affatto scontata, anzi – a dire il vero – il più delle volte, come succede nella maggior parte dei rapporti, irrealizzata e, quindi, non verificata.

Non sono d’accordo, inoltre, anche per un altro motivo.

Perché non è il tempo in sé che rende sempre nuovo il corpo dell’altro che amo.

Innanzitutto, per il fatto – persino banale – che il tempo rende oggettivamente più vecchio il corpo dell’altro (altro che nuovo!) e pertanto lo fa meno attraente ai miei occhi.

E, in secondo luogo, perché il tempo di per sé tende a produrre un fenomeno di assuefazione e quindi di appassimento del mio desiderio per quel corpo.

È solo la mia volontà, la mia “buona disposizione” d’animo, il mio voler tener viva la relazione, che mi permette di vedere sempre nuovo il corpo dell’altro, nonostante il trascorrere inesorabile del tempo lo renda sempre più vecchio.

E lo è ancor più, a dire il vero, la capacità dell’altro di rendersi sempre nuovo ai miei occhi nonostante rimanga sempre sé stesso.

È la disposizione dell’altro a rendersi seduttivo in forme sempre rinnovate (una qualità che è della psiche – dell’anima, direbbe Hillman – e non del corpo) che mi fa (può farmi) apparire sempre nuovo il suo corpo.

Niente di scontato, quindi, e meno che mai di spontaneo e naturale!

L’amore, persino il desiderio, possono durare nel tempo; non sono destinati fatalmente ad appassire, come molti (forse i più) ritengono.

Però, perché questo si verifichi è necessario un impegno reciproco delle due persone che si sono incontrate un giorno e che sono state attratte l’una verso l’altra.

L’impegno di ciascuna di loro – direi una “cura”, per usare una bellissima parola che ricorre in una famosa canzone di Battiato – a rendersi ogni giorno nuova agli occhi dell’altra, in modo da rendere possibile ogni giorno l’incanto, la magia della scoperta.

Del “nuovo” nello “stesso”.

© Giovanni Lamagna

Contenuto e forma della morale.

Nelle affermazioni di Sartre sulla morale c’è una contraddizione fondamentale, che egli stesso sembra riconoscere a pag. 105 del suo libro “L’esistenzialismo è un umanismo” (Armando Editore; 2014).

Infatti, da una parte afferma che il contenuto della morale è variabile (in quanto l’uomo è totalmente libero, è simile all’artista, è il creatore dei suoi valori…), dall’altra afferma che una certa forma della morale è universale (concorda quindi con Kant che “la libertà vuole se stessa e la libertà degli altri”).

Ora delle due l’una: o la forma della morale è universale o non lo è.

Per me, come per Kant (e come sembra ad un certo punto anche per Sartre), la forma della morale è universale.

Ma, se è universale, allora anche i suoi contenuti non possono essere variabili oltre un certo limite, non possono essere creati ad libitum, come sembra invece dire Sartre, contraddicendo la sua affermazione sulla forma universale della morale.

Concordo, invece, con Sartre che la morale non può che definire valori generali, universali, quindi astratti, e che l’uomo, quando si trova a fare scelte concrete, deve assumersi fino in fondo la responsabilità della propria decisione, che non trova prescritta su nessuna tavola della Legge.

La norma morale arriva a dirci che bisogna amare gli altri come se stessi; o che bisogna fare agli altri ciò che vorremmo gli altri facessero a noi e che non bisogna fare agli altri ciò che non vorremmo gli altri facessero a noi.

Ma non ci dice cosa vuol dire concretamente amare gli altri e se stessi o cosa bisogna fare o non fare nella singola situazione.

Ci sono, infatti, situazioni esistenziali nelle quali l’uomo è chiamato a decidere tra due (o, addirittura, più) scelte ragionevoli e, quindi, tutte legittime.

In questo caso, allora, (e qui Sartre ha per me ragione) egli è pienamente creatore (possiamo dire) del valore della sua scelta, che non trova da nessuna parte un fondamento universale ed assoluto.

