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Maschere.

Pirandello ebbe a scrivere, in “Uno, nessuno e centomila”: “C’è una maschera per la famiglia, una per la società, una per il lavoro. E, quando stai solo, resti nessuno”.

Convengo con Pirandello: questa mi sembra, purtroppo, un’amara verità; nella maggior parte dei casi umani.

Aggiungerei che spesso mettiamo una maschera anche quando siamo da soli: tendiamo a nasconderci anche a noi stessi.

Per sfuggire alla orribile sensazione di essere nessuno.

Ecco, allora, che viene a crearsi un micidiale circolo vizioso.

Con il bisogno – di cui parla Pirandello – di indossare poi maschere nelle più diverse situazioni: famiglia, società, lavoro…

© Giovanni Lamagna

Bianco o nero?

La felicità, la gioia, il piacere, perfino il buonumore non sono l’esatta antitesi del dolore, della sofferenza, del lutto, della malattia.

Ci sono situazioni in cui essi si alternano a breve distanza di tempo o sono addirittura misteriosamente compresenti.

La vita non è fatta solo di bianco o di nero, ma è un impasto strano, a volte inspiegabile, assurdo, di opposti, apparentemente inconciliabili.

© Giovanni Lamagna

Quando la nostra rabbia ha radici lontane, molto lontane.

Quando stiamo male, spesso proviamo rabbia; e la prima cosa che facciamo è quella di prendercela con gli altri, di indirizzare la nostra rabbia contro gli altri.

In primis con quelli che abbiamo a tiro, che ci stanno più vicini.

Come se fosse (solo e in primis) colpa degli altri se stiamo male; e se, perciò, siamo arrabbiati; come se essi fossero la “causa prima” del nostro malessere.

Mentre in realtà non è così, non è oggettivamente così.

In realtà – se volessimo essere del tutto sinceri e radicalmente onesti – noi ce la dovremmo prendere (anche, anzi soprattutto) con noi stessi.

Perché nessuno ci impone di stare con le persone che abbiamo d’attorno.

Se ci stiamo, evidentemente è perché ne traiamo delle convenienze.

Solo che la rabbia ci annebbia la vista e ci fa vedere, invece, solo le cose negative e non anche quelle positive, che – nonostante tutto – ci fanno preferire la compagnia di alcuni a quella di altri e, a maggior ragione, alla totale solitudine.

Quando siamo arrabbiati dovremmo prendercela innanzitutto con noi stessi, che ci siamo infilati e messi in certe situazioni.

Comprese quelle che ci hanno portato ad avere rapporti (in certi casi, addirittura convivere) con le persone verso cui proviamo rabbia.

Tutt’al più, dunque, dovremmo prendercela con il nostro passato (specie con quello legato alla nostra infanzia) che ci ha reso così come siamo (per una grandissima percentuale) e ci ha portato pertanto a fare (spesso) scelte sbagliate, a stare con le persone e nei posti sbagliati, quelle a cui poi oggi (spesso) attribuiamo le ragioni della nostra rabbia.

Ma – anche qui – che senso ha prendersela con il passato, addirittura con le nostre radici, con la nostra infanzia?

Di questo passo dovremmo risalire addirittura ad Adamo ed Eva per trovare le cause e le origini del nostro malessere e, quindi, della nostra insofferenza.

Anche qui, forse, la cosa più conveniente (e saggia: sempre che ci teniamo a diventare minimamente saggi) è accettare il passato che ci trasciniamo appresso e, non dico farci pace, ma quantomeno imparare a conviverci.

Tanto quel passato 1) non lo possiamo più modificare e 2) non ne siamo noi i responsabili.

Nessun bambino è responsabile delle condizioni e dell’ambiente in cui è nato e cresciuto; del dolore vissuto e, quindi, della rabbia e, in certi casi, persino del rancore, accumulati negli anni della sua infanzia.

In conclusione: forse, questa presa di coscienza ci aiuterà (potrebbe aiutarci) a diventare un po’ più tolleranti e misericordiosi con noi stessi.

Ad essere meno arrabbiati con noi stessi; e, indirettamente, di conseguenza, anche con gli altri.

Specialmente con quelli che abbiamo maggiormente a tiro, coi quali spesso conviviamo, verso i quali nutriamo rancore per come sono e per come si comportano.

Non è cosa facile, sicuramente; di certo è più facile a dirsi che a farsi.

Ma che alternative abbiamo?

Tanto vale – quantomeno – provarci.

© Giovanni Lamagna

Alcune tesi fondamentali per me in materia di psicoterapia.

Nel capitolo intitolato “Sul fenomeno del suicidio” del libro “In dialogo con Carl Gustav Jung”, curato da Anna Jaffé (Bollati Boringhieri 2023; p. 151-155), il grande psicoanalista svizzero affronta in modo specifico – come dice il titolo – il tema della cura della tendenza al suicidio in alcuni pazienti.

