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Sesso, morale e potere.

A voler tenere conto sia della lezione freudiana che di quella marxiana, possiamo dire che la morale sessuale (o, per meglio dire, sessuofobica) è per le coscienze, per la psiche delle persone, ciò che la proprietà dei mezzi di produzione è per i rapporti economici all’interno delle società.

Sono entrambe strumenti di oppressione, sottomissione e, quindi, di potere.

Attraverso i sensi di colpa (legati al sesso) le gerarchie (di qualsiasi tipo, ma soprattutto quelle religiose) hanno da sempre nella storia affermato e rinsaldato il loro potere “spirituale”.

© Giovanni Lamagna

Morale sessuale.

La morale sessuale della maggior parte delle persone è figlia della pigrizia, del conformismo, delle convenzioni, del quieto vivere, delle paure e dei tabù, della povertà di fantasia e della scarsa immaginazione.

È, insomma, a mio avviso, figlia della loro miseria emotiva, sentimentale, intellettuale e spirituale in senso lato.

Altro che virtù: la virtù c’entra ben poco!

Se fosse figlia della virtù, sarebbe accompagnata dalla gioia di vivere e, quindi, dall’allegria, dall’entusiasmo, dalla vitalità, dalla pace interiore ed esteriore.

E, invece, io vedo ben poche di queste “qualità” in giro tra le persone con le quali vengo in contatto, in maniera più o meno intima e profonda.

© Giovanni Lamagna

Valore in sé e riconoscimento sociale.

Le persone hanno un valore in sé e un valore che attribuisce loro la società.

Sono due valori completamente distinti, non poche volte divergenti.

Il primo è legato alle qualità che la persona possiede: bellezza fisica, simpatia caratteriale, sensibilità, equilibrio, saggezza, intelligenza, onestà, coerenza, generosità, altruismo, coraggio, spirito di ricerca… e chi più ne ha più ne metta.

Tali qualità definiscono oggettivamente la statura morale, intellettuale, spirituale, umana di una persona; a prescindere dal suo ruolo sociale.

Il secondo valore, invece, è legato al prestigio sociale che una persona è riuscita a conquistarsi, cioè al livello di riconoscimento sociale ottenuto, potremmo anche dire al grado di successo conquistato.

In genere questo valore è molto legato al mestiere o alla professione svolta dalla persona e, quindi, al ruolo sociale che da quel mestiere o da quella professione consegue.

Ci sono persone nelle quali valore in sé e valore sociale più o meno coincidono e si pareggiano.

Altre per le quali il riconoscimento, il valore e il ruolo sociale sopravanzano (a volte di gran lunga) il loro valore umano: sono parecchie.

Altre, infine, il cui valore in sé supera (e a volte di gran lunga) il valore e il ruolo che riconosce loro la società: sono pochine.

© Giovanni Lamagna

“E’ bene per voi che io me ne vada.”

Gesù ai suoi discepoli, poco prima di morire, disse: “E’ bene per voi che io me ne vada” (Vangelo di Giovanni; 16, 7).

Ed aveva ragione; desiderando egli che i suoi discepoli diventassero persone finalmente e pienamente autonome da lui, capaci di incarnare perfettamente senza di lui lo spirito del suo insegnamento.

La perdita di una persona amata, infatti, scava in noi un vuoto, per riempire il quale siamo costretti a introiettarne le caratteristiche psicologiche, a ricostruire dentro di noi la sua presenza spirituale, in assenza di quella fisica.

© Giovanni Lamagna

Le due donne fondamentali nella vita di Carl Gustav Jung.

Chi conosce la vita di Carl Gustav Jung sa bene che egli fu un bigamo dichiarato: ebbe contemporaneamente due relazioni amorose, potremmo dire entrambe pubbliche (anche la seconda per niente clandestina) con due donne.

Due relazioni entrambe molto intense e, quindi, importanti, anzi fondamentali nella sua vita.

La prima fu quella con Emma Rauschenbach (18821955), di sette anni più giovane di lui, con la quale contrasse matrimonio nel 1903, che gli diede cinque figli e che gli premorì, uccisa da un cancro, a 73 anni, nel 1955, quindi sei anni prima di lui.

Emma Rauschenbach era figlia di un ricco industriale svizzero, Johannes Rauschenbach, proprietario di una fabbrica di orologi di lusso.