Prendiamo il caso (per fare un solo esempio, che ho tra l’altro vissuto sulla mia pelle) di un uomo che si innamora di un’altra donna essendo sposato e con figli.

Che fa, che deve fare un uomo che si trova in una tale situazione?

Sacrificare l’amore nuovo per la donna di cui si è innamorato in nome dell’amore precedente per i figli?

O sacrificare l’amore primo per i figli in nome dell’amore sopravvenuto per la donna di cui si è innamorato?

In questa scelta l’uomo coinvolto è pienamente autore, creatore del valore della sua decisione.

Non esiste una norma universale ed assoluta che in qualche modo gliela imponga.

Entrambe le scelte sono legittime, in quanto hanno un loro fondamento razionale.

Entrambe comportano dei costi, delle sofferenze, sue e di altri.

Facendone una, l’uomo si assume pienamente la responsabilità della sua scelta, non la delega, non può delegarla ad altri.

Meno che mai la trova già bella e scritta da qualche parte.

In qualche modo deve “creare” la norma che poi applicherà nella situazione concreta in cui è chiamato ad agire, a fare la sua scelta.

© Giovanni Lamagna

Valori astratti e universali e scelte personali e concrete.

Concordo con Sartre che la morale non può che definire valori astratti e universali e che l’uomo, quando si trova a fare scelte concrete, deve assumersi la responsabilità della propria decisione, che non trova prescritta su nessuna tavola della Legge.

Ci sono situazioni esistenziali nelle quali l’uomo è chiamato a decidere tra due scelte entrambe legittime e in questo caso egli è pienamente creatore (possiamo dire) del valore della sua scelta, che non trova da nessuna parte un fondamento universale ed assoluto.

Prendiamo il caso (ma se ne potrebbero portare anche altri) di un uomo che si innamora di una donna essendo già sposato e, per giunta, con dei figli.

Che fa, che deve fare un uomo che si trova in una tale situazione?

Sacrificare l’amore per la donna di cui si è innamorato in nome dell’amore per i figli?

O sacrificare l’amore per i figli in nome dell’amore per la donna di cui si è innamorato?

In questa scelta l’uomo coinvolto è chiamato ad essere pienamente autore, creatore del valore della sua decisione.

Non esiste una norma universale ed assoluta che in qualche modo gliela imponga.

© Giovanni Lamagna

Dio maledice e condanna il serpente. (Genesi, 3, 14 – 3, 15)

15 ottobre 2015

Dio maledice e condanna il serpente. (Genesi, 3, 14 – 3, 15)

3,14 Allora Dio il SIGNORE disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, sarai il maledetto fra tutto il bestiame e fra tutte le bestie selvatiche! Tu camminerai sul tuo ventre e mangerai polvere tutti i giorni della tua vita.

Qui la cosa strana è che Dio sembra accreditare (almeno in una prima fase) la versione che hanno dato l’uomo e la donna di quanto è accaduto e condanna il serpente ad una condizione infame, da verme, per tutta la durata dei suoi giorni, quindi senza possibilità di riscatto.

Non gli dà nemmeno la possibilità di replicare e difendersi, come avevano fatto sia l’uomo che la donna, che avevano scaricato su altri le proprie responsabilità.

Il serpente da questo momento in poi diventa il simbolo stesso del “male”, cioè della incapacità di sollevarsi da terra, di ascendere a qualcosa di più alto che non sia la Terra.

In questo senso il serpente è l’Alter Ego di Dio. Questi è puro spirito e abita il Cielo. Il serpente è l’animale più legato alla Terra, l’essere quindi più materiale che esista.

Da questo momento viene a crearsi una dicotomia difficile da sanarsi tra il Cielo e la Terra, tra lo Spirito e la Materia.

Ma la loro ricomposizione/riunificazione diventano anche il compito a cui è chiamato l’Uomo. Da questo momento in poi l’Uomo è chiamato a ricomporre ciò che egli stesso ha diviso, infranto: l’unità tra il Desiderio e la Legge.

