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Amore e odio, paura e desiderio: osservando un bambino.

Osservando un bambino potremmo renderci conto direttamente e direi empiricamente, quindi perfino scientificamente, di quanto siano fondate alcune tesi di Sigmund Freud (grande osservatore della vita umana), che magari facciamo fatica a condividere con la nostra sola razionalità e in mancanza di verifiche in laboratorio.

Due in particolare me ne vengono in mente.

La prima è che l’amore non si può mai separare dall’odio, che l’amore è sempre mischiato, intrecciato, impastato con l’odio.

Basta osservare – per averne conferma – il comportamento di un bambino, verificare come egli sia capace di passare quasi all’improvviso da un atteggiamento di grande tenerezza, affettuosità, quindi amore, ad un atteggiamento di grande aggressività, perfino di violenza, in certi casi solo verbale, in altri persino fisica, verso la madre e il padre, cioè verso le persone di gran lunga più significative e importanti nella sua vita affettiva.

La seconda tesi di Freud che mi sembra largamente confermata dall’osservazione del comportamento (in modo particolare) dei bambini è che desiderio e paura (come i “totem” e i “tabù” dei popoli primitivi) viaggiano di pari passo, camminano sempre insieme, sono associabili.

Lo verificavo l’altro giorno in maniera plastica giocando con un mio nipotino, Marco, che ha poco più di tre anni.

Marco ha sviluppato da sempre, fin dal suo primo compleanno, una sorta di paura/timore al momento del taglio della torta e, soprattutto, dello stappo dello spumante.

Il solo rumore del tappo estratto dalla bottiglia lo fa sobbalzare e quasi lo terrorizza.

Per cui, quando arriva il momento di stappare la bottiglia, egli chiede di farlo piano, piano, in modo da non fargliene sentire il rumore, che lo farebbe saltare per la paura.

Qualche giorno fa io e la nonna giocavamo con lui a tombola.

Sopra il panierino contenente i numeri del gioco noi abbiamo messo un tappo di spumante per impedire che i numeretti ne fuoriescano.

A lui è venuta, allora, spontanea l’associazione panierino/spumante.

Abbiamo, quindi, preso a giocare (ce ne ha dato lui l’idea) con il suo timore dello stappo.

Togliendo il tappo che chiudeva il panierino, abbiamo mimato con la bocca il rumore dello stappo e ci siamo accorti che lui saltava, ma allo stesso tempo rideva, facendoci chiaramente intendere che la cosa gli faceva al contempo paura e piacere.

Il piacere di entrare in contatto con la sua paura, di affrontarla e superarla.

Abbiamo ripetuto questo gioco più volte e con molto divertimento, anche su suo invito e sollecitazione.

Ecco una dimostrazione semplice, ma palmare, della veridicità e persino verificabilità della tesi freudiana.

© Giovanni Lamagna

Ancora attorno al concetto e all’esperienza di felicità.

Tutti noi abbiamo vissuto un momento in cui eravamo pienamente felici, in cui non desideravamo altro che di “essere”, di “restare”.

In cui non c’era distanza tra “l’essere” e “il voler essere”, in cui non c’era altro da desiderare oltre la condizione che già si viveva.

E quindi manco sapevamo cosa significasse desiderare; in quanto desiderare significa aspirare ad altro da quello che si ha e si è.

Questo momento, questa condizione corrispondono ai nove mesi che abbiamo vissuto all’interno dell’utero di nostra madre, in perfetta e (per i più) felice simbiosi con lei.

Per questo il momento della nascita (di fuoriuscita dall’utero materno) corrisponde a quello che lo psicoanalista Otto Rank, in un libro pubblicato nel 1924, ha definito “un trauma”, il primo trauma che tocca ad ogni uomo vivere.

Se questo è vero (ed io ho una profonda, intima convinzione che sia vero), allora dobbiamo dedurne che la nostra idea di felicità, quella che ce ne siamo fatti dopo, una volta nati e cresciuti, è indissolubilmente, strutturalmente legata a quel periodo; è lì, è allora che essa ha ricevuto il suo imprinting.