Alla morte del padre avvenuta nel 1905, Emma e sua sorella, insieme ai loro mariti, divennero proprietari della fabbrica e questo assicurò alla famiglia Jung per decenni una notevole base sicura dal punto di vista economico.

Emma incontrò Carl Gustav nel 1896, quando aveva appena 14 anni ed era ancora una studentessa; lo sposò – come già detto – sette anni più tardi, il 14 febbraio 1903.

Emma si interessò molto al lavoro di suo marito (che supportò economicamente, grazie alla eredità ricevuta dal padre), divenne anche lei un importante psicoanalista, fu tra i fondatori del Club di psicologia analitica di Zurigo, di cui tenne la presidenza dal 1916 al 1920, curò la pubblicazione delle opere del marito per tutta la sua vita, svolse alcune ricerche intorno alla leggenda del sacro Graal, che furono pubblicate postume in due saggi, curati da Marie Louise von Franz.

La seconda relazione fu quella con Toni Wolf (1888-1953); Toni nacque a Zurigo, anche lei in una famiglia benestante, primogenita di tre figlie.

“Fu incoraggiata dai genitori a seguire i propri interessi intellettuali e di studio, dedicandosi a filosofia, mitologia e astrologia”, ma le fu poi impedito di iscriversi all’università, poiché il padre non trovava questo ambiente adatto a una ragazza; “tuttavia lei seguì lo stesso dei corsi pur senza iscriversi”.

“Nel dicembre del 1909 il padre morì e Toni, che aveva allora 21 anni, entrò in depressione; si recò allora in cura da Jung”, che apprezzò subito il “naturale acume della sua intelligenza” oltre alla sua “sensibilità psicologica davvero geniale” e la fece diventare una delle sue principali collaboratrici.

Ben presto, però, attorno al 1913, tra i due il rapporto da professionale divenne anche amoroso.

Sulle prime la moglie di Jung, Emma, ne fu profondamente ferita, col tempo però riuscì ad accettare la presenza importante di un’altra donna nella vita erotica e sessuale del marito, per cui venne a costituirsi un vero e proprio, perfino dichiarato e pubblico, menage a trois.

Toni Wolf morì improvvisamente il 21 marzo 1953, all’età di 64 anni; Jung gli sopravvivrà di otto anni.

Questa ricostruzione (fonte principale Wikipedia) della dimensione privata ed affettiva della vita di Jung avrebbe ben scarso interesse, se non le si accompagnasse l’analisi delle motivazioni e delle ragioni profonde su cui essa si poggiava; almeno dal punto di vista di Jung.

In questo senso ci aiutano molto tre pagine (185, 186 e 187) del libro uscito di recente a firma di Aniela Jaffé, la segretaria di Jung e una delle sue principali collaboratrici, intitolato “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023).

Qui Jung parla in maniera sufficientemente estesa del suo rapporto sia con l’una che l’altra donna della sua vita e ne descrive le rispettive psicologie; molto diverse, forse persino opposte; dato questo che spiega a mio avviso l’attrazione che Jung provava contemporaneamente sia per l’una che per l’altra.

Jung descrive Toni come una donna la cui “inclinazione era totalmente terrena”, che “era però diventata molto intellettuale”; per cui il “suo carattere era sovente forzato e innaturale”; voleva in altre parole, mi verrebbe di dire, essere quella che non era; Jung dice che “si opponeva al suo destino, al suo essere terrena, al suo essere di questo mondo.” (p. 185)

Secondo Jung, perciò “avrebbe dovuto dire a sé stessa: “Mi sono lasciata sfuggire un pezzo di vita”. Ma finché visse l’aveva a lungo negato. Solo gradualmente – ma troppo tardi – riuscì a riconoscerlo lei stessa.; e questo richiese un alto grado di onestà e coraggio. Però in quel momento lei non fu più in grado di raggiungere il pezzo mancante della sua vita. Fu questa la sua tragedia.” (p.185)

Se esistesse la reincarnazione, dice Jung “per Toni essa dovrebbe realizzarsi nella direzione di un’accresciuta appartenenza a questo mondo e di una vicinanza alla natura. E questo si è evidenziato anche nei sogni che ho avuto su di lei dopo la sua morte.” (p. 185)

Nei sogni che la riguardavano avevo sempre la sensazione di una realtà e di una vitalità impressionanti. Mia moglie appariva nei sogni molto più lontana. Toni appariva assolutamente viva e vicina alla realtà.

