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Non basta voler amare. Bisogna imparare ad amare.
Non basta volere amare.
Ancora meno basta dire “Ti amo”.
Occorre, si deve, sapere amare, per amare davvero.
Occorre, insomma, tradurre l’intenzione di amare, il sentimento dell’amore, in atti effettivi di amore, di cura, attenzione, rispetto, interesse, ascolto, verso la persona che si dice di amare, che si desidera amare.
Infatti, quasi sempre in noi – come ci ha insegnato la psicoanalisi, specie Jung, che sosteneva l’esistenza in noi di una duplice personalità – c’è una persona che vuole una cosa e una persona che ne vuole un’altra, a volte addirittura una opposta alla prima.
C’è, dunque, una persona che ama effettivamente e una persona che, se non arriva proprio ad odiare (anche se, alle volte, arriva persino a questo), di certo non ama per davvero.
Ora, fin quando questa seconda persona è viva, attiva in noi, fin quando non sfumerà, non si dissolverà, perché sarà stata sconfitta, domata e resa inerme, l’amore in noi, il nostro amore sarà sempre in conflitto con sentimenti che ad esso si oppongono e, quindi, sarà disturbato, incerto, ambivalente, a volte impotente, come paralizzato.
Ne consegue che non basta volere amare.
Bisogna imparare ad amare, bisogna fare dell’amore una “costruzione”, come dice una bella canzone di Ivano Fossati.
L’amore in noi non è, affatto, un moto spontaneo, naturale, scontato, come i più ritengono: se io provo amore per una persona, allora la sto anche amando.
No, non è così, non è così semplice.
In amore non si nasce già imparati, l’amore si deve imparare, si deve apprendere.
Come diceva il grande Eric Fromm, l’amore è un’arte.
Che, come tutte le arti, si apprende, bisogna apprendere.
Se non ci sono, però, la giusta volontà, il desiderio fermo e non oscillante, la decisione forte e non più contrastata di andare alla scuola dell’amore, l’amore non si apprende, rimane in noi una pia intenzione, che non si realizza poi nei fatti.
La volontà e il desiderio di amare non diventano capacità effettiva di amare.
Come spiega bene Luigi Zoja (in “Nascere non basta. Iniziazione e tossicodipendenza”; 1985, Raffaello Cortina Editore), “L’innamoramento… nasce dall’inconscio. Ma… ha poi bisogno di forza di volontà, di forza dell’Io, per trasformarsi da fantasia autistica in evento reale che assolve una funzione rinnovatrice.”
E diventare, quindi, amore.
“L’amore – afferma ancora Zoja – poco alla volta, non dovrebbe essere più vissuto come “trasporto”, come qualcosa di esterno all’Io, come spinta dell’inconscio che ci trasporta. Va spostato nell’Io.”
In altre parole anche qui – come ci ha insegnato Freud – all’Es (l’amore come forza dell’inconscio, puro “trasporto” e “fantasia autistica”) dovrà subentrare l’Io (l’amore come forza conscia, della volontà; e, quindi, “evento reale”).
© Giovanni Lamagna
Le due donne fondamentali nella vita di Carl Gustav Jung.
Chi conosce la vita di Carl Gustav Jung sa bene che egli fu un bigamo dichiarato: ebbe contemporaneamente due relazioni amorose, potremmo dire entrambe pubbliche (anche la seconda per niente clandestina) con due donne.
Due relazioni entrambe molto intense e, quindi, importanti, anzi fondamentali nella sua vita.
La prima fu quella con Emma Rauschenbach (1882–1955), di sette anni più giovane di lui, con la quale contrasse matrimonio nel 1903, che gli diede cinque figli e che gli premorì, uccisa da un cancro, a 73 anni, nel 1955, quindi sei anni prima di lui.
Emma Rauschenbach era figlia di un ricco industriale svizzero, Johannes Rauschenbach, proprietario di una fabbrica di orologi di lusso.
Alla morte del padre avvenuta nel 1905, Emma e sua sorella, insieme ai loro mariti, divennero proprietari della fabbrica e questo assicurò alla famiglia Jung per decenni una notevole base sicura dal punto di vista economico.
Emma incontrò Carl Gustav nel 1896, quando aveva appena 14 anni ed era ancora una studentessa; lo sposò – come già detto – sette anni più tardi, il 14 febbraio 1903.