Ma alcune sue affermazioni qui riportate, a mio avviso, si possono estendere alla psicoterapia in generale, alla cura anche di altri tipi di pazienti; e credo, suppongo, che Jung non avrebbe avuto obiezioni a questa mia lettura delle sue parole.

Cosa dice, dunque, Jung?

Enucleo qui di seguito quelle che mi sono sembrate le sue tre tesi principali in proposito (alcune prese alla lettera dal testo citato) e ne do una mia interpretazione, senza – presumo – fare alcuna forzatura indebita.

1.Ci sono persone che entrano in terapia, ma non recepiscono nulla di quello che il terapeuta dice loro; in questo caso, prima o poi, “il paziente abbandonerà la terapia o l’analisi.” (p. 152).

Qui do per scontato che il terapeuta, di cui sta parlando Jung, sia esperto e dotato della necessaria e adeguata empatia, che non faccia errori grossolani nell’approccio con la persona che è venuta a cercare il suo aiuto; e che, quindi, l’abbandono della terapia non dipenda dalla professionalità dello psicoterapeuta (come, invece, in altri casi, può accadere e si può ritenere).

Ci sono pazienti coi quali si ha l’impressione di parlare ad un muro; qui Jung, a proposito di una sua paziente, afferma testualmente: “Avrei potuto parlare altrettanto bene – o forse anche meglio – con una pietra.”; di fronte a pazienti di questo tipo il terapeuta non può fare molto; non può aiutare il paziente “se l’interessato stesso non lo vuole; verrebbe curato contro la sua volontà, e questo non si può fare.” (p. 152)

Dal che io deduco – e questa mi sembra una prima tesi fondamentale implicita nel pensiero di Jung – che una psicoterapia può avere un esito positivo, ovverossia sbloccare un paziente che soffre di conflitti nevrotici, solo se nel paziente la volontà inconscia di guarire è almeno un poco superiore alla sua volontà inconscia di restare nella sua nevrosi; dalla quale evidentemente – come tutti i nevrotici – ricava il famoso “vantaggio secondario”, di cui parlava Freud (lezione n. 23 di “Introduzione alla psicoanalisi”).

2. Di fronte a questo tipo di paziente e dopo aver fatto vari tentativi di sblocco della sua nevrosi, il terapeuta dovrebbe prendere onestamente atto della sua impotenza nella relazione di aiuto e comunicargli quello che Jung – molto candidamente e fermamente – ebbe il coraggio (quasi cinico) di comunicare ad una sua paziente, che era decisa a suicidarsi (e lui ne era pienamente consapevole): “Io non posso più esserle di aiuto. Io non posso più darle alcun consiglio.” (p. 153)

Ci sono pazienti che affrontano la terapia con un atteggiamento così sciatto e superficiale, che l’analista farebbe bene ad affrontarli di petto con un atteggiamento forte e deciso, senza alcuna forma di complice (e, potremmo dire, persino banale) tolleranza; Jung in questo testo confessa di essersi adirato una volta con una sua paziente di questo tipo e di averla addirittura “mandata via” in malo modo; eppure si trattava di una paziente a rischio suicidio.

Ci sono nevrotici, nei quali la “volontà di morte” è (più o meno vistosamente) superiore alla “volontà di vivere”; il che non significa che essi arriveranno necessariamente al suicidio (come accade, purtroppo, in alcuni casi estremi).

Spesso questa “volontà di morte” si presenta in individui che conducono (almeno apparentemente) una vita del tutto normale; che si aggrappano disperatamente a vari “oggetti” esterni a sé (un matrimonio, un figlio, un nipote, gli amici, il lavoro, la fama, la ricchezza, il potere…), che diano un senso alla loro vita, ma sono incapaci di trovare questo senso dentro di sé.

Naturalmente questi soggetti è come se vivessero – dice Jung – “con un solo piede o… con una sola mano”; e non è certo questa una “condizione ideale”. (p. 155)

“È qualcosa a cui ci si rassegna”. Ma “… non è la soluzione ideale”. Anche se in “certe circostanze non si può fare altrimenti. Allora è giusto rassegnarsi… Se un paziente… arriva… a quarant’anni a rassegnarsi, nessuno può impedirglielo. Ma che sia felice così, oppure che sia normale, che trovi tutto questo come ricco di senso è un altro paio di maniche.” (p. 155)

Questa mi sembra, allora, la seconda tesi fondamentale in materia di conduzione di una psicoterapia contenuta in questo capitolo: quando uno psicoterapeuta si rende conto che la psicoterapia non approderà a nulla di buono, è bene che congedi il suo paziente, senza tanti salamelecchi e senza troppa diplomazia, ma persino con una certa durezza; ci sono pazienti che sono (si dimostrano) incurabili, che sono destinati a vivere una vita apparentemente normale ma in realtà infelice, a campare metaforicamente con una sola mano o un solo piede.