Una volta ebbi un sogno molto suggestivo: lei si trovava in Italia, in una campagna dell’Umbria, occupata a lavorare come contadina insieme ad altri agricoltori. Era proprio quello che le si sarebbe voluto augurare, perché ci si poteva immaginare che lì sarebbe guarita. (p.185)

Era abbronzata dal sole e straordinariamente vitale, come in realtà non era mai stata. Adesso veniva in primo piano tutto il suo lato ctonio-corporeo. Lei si sentiva naturale e semplice. Era interamente terra, totalmente ctonia, aveva persino i tratti pagani della contadina meridionale. In quei luoghi la gente è molto legata alla terra. (p. 186)

Del tutto diversa, anzi per molti versi opposta, la figura di Emma, la moglie di Jung, che egli descrive come una persona legata pienamente al “mondo spirituale”, destinata “a evolversi lungo la linea spirituale”.

Come evidenziato dai sogni che Jung ebbe dopo la sua morte e che lo svegliavano di soprassalto “sapendo che ero stato da lei e che avevamo trascorso l’intera giornata in Provenza, dove lei stava lavorando ai suoi studi sul Graal.

In conclusione e per segnare la netta differenza tra la personalità dell’una e dell’altra Jung afferma: “Sentivo che mia moglie si trovava nel mondo spirituale. Toni era invece in un mondo ctonio.” (p. 186); cioè non solo terreno, ma addirittura sotterraneo, infero.

Come risulta evidente da questi – brevi ma molto significativi – ricordi autobiografici, le due figure di Emma e di Toni corrispondevano, dunque, a due aspetti/bisogni/aspirazioni molto diversi dell’uomo Jung, che molto difficilmente avrebbero potuto trovare corrispondenza adeguata in una donna sola.

Come scrive Aniella Jaffé nel suo testo a chiosa delle parole che le aveva appena riferito Jung, Emma, la moglie, fu, per il fondatore della psicologia analitica, “il grande fondamento della casa e, come madre di cinque figli e nonna di una schiera di nipoti, anche il fondamento della sua famiglia.”; la base sicura non solo sul piano affettivo e spirituale, ma anche su quello materiale, come abbiamo già detto persino economico.

Grazie alla sua forza psichica e all’autonomia del suo spirito, lei gli offrì nei periodi più difficili “un punto d’appoggio in questo mondo”.”, pur avendo una psicologia –come l’ha descritta lo stesso Jung – fortemente incline alla spiritualità.

Gli fu talmente devota da riuscire a superare la sua iniziale gelosia nei confronti dell’amante del marito Toni Wolff e concedere al coniuge quello “spazio vitale” (p. 68) di libertà e di autonomia di cui egli aveva indispensabile bisogno per svolgere il suo lavoro.

Allo stesso tempo fu capace, con grande coraggio e intelligenza emotiva, di compiere un autonomo percorso evolutivo e di individuazione, che la portò ad un certo punto ad affermare, lucidamente e onestamente, del marito: “Lui mai ha portato via a me qualcosa per darla a Toni. Al contrario più dava a lei più sembrava in grado di dare a me.” (p. 187).

Toni Wolff, pur essendo una natura fondamentalmente terragna, più donna del Sud che del Nord (al contrario di Emma Rauschenbach, donna tipicamente nordica) fu per Jung la compagna privilegiata “nella sua indagine dell’inconscio e del mondo interiore”; svolse “un ruolo analogo a quello che la soror mistica svolge nell’Opus alchemicum.

Dalle cose che ho fin qui riportato credo che risulti evidente come entrambe queste due donne abbiano svolto un ruolo fondamentale nella vita privata (emotiva-affettiva-spirituale), e in quella pubblica (professionale- intellettuale-scientifica) di Jung; e credo si spieghi bene, quindi, come egli non potesse prescindere da nessuna delle due.

Per cui – mi viene da chiosare – sembra avere conferma, in questo singolare menage a trois, una riflessione, che ho trovato di recente in un romanzo che sto leggendo in questi giorni e che mi sembra perciò opportuno, significativo, citare a conclusione di questo mio articoletto:

… la persona giusta non esiste…

Non esiste né in terra né in cielo né da nessun’altra parte… Esistono soltanto le persone e in ognuna c’è un pizzico di quella giusta, ma in nessuna c’è tutto quello che ci aspettiamo e speriamo. Nessuna racchiude in sé tutto questo, e non esiste quella certa figura, l’unica, la meravigliosa, la sola che potrà darci la felicità. Esistono soltanto delle persone, e in ognuna ci sono scorie e raggi di luce, tutto…” (Sandor Marai; da “La donna giusta”; Adelphi edizioni 2017; p. 125)

© Giovanni Lamagna

Morte fisica e morte spirituale.