Emma si interessò molto al lavoro di suo marito (che supportò economicamente, grazie alla eredità ricevuta dal padre), divenne anche lei un importante psicoanalista, fu tra i fondatori del Club di psicologia analitica di Zurigo, di cui tenne la presidenza dal 1916 al 1920, curò la pubblicazione delle opere del marito per tutta la sua vita, svolse alcune ricerche intorno alla leggenda del sacro Graal, che furono pubblicate postume in due saggi, curati da Marie Louise von Franz.
La seconda relazione fu quella con Toni Wolf (1888-1953); Toni nacque a Zurigo, anche lei in una famiglia benestante, primogenita di tre figlie.
“Fu incoraggiata dai genitori a seguire i propri interessi intellettuali e di studio, dedicandosi a filosofia, mitologia e astrologia”, ma le fu poi impedito di iscriversi all’università, poiché il padre non trovava questo ambiente adatto a una ragazza; “tuttavia lei seguì lo stesso dei corsi pur senza iscriversi”.
“Nel dicembre del 1909 il padre morì e Toni, che aveva allora 21 anni, entrò in depressione; si recò allora in cura da Jung”, che apprezzò subito il “naturale acume della sua intelligenza” oltre alla sua “sensibilità psicologica davvero geniale” e la fece diventare una delle sue principali collaboratrici.
Ben presto, però, attorno al 1913, tra i due il rapporto da professionale divenne anche amoroso.
Sulle prime la moglie di Jung, Emma, ne fu profondamente ferita, col tempo però riuscì ad accettare la presenza importante di un’altra donna nella vita erotica e sessuale del marito, per cui venne a costituirsi un vero e proprio, perfino dichiarato e pubblico, menage a trois.
Toni Wolf morì improvvisamente il 21 marzo 1953, all’età di 64 anni; Jung gli sopravvivrà di otto anni.
Questa ricostruzione (fonte principale Wikipedia) della dimensione privata ed affettiva della vita di Jung avrebbe ben scarso interesse, se non le si accompagnasse l’analisi delle motivazioni e delle ragioni profonde su cui essa si poggiava; almeno dal punto di vista di Jung.
In questo senso ci aiutano molto tre pagine (185, 186 e 187) del libro uscito di recente a firma di Aniela Jaffé, la segretaria di Jung e una delle sue principali collaboratrici, intitolato “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023).
Qui Jung parla in maniera sufficientemente estesa del suo rapporto sia con l’una che l’altra donna della sua vita e ne descrive le rispettive psicologie; molto diverse, forse persino opposte; dato questo che spiega a mio avviso l’attrazione che Jung provava contemporaneamente sia per l’una che per l’altra.
Jung descrive Toni come una donna la cui “inclinazione era totalmente terrena”, che “era però diventata molto intellettuale”; per cui il “suo carattere era sovente forzato e innaturale”; voleva in altre parole, mi verrebbe di dire, essere quella che non era; Jung dice che “si opponeva al suo destino, al suo essere terrena, al suo essere di questo mondo.” (p. 185)
Secondo Jung, perciò “avrebbe dovuto dire a sé stessa: “Mi sono lasciata sfuggire un pezzo di vita”. Ma finché visse l’aveva a lungo negato. Solo gradualmente – ma troppo tardi – riuscì a riconoscerlo lei stessa.; e questo richiese un alto grado di onestà e coraggio. Però in quel momento lei non fu più in grado di raggiungere il pezzo mancante della sua vita. Fu questa la sua tragedia.” (p.185)
Se esistesse la reincarnazione, dice Jung “per Toni essa dovrebbe realizzarsi nella direzione di un’accresciuta appartenenza a questo mondo e di una vicinanza alla natura. E questo si è evidenziato anche nei sogni che ho avuto su di lei dopo la sua morte.” (p. 185)
“Nei sogni che la riguardavano avevo sempre la sensazione di una realtà e di una vitalità impressionanti. Mia moglie appariva nei sogni molto più lontana. Toni appariva assolutamente viva e vicina alla realtà.