3,15 Io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua progenie e la progenie di lei; questa progenie ti schiaccerà il capo e tu le ferirai il calcagno».

Questo versetto è misterioso, dice cose di non facile comprensione: la prima inimicizia, cioè la prima divisione Dio la pone tra il serpente e la donna.

Strano! Proprio tra i due esseri che avevano colluso per primi nella colpa o meglio nella trasgressione alla Norma!

E, però, a considerare la natura e il carattere della Donna, tanto strano non è: la Donna è, infatti, la creatura più terragna, più legata alla Terra, alla sua materialità e alla sua concretezza e, allo stesso tempo, quella più capace di ascendere alle vette della spiritualità.

La donna è quindi la creatura che più porta in sé lo stigma del contrasto, del conflitto tra la Terra e il Cielo, ma (forse e, forse, proprio per questo) è anche la più adatta a ricomporlo, a risanarlo.

(10, continua)

Giovanni Lamagna

Legge, desiderio, trasgressione della Legge, senso di colpa, nudità.

Legge, desiderio, trasgressione della Legge, senso di colpa, nudità.

3,8 Poi udirono la voce di Dio il SIGNORE, il quale camminava nel giardino sul far della sera; e l’uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza di Dio il SIGNORE fra gli alberi del giardino.

Dopo la “colpa” l’uomo e la donna odono la voce di Dio, il quale camminava (verrebbe di dire: per fatti suoi) nel giardino, sul far della sera (l’ora in cui la veglia si allenta e più facilmente emerge l’inconscio) e (forse) parlava tra sé e sé, non aveva (a quanto sembra) nessuna intenzione di rimproverarli (perlomeno non ancora); forse manco si era ancora accorto della loro disobbedienza.

Eppure l’uomo e la donna sentono la “sua” voce e il conseguente bisogno di nascondersi per sfuggire al suo sguardo.

Evidentemente non è Dio (in quanto Entità) che li fa sentire in colpa, ma è la voce stessa della loro coscienza, nata dalla colpa, nel momento stesso in cui la Norma veniva violata, è la voce della Legge infranta, del Super-ego (per dirla in termini psicoanalitici) che li fa sentire in colpa. Ed essi sentono il bisogno di nascondersi per sfuggirle.

3,9 Dio il SIGNORE chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?»

Ma la voce di Dio (nella sua versione, adesso, di Padre severo, cioè di rappresentante della Legge) non dà loro tregua.

Dio si rivolge per primo all’uomo. Anche qui affiora una nota maschilista: è sempre l’uomo il primo interlocutore di Dio; anche nella colpa.

3,10 Egli rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino e ho avuto paura, perché ero nudo, e mi sono nascosto».

L’uomo risponde tutto impaurito e pieno di vergogna e subito fa riferimento alla sua nudità. Qui la nudità (mi viene da pensare) non è da collegare solo a una dimensione sessuale. E’ da intendere forse come la nudità della coscienza che si sente scoperta dopo aver trasgredito la Norma. E’ la coscienza nel suo complesso che si sente nuda, cioè disvelata, smascherata.

3,11 Dio disse: «Chi ti ha mostrato che eri nudo? Hai forse mangiato del frutto dell’albero, che ti avevo comandato di non mangiare?»

E Dio chiede subito all’uomo: “Come fai a sentirti nudo?”. Segno che anche per Dio la condizione di nudità è quella normale. E’ la condizione dell’uomo che sente il bisogno di coprirsi a non essere naturale.

Dal che è subito chiaro per Dio che l’uomo ha trasgredito la sua Legge, il suo Comandamento.

In un certo senso è l’uomo stesso che con il suo senso di colpa “rivela” a Dio la sua colpa e non Dio che scopre (con la sua onniscienza) la colpa dell’uomo.

Potremmo perfino dire che, in qualche misura, è il senso di colpa che genera la colpa e non il contrario.

(8, continua)

Giovanni Lamagna