Si muore spiritualmente ben prima di morire fisicamente, se non ci si trascende, se cioè non si va oltre quello che già si è al momento della nascita.

Se si rimane statici, fermi, se non ci si evolve spiritualmente.

© Giovanni Lamagna

Leggi astronomiche e leggi morali.

La famosissima affermazione di Kant – contenuta nella Conclusione di una delle sue opere maggiori “Critica della ragion pratica” – “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale dentro di me.” ha, a mio avviso, un profondissimo valore spirituale e mi verrebbe di dire addirittura mistico, ancora più che filosofico in senso stretto.

Il grande pensatore di Königsberg è preso non solo da un profondo sentimento estatico (perciò oso definirlo mistico), ma coglie con una sublime intuizione il profondo nesso che intercorre tra l’armonia che regna nel cielo stellato e che obbedisce a misteriose ma ferree leggi astronomiche e l’armonia che regna (o potrebbe regnare) dentro ogni essere umano, quando egli si adegua (o se egli si adeguasse, come fanno appunto gli astri nel cielo, su un piano del tutto meccanico e materiale) alle leggi che regolano (o, meglio, dovrebbero regolare) i suoi comportamenti.

La legge morale – sembra dire Kant – genera (o, meglio, può generare) in noi esseri umani la stessa armonia che le leggi astronomiche generano tra gli astri del cielo.

Con un’unica differenza: che gli astri del cielo non possono sottrarsi alle leggi che ne regolano la vita e i movimenti: queste leggi sono loro imposte; gli uomini, invece, possono farlo, disobbedendo alle leggi morali, perché sono dotati di libertà.

Le conseguenze, però, sono similari: se, per pura ipotesi, gli astri del cielo non obbedissero alle leggi a cui sono sottoposti, si verrebbe a creare nell’Universo il caos più totale.

Gli astri in molti casi si scontrerebbero tra di loro e si distruggerebbero reciprocamente.

La stessa cosa avviene metaforicamente, ma a volte anche materialmente, quando gli uomini non si adeguano alle leggi morali.

In primo luogo si autodistruggono come singoli individui; la loro psiche va a pezzi, ne esce dilaniata, divisa, scissa.

Qui potremmo dire che ogni nevrosi presuppone (in qualche modo) una colpa morale (magari ereditata) e ogni colpa morale genera una nevrosi.

In secondo luogo si scontrano e spesso si distruggono gli uni con gli altri; il mondo diventa una sorta di giungla, nella quale “homo homini lupus”.

Il contrario, insomma, dell’armonia che Kant ammirava e venerava estasiato nel cielo stellato sopra di sé e nel profondo dell’anima dentro di sé.

© Giovanni Lamagna

Maternità e femminilità.

Leggo da Massimo Recalcati (“Le mani della madre”; Feltrinelli 2015; p. 52-53):

Per ogni bambino è fondamentale far esperienza tanto della presenza della madre quanto della sua assenza.

Senza sperimentare l’alternanza dell’assenza e della presenza della madre, la presenza può acquisire tratti persecutori, diventando soffocante, mentre l’assenza può suscitare vissuti depressivi e abbandonici…

… è necessario che si possa fare il lutto della madre simbolizzando la sua assenza.

Per Melanie Klein è questa la condizione a fondamento della creatività e della sublimazione; solo se si apre il vuoto, solo se si sperimenta e si simbolizza la perdita dell’oggetto – l’assenza della madre – diventa possibile il gesto creativo.”

E mi chiedo: quante madri – dopo aver vissuto l’esperienza della maternità – sono capaci di recuperare pienamente il loro ruolo di donna, anzi la dico tutta, utilizzando un termine ancora più forte e ricco di significato in questo contesto: il loro ruolo di femmina?

In modo da alternare l’assenza e la presenza della loro figura nel rapporto coi figli.

Quante donne, in altre parole, hanno risolto il loro attaccamento alla figura materna, avendo superato l’angoscia legata al fantasma dell’abbandono da parte della loro madre?