Una volta ebbi un sogno molto suggestivo: lei si trovava in Italia, in una campagna dell’Umbria, occupata a lavorare come contadina insieme ad altri agricoltori. Era proprio quello che le si sarebbe voluto augurare, perché ci si poteva immaginare che lì sarebbe guarita. (p.185)
Era abbronzata dal sole e straordinariamente vitale, come in realtà non era mai stata. Adesso veniva in primo piano tutto il suo lato ctonio-corporeo. Lei si sentiva naturale e semplice. Era interamente terra, totalmente ctonia, aveva persino i tratti pagani della contadina meridionale. In quei luoghi la gente è molto legata alla terra. (p. 186)
Del tutto diversa, anzi per molti versi opposta, la figura di Emma, la moglie di Jung, che egli descrive come una persona legata pienamente al “mondo spirituale”, destinata “a evolversi lungo la linea spirituale”.
Come evidenziato dai sogni che Jung ebbe dopo la sua morte e che lo svegliavano di soprassalto “sapendo che ero stato da lei e che avevamo trascorso l’intera giornata in Provenza, dove lei stava lavorando ai suoi studi sul Graal.”
In conclusione e per segnare la netta differenza tra la personalità dell’una e dell’altra Jung afferma: “Sentivo che mia moglie si trovava nel mondo spirituale. Toni era invece in un mondo ctonio.” (p. 186); cioè non solo terreno, ma addirittura sotterraneo, infero.
Come risulta evidente da questi – brevi ma molto significativi – ricordi autobiografici, le due figure di Emma e di Toni corrispondevano, dunque, a due aspetti/bisogni/aspirazioni molto diversi dell’uomo Jung, che molto difficilmente avrebbero potuto trovare corrispondenza adeguata in una donna sola.
Come scrive Aniella Jaffé nel suo testo a chiosa delle parole che le aveva appena riferito Jung, Emma, la moglie, fu, per il fondatore della psicologia analitica, “il grande fondamento della casa e, come madre di cinque figli e nonna di una schiera di nipoti, anche il fondamento della sua famiglia.”; la base sicura non solo sul piano affettivo e spirituale, ma anche su quello materiale, come abbiamo già detto persino economico.
“Grazie alla sua forza psichica e all’autonomia del suo spirito, lei gli offrì nei periodi più difficili “un punto d’appoggio in questo mondo”.”, pur avendo una psicologia –come l’ha descritta lo stesso Jung – fortemente incline alla spiritualità.
Gli fu talmente devota da riuscire a superare la sua iniziale gelosia nei confronti dell’amante del marito Toni Wolff e concedere al coniuge quello “spazio vitale” (p. 68) di libertà e di autonomia di cui egli aveva indispensabile bisogno per svolgere il suo lavoro.
Allo stesso tempo fu capace, con grande coraggio e intelligenza emotiva, di compiere un autonomo percorso evolutivo e di individuazione, che la portò ad un certo punto ad affermare, lucidamente e onestamente, del marito: “Lui mai ha portato via a me qualcosa per darla a Toni. Al contrario più dava a lei più sembrava in grado di dare a me.” (p. 187).
Toni Wolff, pur essendo una natura fondamentalmente terragna, più donna del Sud che del Nord (al contrario di Emma Rauschenbach, donna tipicamente nordica) fu per Jung la compagna privilegiata “nella sua indagine dell’inconscio e del mondo interiore”; svolse “un ruolo analogo a quello che la soror mistica svolge nell’Opus alchemicum.”
Dalle cose che ho fin qui riportato credo che risulti evidente come entrambe queste due donne abbiano svolto un ruolo fondamentale nella vita privata (emotiva-affettiva-spirituale), e in quella pubblica (professionale- intellettuale-scientifica) di Jung; e credo si spieghi bene, quindi, come egli non potesse prescindere da nessuna delle due.
Per cui – mi viene da chiosare – sembra avere conferma, in questo singolare menage a trois, una riflessione, che ho trovato di recente in un romanzo che sto leggendo in questi giorni e che mi sembra perciò opportuno, significativo, citare a conclusione di questo mio articoletto:
“… la persona giusta non esiste…
Non esiste né in terra né in cielo né da nessun’altra parte… Esistono soltanto le persone e in ognuna c’è un pizzico di quella giusta, ma in nessuna c’è tutto quello che ci aspettiamo e speriamo. Nessuna racchiude in sé tutto questo, e non esiste quella certa figura, l’unica, la meravigliosa, la sola che potrà darci la felicità. Esistono soltanto delle persone, e in ognuna ci sono scorie e raggi di luce, tutto…” (Sandor Marai; da “La donna giusta”; Adelphi edizioni 2017; p. 125)
© Giovanni Lamagna
Paura della morte.