E’, dunque, legata al ricordo, anzi al rimpianto o, nel più fortunato dei casi, alla nostalgia di quella condizione e di quel periodo di vita.

La stessa mitologia, presente in molte civiltà (se non in tutte), che ha immaginato un “Eden” o “un’Età dell’oro”, cioè una condizione umana ideale, perfetta, tutta felicità, senza ombre di sofferenza alcuna, che avrebbe preceduto l’avvento della storia, ovverossia una condizione umana, al contrario di quella mitologica, piena di oscurità, conflitti, sofferenze e spesso atrocità, ha, a mio avviso, a che fare (trova lì le sue radici e le sue fondamenta) con questa nostalgia, con questo rimpianto, della vita intrauterina, che ogni uomo ha avuto modo di sperimentare.

Ecco perché il nostro primario, istintivo e ancora non consapevole bisogno/desiderio di felicità si associa, quasi per un riflesso automatico, in primo luogo ad un bisogno/desiderio di fusione perfetta, totale ed assoluta, con un oggetto amato; come a voler recuperare l’antica, primigenia condizione intrauterina.

Fatta questa premessa, credo occorra mettere subito in evidenza che tale associazione/proiezione è però del tutto fantasmatica, illusoria e, pertanto, fallace, fuorviante, perché nessun rapporto d’amore, per quanto profondo e intimo, potrà mai ricostituire l’unità primordiale intrauterina tra madre e figlio.

Non solo; ma ciò che non è più possibile sarebbe addirittura dannoso se, in maniera del tutto ipotetica, cioè contravvenendo alle leggi di natura, si verificasse, si realizzasse.

Perché darebbe origine ad un rapporto asfissiante, predatorio, cannibalico, dove ciò che nei nove mesi di vita intrauterina ha assicurato il maggior benessere possibile alla nuova creatura concepita, toglierebbe invece ai soggetti implicati aria e respiro, ovverossia le condizioni primarie per vivere una vita autenticamente felice.

Dove, allora, cercare la vera, autentica felicità (ammesso che questa esista da qualche parte), al posto di una simile a quella (intrauterina) persa una volta e per sempre?

Qui dico subito in premessa che stiamo parlando della felicità possibile agli esseri umani, della felicità alla loro portata, dunque di una felicità sempre parziale, limitata nel tempo, instabile e precaria, non certo di una felicità totale ed assoluta, che non è destinata ad alcun essere umano, anche il più baciato dalla fortuna.

Questo premesso, allora dico che la felicità possibile agli umani sta, a mio avviso, nella ricerca di una molteplicità di esperienze, anche relazionali, l’una il più possibile diversa dalle altre, da realizzare senza affanni, senza bulimie, senza ingordigie, ma anche senza pigrizie, senza ignavie, senza accidia.

Laddove, infatti, la felicità intrauterina era assicurata, garantita, dall’unità e dalla chiusura, dal rifugio in un nido sicuro e protettivo, l’unica felicità possibile – una volta nati – può essere trovata, invece, solo imboccando la strada esattamente contraria, quella della molteplicità e dell’apertura, da percorrere in campo aperto.

Che, certo, non garantisce, non rassicura, non protegge, come faceva il guscio uterino; ma implica, invece, i rischi dell’ignoto, dell’avventura, e la fatica della ricerca. Ma non ha vere e concrete alternative.

Certo, possiamo illuderci di ritrovare nella nostra vita adulta una nuova figura materna; qui la figura materna è da intendersi come archetipo, non come persona reale: può essere quindi costituita anche da un maschio, non necessariamente da una femmina.

E possiamo illuderci che questa “seconda madre” ci dia lo stesso confort, le stesse rassicurazioni, la stessa protezione, la stessa cura, che ci aveva assicurato la nostra prima madre nei nove mesi della nostra vita intrauterina!

Ma prima o poi saremo costretti a svegliarci (e sarà un amaro, doloroso risveglio) da questo sogno e a prendere consapevolezza della fatua illusione che avevamo coltivato.

© Giovanni Lamagna