E sanno (o, meglio, sono consapevoli) che, quindi, l’assenza momentanea non è sinonimo di abbandono di un figlio; e che, pertanto, non causerà nessuna angoscia particolarmente traumatica nel figlio, dal quale ci si separa per un qualche tempo.

Quante madri, in altre parole, non hanno mai superato l’angoscia dell’abbandono provato nella separazione – anche momentanea, dovuta alle inevitabili, molteplici incombenze della vita – dalle loro madri e la trasferiscono poi – pari, pari – nel rapporto coi loro figli, cercando il più possibile – in una sorta di delirio di onnipotenza – di evitargliela?

Ho il sospetto che, ancora oggi, ben poche donne riescano a risolvere questo legame originario, quasi ombelicale, anche se oramai solo simbolico, con le loro madri.

E ciò è causa di seri problemi nelle loro dinamiche familiari.

In quelle coi figli, innanzitutto, che – come dice molto lucidamente Massimo Recalcati – vivranno la presenza materna come indispensabile ma anche come soffocante; incapace quindi di promuovere in loro l’autonomia e la sublimazione del bisogno di attaccamento, che sono premessa di ogni gesto creativo.

E poi (cosa non meno grave) – aggiungo io – per il legame coniugale che lega queste donne al loro compagno di vita.

Legame che, non a caso, va spesso in crisi, perché relegato ad un ruolo secondario e subordinato, quasi fosse scontato e si mantenesse in vita da solo, senza bisogno di “alimento” (fisico e spirituale) dopo la nascita di un figlio; a maggior ragione dopo la nascita di più figli.

© Giovanni Lamagna

Sul messaggio di Cristo.

Il messaggio di Cristo – che arriva a comandarci l’amore per il prossimo e a consigliarci, addirittura, di porgere l’altra guancia a chi ci ha dato uno schiaffo – è per me di una forza straordinaria, anzi sconvolgente.

Mi è chiaro, del tutto evidente, perché sia persino scandaloso per il mondo, per il modo di pensare comune: quello del 99% delle persone.

Perché ci chiede di andare contro l’istinto e, quindi, in un certo senso, contro la nostra natura primigenia, che è quella animale.

Non sorprende, pertanto, che in alcuni casi (anzi, diciamo pure le cose fino in fondo: nella maggior parte dei casi), il comandamento di Cristo provochi un sentimento istintivo di opposizione, di rifiuto, anzi di rivolta.

Cristo ci chiede di andare, se non contro, di certo oltre la nostra natura originaria; ci chiede di diventare altro; ci chiede quasi di inventare un’altra natura.

Altra da quella del “homo homini lupus”, a cui Hobbes e – in fondo, in fondo – lo stesso Machiavelli pensavano si riducesse e fosse condannata la natura umana.

Ci chiede, quindi, di operare una vera e propria rivoluzione; interiore prima che esteriore, spirituale prima che sociale e politica.

Una rivoluzione interiore e spirituale senza la quale anche quelle sociali e politiche avrebbero/hanno ben poco solide fondamenta.

© Giovanni Lamagna

Occidente e Oriente: confronto utile, anzi necessario.

Il confronto tra Occidente e Oriente è affascinante; perché questi due mondi sembrano essere andati, nel corso della Storia, in due direzioni contrarie, perfino opposte; mentre oggi, grazie alla globalizzazione, sembrano finalmente incontrarsi.

Il primo ha privilegiato l’azione (anzi un attivismo esagerato, addirittura esasperato), il progresso scientifico e tecnologico, la rincorsa al benessere materiale, che è sfociata negli ultimi decenni nel consumo molte volte fine a sé stesso, il consumismo.

Il secondo ha privilegiato, invece, la contemplazione (fino a sfiorare l’inazione), l’adeguamento ai ritmi lenti della natura, la messa in secondo piano, nelle gerarchie valoriali, del progresso materiale rispetto a quello spirituale.

Nessuno dei due, a mio avviso, può (e dovrebbe) vantare superiorità culturale rispetto all’altro.

Perché ciascuno di essi ha sviluppato, anche se in maniera forse troppo unilaterale, aspetti fondamentali dell’umano.

Semmai essi avrebbero bisogno (come da un po’ di decenni, in verità, sta avvenendo) di incontrarsi e integrarsi.

Prendendo ciascuno i pregi dell’altro e superando i propri limiti e le proprie unilateralità.

© Giovanni Lamagna