Per mia esperienza personale posso dire che dopo i 70 anni si entra in una fase del tutto nuova della vita: si incomincia ad avere paura seriamente della morte.
Perché la si avverte non più come una realtà lontana, futura remota, che riguarda altri, ma come una realtà vicina, futura prossima, che ci riguarda direttamente.
Sarà perché siamo costretti a partecipare sempre più spesso ai funerali di nostri coetanei; e allora diventa naturale chiedersi: quando verrà anche il mio momento?
Si entra perciò in uno stato d’animo latente e diffuso di allarme: ogni più piccolo sintomo ci appare come anticipatore (possibile) di un qualche grave male.
Anche l’estrazione di un dente lo viviamo come il segnale di un tempo che si consuma irreversibilmente e sempre più velocemente; e che, soprattutto, non tornerà mai più.
© Giovanni Lamagna
La parabola dei rapporti di coppia.
Ad un certo punto succede (non in tutti, ma di certo nella grande maggioranza dei rapporti di coppia) che uno dei due o (ancora più spesso) tutti e due i membri della coppia si “siedano”, come se fossero giunti ad un approdo terminale, definitivo.
Per molti questo approdo coincide col matrimonio; quindi viene raggiunto abbastanza presto nella storia del rapporto, considerato che, in genere, ci si sposa dopo due o tre anni dal momento in cui si decide di “mettersi assieme”.
A questo punto i due diventano del tutto prevedibili l’uno per l’altro e, quindi, scontati; la loro relazione acquista pertanto i colori della malinconica monotonia.
Il rapporto, ovviamente, perde la brillantezza degli inizi, si opacizza; i partner cominciano col parlarsi di meno, continuano via, via col parlarsi sempre di meno e, infine giungono a non parlarsi proprio più.
Nella migliore delle ipotesi parlano di tante cose – degli altri, dei fatti che accadono, delle cose che li circondano, magari e perfino di arte, di filosofia, di scienza, di politica – ma non più di sé stessi.
Quando accade questo, per me il rapporto è psichicamente, spiritualmente, anche se non fisicamente, materialmente, morto.
Tra i due membri di una relazione c’è poi, spesso, se non sempre, chi a questa “morte” si rassegna, dandola per inevitabile e scontata, quasi fosse un esito naturale, fisiologico.
In certi casi entrambi sposano questa rassegnazione e in questo modo la relazione trova un nuovo equilibrio, basato su un tacito accordo, da entrambi condiviso: evitare ogni comunicazione profonda, davvero intima.
Il rapporto può, in questo modo, durare fino a che morte non li separi.
Altre volte, invece, tra i due c’è chi a questa “morte” non si rassegna e scalpita.
O facendo continue richieste (implicite o esplicite) all’altro di cambiamento, di rinnovamento; quasi sempre, però, inutili e fallimentari.
O/e cercando il cambiamento fuori, in un altro rapporto.
In questo caso il membro della coppia che cerca il cambiamento viene considerato il traditore del rapporto: lascio giudicare a voi con quale logica e fondatezza.
Conclusione: per mantenere vivo un rapporto non bisogna mai dare niente per scontato, bisogna continuamente stupire l’altro/a, presentandosi ai suoi occhi come una persona sempre nuova.
Tutto questo esige, ovviamente, cura, attenzione, dedizione, ma io dico soprattutto fantasia e creatività; immaginazione, come diceva Hillman.
Ad alcuni (anzi, forse, ai più) questo può risultare troppo faticoso; per cui viene spontaneo chiedersi, consciamente o inconsciamente: ne vale la pena?
A questa domanda io non ho dubbi nel rispondere: sì, ne vale la pena!
Sarà pure (anzi, è) faticoso, ma è anche l’unico modo per mantenersi vivi.
Non tanto o non solo per mantenere vivo, vitale il rapporto, ma per tenersi vivi come persone, come singole individualità.