3. Afferma Jung: “Che lo si voglia o meno: quando uno viene analizzato abbastanza a lungo, arriva da solo alle domande fondamentali. Non è proprio possibile altrimenti.” (p. 155)

Ed è proprio qui – a mio avviso – che un’analisi si può bloccare ed avere come suo esito (triste) l’abbandono: quando il paziente non vuole (o non ce la fa: ma questo cambia poco in termini di ricadute terapeutiche) affrontare queste “domande fondamentali”; quando ne è terrorizzato o quando non vuole affrontare (per pigrizia o per paura) i cambiamenti che le risposte a queste domande comporterebbero di conseguenza.

È questa, mi pare, la terza tesi fondamentale che si può ricavare dal pensiero di Jung in materia di psicoterapia: l’esito di questa non è mai scontato; può essere positivo, ma può anche essere negativo; una psicoterapia può sbloccare un paziente e aprirgli nuovi orizzonti mentali e, quindi, esistenziali; ma può anche arenarsi.

La psicoterapia si arena quando, di fronte alle “domande fondamentali” a cui, prima o poi, il percorso psicoterapeutico conduce, il paziente si rifiuta o è incapace di darsi delle risposte congrue, adeguate, soddisfacenti e di fare scelte conseguenti.

È da sottolineare, a mio avviso, in modo particolare questo secondo aspetto: quello delle scelte conseguenti.

Perché, per avere un buon esito psicoterapeutico, non basta capire sé stessi, come siamo fatti e come funzioniamo; bisogna anche avere o trovare da qualche parte la forza, il coraggio e l’energia necessari per mettere poi concretamente in atto le cose che si sono capite.

Che, nella maggior parte dei casi, significa realizzare dei cambiamenti radicali: nei comportamenti, nelle scelte, nelle situazioni, che hanno resa fino a quel momento infelice la nostra vita.

Se non si trovano la forza e il coraggio di realizzare questi cambiamenti, la psicoterapia sarà servita a ben poco, si sarà risolta in un sostanziale fallimento.

© Giovanni Lamagna

Sesso e consenso.

Nel sesso tutto è moralmente (oltre che giuridicamente) lecito, se incontra il consenso libero dell’altro/a e se non offende la sensibilità, il “senso del pudore” di terzi.

Sono leciti tutti i desideri, tutte le fantasie, tutte le parole, tutte le posizioni, tutte le situazioni, perfino quelle che una volta la psichiatria giudicava “perversioni”.

Dal momento che – come ci hanno insegnato Freud e la psicoanalisi, rivoluzionando la psichiatria classica – la sessualità umana, al contrario di quella bestiale, è per sua natura “perversa e polimorfa”.

Nel senso che l’uomo riesce, quando vuole, a separarla (perciò, “perversa”) dal suo scopo biologico primario, quello della procreazione, ed è capace di viverla nelle forme più varie e diverse (perciò, “polimorfa”).

Ovviamente per consenso libero si intende un consenso non comprato, non ricevuto per circonvenzione d’incapace, né, tantomeno, estorto con la violenza fisica o morale.

Ogni riferimento a Silvio Berlusconi (pace all’anima sua!) è puramente casuale; anche se la sua morte recente mi ha dato lo spunto per questa riflessione.

© Giovanni Lamagna

Perdere chi dava senso alla nostra vita significa perdersi?

Davvero “Perdere chi dava senso alla nostra vita significa perdersi”, come afferma Massimo Recalcati a pag. 27 del suo “La luce delle stelle morte” (2022 Feltrinelli)?

No, non lo penso.

Certo, non ci sono dubbi manco per me, che la perdita di un’amicizia e, ancora più, di un amore (di un genitore, di un amante, di un figlio…) comporti un dolore, più o meno grande, più o meno lacerante, a seconda del significato e del valore che il legame con loro aveva per noi.

E’ innegabile – non c’è dubbio manco per me – che la perdita di un legame significativo crei in noi un vuoto, una mancanza, uno smarrimento esistenziale, un appannamento, se non un vero e proprio obnubilamento, del senso del vivere.

Ma di qui a “perdersi”, come sostiene Recalcati, ce ne corre; o, perlomeno, ce ne dovrebbe correre.

Il “perdersi” (dopo la perdita di un legame importante) può essere anche molto grave, può durare anche un tempo molto lungo, ma non può essere (o, almeno, non dovrebbe essere) totale e, soprattutto, non può essere (o, almeno, non dovrebbe essere) definitivo.