L’alternativa è appassire come individui e contribuire, di conseguenza, per la propria parte, all’appassimento inesorabile della relazione di coppia.
© Giovanni Lamagna
Differenze tra uomo e donna.
A proposito del suo volume “L’esperienza vissuta” (1949), Simone de Beauvoir così scrive: “Uno dei fraintendimenti che il mio libro ha provocato è l’idea che io non riconosca la differenza tra uomo e donna. Al contrario! Man mano che scrivevo mi era sempre più chiaro cosa divide i generi. Dico solo che queste differenze non sono naturali ma legate alla cultura.”.
Io concordo con la de Beauvoir che molte differenze tra il genere maschile e quello femminile, normalmente e comunemente attribuite alla natura, hanno invece una genesi culturale.
Non sono d’accordo però che abbiano una origine solo culturale.
Ce ne sono alcune (molte) che hanno una origine culturale, altre che hanno un’origine biologica, naturale.
Che la donna (per fare un solo esempio, quello più eclatante e banale) abbia una struttura fisica, che la predispone a diventare madre, e che l’uomo non ce l’abbia è scritto nella biologia, quindi nella natura, e non solo (anzi in questo caso neanche in primo luogo) nella cultura.
© Giovanni Lamagna
Legittima difesa e nonviolenza.
Ho la ferma, solida, intuizione (non arrivo alla presunzione di definirla “convinzione”) che la violenza contraccambiata sia solo uno dei modi coi quali si possa (qualcuno invece presuntuosamente, arriva a dire: si debba) reagire alla violenza ricevuta.
Certo, la risposta violenta è sicuramente quella più istintiva, quella che viene più immediata e facile; e (forse per questo) quella che finora ha prevalso nella storia delle relazioni umane, soprattutto tra le Comunità e gli Stati.
Il concetto di “difesa legittima” (per quanto limitato dal carattere della giusta proporzionalità rispetto all’offesa ricevuta) è parte integrante del diritto di tutti gli Stati, anche di quelli più democratici e tendenzialmente pacifisti.
Ed è stato assunto perfino dalla morale cristiana, in modo particolare da quella cattolica; anche se negli ultimi decenni molti pronunciamenti delle gerarchie ecclesiastiche hanno cominciato a metterlo seriamente in discussione.
Eppure è mia profonda sensazione che alla reazione violenta in risposta all’azione violenta subita possano esserci delle alternative, concretamente praticabili; e che, prima o poi bisognerà cominciare ad attuarle, se l’Umanità vorrà evitare di mettersi (se non si è già messa) sul pendio scosceso che la porterebbe fatalmente verso la catastrofe atomica mondiale e, quindi, verso il suicidio.
Ritengo, infatti, che sia istintivo e, quindi, naturale reagire difendendosi con la violenza dalla violenza, ma che sia altrettanto naturale e forse persino istintivo (almeno per alcuni) provare ripugnanza per la violenza in sé, anche per quella eventuale difensiva e non solo (com’è ovvio) per quella eventuale subita.
Chi prova ripugnanza istintiva, direi addirittura fisica prima che morale, verso ogni forma di violenza, avverte intimamente e profondamente che dovrà reagire con metodi non violenti alla violenza di cui sarà oggetto, che “all’occhio per occhio, al dente per dente” dovrà sostituire, se non proprio la scelta evangelica del “porgere l’altra guancia”, una difesa attiva nonviolenta.
Anche a costo di risultare inizialmente perdente e di dare scandalo, apparendo codardo agli occhi di chi non vede e non concepisce alternative alla “legittima difesa violenta”.
Ma tant’è: qui si confrontano due visioni del mondo, che entrambe hanno, a mio modesto parere, dei fondamenti di razionalità.
Anche se a chi ne sostiene una (specie a chi non vede alternative alla “legittima difesa violenta”) risulterà difficile riconoscere i fondamenti di razionalità (e, quindi, di legittimità) dell’altra.
La mia previsione è che non sarà la preveggente autocoscienza (come sarebbe auspicabile, anche se forse è pura utopia) ma la storia e solo la storia a stabilire (quindi – purtroppo! -solo a posteriori) quale di essa era la più saggia e lungimirante.
Spero solo che non sarà una storia tragica, anzi apocalittica.
Come temo, invece, sarà, se l’Umanità non si deciderà a fare (quanto prima, non ci resta molto tempo a disposizione) una scelta radicale di nonviolenza.
Che poi – sia detto qui solo per inciso; il discorso richiederebbe ben altro spazio – non vuol dire affatto arrendersi passivamente alla violenza subita (come la caricatura propagandistica che ne fanno i “militaristi” tende a far passare nel comune immaginario), ma significa fare ricorso ad altre forme di conflitto, diverse da quelle pur legittime (almeno in sede teorica) della difesa violenta, dell’occhio per occhio, dente per dente.
© Giovanni Lamagna
Può un corpo apparirmi nel tempo sempre nuovo?
“Il corpo di cui conosco a memoria la geografia, le insenature, i rilievi, le profondità, la consistenza, è reso sempre nuovo dall’onda inarrestabile del tempo.” (Massimo Recalcati; “Mantieni il bacio”; Feltrinelli 2019; pag. 120-121)
Sono d’accordo e, allo stesso tempo, non sono d’accordo con questa affermazione.
Sono d’accordo, perché effettivamente quello che dice Recalcati può succedere, non è impossibile, è nell’ordine delle possibilità, anche se, a dire il vero, non è molto frequente.
Il trascorrere del tempo non è fatale, non è destino che renda obsoleto (e quindi non più desiderabile) lo “stesso”, oggetto del mio desiderio; anche – perfino – lo stesso corpo della persona che frequento da anni e che conosco oramai come le mie tasche.
Non sono d’accordo, perché Recalcati in questa sua affermazione utilizza un verbo (“è reso”) al modo indicativo, come se questa esperienza fosse la norma, rientrasse cioè nell’ordine normale e naturale delle cose.
E non fosse solo una possibilità (come, invece, la considero io), quindi niente affatto scontata, anzi – a dire il vero – il più delle volte, come succede nella maggior parte dei rapporti, irrealizzata e, quindi, non verificata.
Non sono d’accordo, inoltre, anche per un altro motivo.
Perché non è il tempo in sé che rende sempre nuovo il corpo dell’altro che amo.
Innanzitutto, per il fatto – persino banale – che il tempo rende oggettivamente più vecchio il corpo dell’altro (altro che nuovo!) e pertanto lo fa meno attraente ai miei occhi.
E, in secondo luogo, perché il tempo di per sé tende a produrre un fenomeno di assuefazione e quindi di appassimento del mio desiderio per quel corpo.
È solo la mia volontà, la mia “buona disposizione” d’animo, il mio voler tener viva la relazione, che mi permette di vedere sempre nuovo il corpo dell’altro, nonostante il trascorrere inesorabile del tempo lo renda sempre più vecchio.
E lo è ancor più, a dire il vero, la capacità dell’altro di rendersi sempre nuovo ai miei occhi nonostante rimanga sempre sé stesso.
È la disposizione dell’altro a rendersi seduttivo in forme sempre rinnovate (una qualità che è della psiche – dell’anima, direbbe Hillman – e non del corpo) che mi fa (può farmi) apparire sempre nuovo il suo corpo.
Niente di scontato, quindi, e meno che mai di spontaneo e naturale!
L’amore, persino il desiderio, possono durare nel tempo; non sono destinati fatalmente ad appassire, come molti (forse i più) ritengono.
Però, perché questo si verifichi è necessario un impegno reciproco delle due persone che si sono incontrate un giorno e che sono state attratte l’una verso l’altra.
L’impegno di ciascuna di loro – direi una “cura”, per usare una bellissima parola che ricorre in una famosa canzone di Battiato – a rendersi ogni giorno nuova agli occhi dell’altra, in modo da rendere possibile ogni giorno l’incanto, la magia della scoperta.
Del “nuovo” nello “stesso”.
© Giovanni Lamagna
Il nuovo, lo stesso, il diverso.
Sono pienamente d’accordo con Recalcati quando afferma che “il nuovo” e “lo stesso” non sono per forza di cose due concetti opposti, che debbano stare in antitesi.
Come, d’altra parte, “il nuovo” e “il diverso” non sono necessariamente sinonimi, non è scontato che vadano naturalmente e automaticamente sempre d’accordo.