Prima o poi, anche dopo la perdita più grave e significativa, la natura ha previsto (e per fortuna!) l’elaborazione e la fine del “lutto” legato alla perdita.

E questo per una ragione fondamentale, che si oppone allo stesso assunto iniziale di Recalcati; e cioè che nessuno, in fondo, costituisce (o, meglio, dovrebbe costituire) “il senso” della nostra vita; a nessuno dovremmo attribuire un tale valore e un tale significato, potremmo dire anche un tale potere.

Nel senso che (ed è questo l’assunto fondamentale dal quale io parto e che – almeno per me -sostituisce quello da cui è partito Recalcati) il significato profondo della nostra vita deve (o, meglio, dovrebbe) poggiare su altro: non le singole persone e, meno che mai, le singole cose; manco le persone alle quali siamo legati dagli affetti più grandi e profondi.

Dovrebbe, in altre parole, poggiare su un’accettazione della vita nel suo complesso, nella sua totalità, con le sue luci e con le sue ombre, e non su suoi singoli aspetti (situazioni, oggetti, persone… per quanto importanti, preziosi) isolati dal resto.

Singoli aspetti che sono tutti inevitabilmente soggetti a caducità e possono tutti, quindi, sfuggirci, venirci a mancare da un momento all’altro.

Mentre il resto della vita bene o male perdura, perdura oltre ogni morte, ha un che di immortale, di solido, di eterno.

E’ dunque l’amore della vita in sé – un sentimento che ha a che fare con le pascaliane ragioni del cuore più che con quelle della mente (quindi o c’è non c’è), un sentimento quasi religioso di fede o, meglio, fiducia di base – che (almeno a mio avviso) dà (o, meglio, può dare) un senso alla nostra vita e fonda poi tutti gli altri amori.

Compresi, quindi, quelli la cui perdita, quando ci colpisce, ci fa un male da morire.

Non viceversa.

Ecco perché, quando perdiamo un’amicizia o un amore, staremo male, per un tempo anche molto lungo; avremo persino la (momentanea) sensazione di morirne, di non poter sopravvivere alla perdita, perlomeno psicologicamente, se non fisicamente.

Ma, prima o poi, la persona sana, solida, strutturata psicologicamente, ne uscirà: questo ci insegna l’esperienza dei più; anche quella di coloro che nel momento in cui subiscono una perdita ci appaiono disperati, distrutti, devastati dal dolore.

Corre il rischio, invece, di perdersi definitivamente (o si perde effettivamente) la persona che aveva con la persona “amata” una relazione di attaccamento simbiotico, di dipendenza patologica, più che di vero amore.

Il vero amore, infatti, prevede e richiede indubbiamente intimità, interdipendenza, vicinanza, legame, perfino attaccamento, ma anche confini, autonomia, giusta distanza e libertà, finanche un certo distacco.

Non è (o, meglio, ripeto, non dovrebbe essere) la ragione stessa della nostra vita, quella senza la quale viene meno il senso stesso della nostra esistenza, che si ridurrebbe pertanto ad un mero e depresso sopravvivere.

© Giovanni Lamagna

Non tutto dipende da noi.

Molti pensano che nella vita (la loro e quella delle persone a cui sono legati) tutto (o quasi tutto) dipenda da ciò che fanno o non fanno loro.

Ora anche io penso che sia molto importante ciò che facciamo (o non facciamo) per noi stessi e per gli altri.

Ma penso anche che non tutto nella vita dipenda da questo nostro darci da fare; il resto (molto) dipende da ciò che, in un certo senso, è già nell’ordine cose.

Il nostro agire può solo accompagnare l’andamento delle cose (e, a volte, questo accompagnamento è molto importante, addirittura decisivo), ma non determinarlo del tutto.

C’è un quid nello svolgimento delle cose (spesso determinante) che non dipende assolutamente da ciò che facciamo o non facciamo.

Ma che si realizza in maniera del tutto autonoma, prescindendo assolutamente dalla nostra volontà e azione.

E’ importante saperlo; perché questo serve a toglie dalla nostra testa sciocchi deliri di onnipotenza.

E, allo stesso tempo, ci rende più morbidi, più flessibili, più plastici.

Che non vuol dire affatto essere rassegnati e passivi.

Vuol dire semplicemente essere realisti.

E, quindi, capaci di adattarci il meglio possibile alle diverse situazioni.

© Giovanni Lamagna

I nostri giudizi

I nostri giudizi sono sempre relativi, parziali e, quindi, modificabili.

Perché sono legati alle circostanze, alle situazioni nelle quali sono stati pensati e, in alcuni casi, anche dichiarati, espressi, esplicitati.

Pertanto, in certe situazioni estreme, si può arrivare perfino a desiderare la morte, pur avendo in precedenza sempre dichiarato di amare molto la vita.

© Giovanni Lamagna