Si può, infatti, trovare del “nuovo” nello “stesso”.
Mentre non è detto che si trovi sempre e davvero del “nuovo” nel “diverso”.
Fatta questa premessa, possiamo dire che è del tutto legittimo cercare le novità nella propria vita: questo fa parte del naturale, fisiologico bisogno di cambiare periodicamente pelle e dell’altrettanto naturale desiderio di arricchirsi umanamente, di crescere, di evolvere, di non restare fermi allo stesso palo per tutta la vita.
Cosa particolarmente vera, giusta, legittima, nelle relazioni, specie in quelle di coppia.
Non bisogna, però, cadere nell’illusione ingannevole che la novità la si trovi semplicemente cercando il nuovo; ad esempio, un nuovo partner.
Perché ci potremmo molto facilmente ritrovare con un partner nuovo molto simile, nelle sue caratteristiche psicologiche e, persino, in quelle fisiche, al partner vecchio, dal quale ci siamo separati per andare a vivere col nuovo.
Molto meno ingannevole e illusorio potrebbe essere il ricercare la novità, anzi le novità, all’interno dello stesso rapporto, anche se questo magari dura da anni.
La cosa è indubbiamente più faticosa e impegnativa per entrambi i partner di una relazione, ma molto meno a rischio di andare incontro a un (nuovo) fallimento.
Anche se, ovviamente, richiede una disponibilità continua, permanente, costante, alla ricerca, al rinnovamento e al cambiamento.
Richiede in altre parole che entrambi i partner siano persone evolutive, in cammino, disposte a rischiare, a mettersi in continua discussione; e non statiche, ferme, poltronare (oggi si direbbe “divaniste”), piccolo-borghesi, benpensanti, in cerca (solo) di rassicurazioni e conferme l’uno dall’altro.
© Giovanni Lamagna
Amore: sentimento, arte e scienza.
A mio avviso, le coppie (ma, io direi, anche le famiglie intere: quindi, genitori e figli) farebbero bene a dedicare uno spazio della settimana (un paio di ore, ad esempio) a quella che – quando stavo da ragazzo in Azione cattolica – veniva definita “la revisione di vita”.
Che, in questo caso, applicata a questa situazione, sarebbe un esame di coscienza dello stato delle relazioni all’interno della coppia, innanzitutto, e all’interno della famiglia, laddove in questa esperienza fosse coinvolta l’intera famiglia.
Un esame di coscienza delle cose che non sono andate nell’arco della settimana, ma anche un’affermazione/esternazione delle cose che si desidererebbe accadessero tra marito e moglie e tra genitori e figli.
So bene che all’acquisizione di questa (per me) “sana abitudine” si oppone l’argomento che l’amore – che naturalmente regna (o, meglio, dovrebbe regnare) all’interno di una coppia e di una famiglia – basta e avanza per affrontare e risolvere tutti i problemi.
Ma io sono fermamente convinto che questo argomento sia infondato; non tanto perché non creda che sia l’amore la soluzione dei problemi di coppia e delle famiglie, ma perché ritengo che l’amore non sia affatto un sentimento (solo) naturale e spontaneo.
Ma che l’amore sia un sentimento che nasce, sì, spontaneo e in modo istintivo e naturale (altrimenti manco si potrebbe parlare di amore in una relazione), ma che questo sentimento vada poi coltivato e tenuto in vita nel corso degli anni, per evitare che scada nella routine e che quindi, prima o poi, sfiorisca o addirittura si estingua.
Ma in che modo si può coltivare e tenere in vita nel tempo l’amore? Facendo ricorso ad opportuni accorgimenti; tra i quali quello dell’autocoscienza e del confronto – amorevole, ma allo stesso tempo franco e trasparente – mi sembra il principale.
L’amore, insomma, non è solo un sentimento, un affetto, un moto del cuore, ma è anche un’arte, che si apprende e che va esercitata, con cura, interesse e costanza, come ha scritto Fromm in suo splendido libretto del 1956.
In certi casi e momenti, anzi, l’amore richiede addirittura un sapere: il sapere, ad esempio, che mette a nostra disposizione la psicologia, specie la psicoanalisi; l’amore è, quindi, anche una scienza, oltre che un’arte.
© Giovanni Lamagna