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Morale sessuale.

La morale sessuale della maggior parte delle persone è figlia della pigrizia, del conformismo, delle convenzioni, del quieto vivere, delle paure e dei tabù, della povertà di fantasia e della scarsa immaginazione.

È, insomma, a mio avviso, figlia della loro miseria emotiva, sentimentale, intellettuale e spirituale in senso lato.

Altro che virtù: la virtù c’entra ben poco!

Se fosse figlia della virtù, sarebbe accompagnata dalla gioia di vivere e, quindi, dall’allegria, dall’entusiasmo, dalla vitalità, dalla pace interiore ed esteriore.

E, invece, io vedo ben poche di queste “qualità” in giro tra le persone con le quali vengo in contatto, in maniera più o meno intima e profonda.

© Giovanni Lamagna

Capriccio e desiderio (2)

La realizzazione di un desiderio produce integrazione tra le varie parti di sé.

E, quindi, un benessere e una soddisfazione pieni, duraturi.

La realizzazione di un capriccio provoca, invece, dissipazione interiore.

E, quindi, dopo un breve appagamento, malessere e insoddisfazione.

È questa la cartina di tornasole per distinguere un desiderio da un capriccio.

Gli alberi si riconoscono dai frutti che producono (Luca 6, 44).

© Giovanni Lamagna

Sul messaggio di Cristo.

Il messaggio di Cristo – che arriva a comandarci l’amore per il prossimo e a consigliarci, addirittura, di porgere l’altra guancia a chi ci ha dato uno schiaffo – è per me di una forza straordinaria, anzi sconvolgente.

Mi è chiaro, del tutto evidente, perché sia persino scandaloso per il mondo, per il modo di pensare comune: quello del 99% delle persone.

Perché ci chiede di andare contro l’istinto e, quindi, in un certo senso, contro la nostra natura primigenia, che è quella animale.

Non sorprende, pertanto, che in alcuni casi (anzi, diciamo pure le cose fino in fondo: nella maggior parte dei casi), il comandamento di Cristo provochi un sentimento istintivo di opposizione, di rifiuto, anzi di rivolta.

Cristo ci chiede di andare, se non contro, di certo oltre la nostra natura originaria; ci chiede di diventare altro; ci chiede quasi di inventare un’altra natura.

Altra da quella del “homo homini lupus”, a cui Hobbes e – in fondo, in fondo – lo stesso Machiavelli pensavano si riducesse e fosse condannata la natura umana.

Ci chiede, quindi, di operare una vera e propria rivoluzione; interiore prima che esteriore, spirituale prima che sociale e politica.

Una rivoluzione interiore e spirituale senza la quale anche quelle sociali e politiche avrebbero/hanno ben poco solide fondamenta.

© Giovanni Lamagna

Apparire.

Noi abbiamo il dovere non di apparire belli e piacenti agli occhi degli altri (se non lo siamo, non possiamo neanche apparirlo), ma di mostrarci quantomeno al meglio di noi stessi, delle nostre potenzialità, sia fisiche che spirituali.

Se vogliamo davvero loro bene.

L’occhio (sia quello fisico che quello spirituale) vuole, infatti, la sua parte.

Quindi lo dobbiamo fare non (solo) per narcisismo.

Che poi – entro certi limiti – è del tutto lecito; infatti, anche il nostro occhio (sia interiore che esteriore) vuole la sua parte.

Ma (anche e, forse, soprattutto) per altruismo.

Se vogliamo fare stare bene gli altri, quando stanno con noi.

© Giovanni Lamagna

Ancora sull’erotismo.

L’erotismo non è un abito che si indossa una volta ogni tanto, in occasioni speciali.

Come si fa con certi abiti: quelli della domenica, dei giorni di festa o di Carnevale.

L’erotismo è un abito mentale, interiore prima che esteriore.

Si indossa, quindi, sempre.

Anzi, più che un abito, è come una seconda pelle.

© Giovanni Lamagna

Lasciarsi andare ad un moto inerziale o assumere la guida consapevole della propria esistenza?

Molte persone ritengono che, ponendosi nei confronti della vita con un atteggiamento ultra-rilassato, in altre parole lasciandosi trascinare semplicemente dalla corrente, abbandonandosi alle onde, senza dare alle proprie azioni e scelte una direzione consapevole, senza farsi troppo domande e porsi troppi interrogativi, vivranno meglio, faticheranno e soffriranno di meno.

Nulla – a mio avviso – di più sbagliato, di più illusorio!

In questo modo, infatti, queste persone disperderanno una quantità di energie senza un obiettivo preciso e saranno preda degli umori più diversi e altalenanti: a volte saranno prese dall’entusiasmo (in genere, effimero e breve) altre volte dalla depressione e dallo sconforto (in genere, più frequenti e prolungati).

Tale atteggiamento nei confronti della vita è molto simile a quello di chi, dovendo fare un viaggio, non si preoccupa minimamente di farsi un programma prima di partire, di stabilire un itinerario almeno di massima, con le tappe dei luoghi da visitare e i tempi, almeno orientativi, da dedicare a ciascuna di esse.

Certo costui si risparmierà la fatica e forse anche la noia di questa ricerca e programmazione iniziali; ma poi, quando sarà giunto sul luogo meta del viaggio, dovrà perdere del tempo prezioso per orientarsi e forse questo gli impedirà di visitare tutti i luoghi che avrebbe potuto conoscere, se tale ricerca l’avesse fatta prima di partire.

Indubbiamente chi cerca di assumere il controllo, la guida della propria barca interiore, chi cercherà di darle una direzione, una rotta, pur in mezzo alle onde in rivolta e alle tempeste, chi in altre parole cercherà di connettersi con il proprio Sé profondo, all’inizio e forse anche per un periodo non brevissimo, faticherà parecchio, dovrà sottoporsi ad un esercizio che richiederà sforzo e costanza.

Ma una volta che la sua capacità di guida si sarà consolidata, che la disciplina che si sarà imposta sarà diventata in lui un’azione quasi automatica e irriflessa, egli faticherà molto di meno nel cammino della vita e vi troverà molta più soddisfazione di chi, per pigrizia, indolenza o iniziale paura, si sarà lasciato andare ad un moto inerziale e quasi senza alcun controllo e consapevolezza.

È vero, in questi due tipi di approccio all’esistenza molto c’entrano il temperamento con cui si nasce e l’educazione che si riceve da bambini.

Ma viene un tempo, più o meno per tutti, in cui si è chiamati a decidere in prima persona; anche perché si fanno esperienze e soprattutto si incontrano persone che ci invitano, stimolano al cambiamento.

Per cui anche chi nella prima fase della propria vita ha avuto un atteggiamento del primo tipo potrà decidere di dare una svolta alla propria esistenza ed assumere un atteggiamento del secondo tipo.

Ma è un dato di realtà che pochi ci riescono; qui vale l’antica parola evangelica “molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti” (Vangelo di Matteo 22, 14).

© Giovanni Lamagna

Chiamata.

Corrispondere ad un amore in fondo significa rispondere ad una chiamata.

Esteriore, perché ci viene da qualcuno che sta fuori di noi.

Ma anche interiore, perché la stessa chiamata ci viene da dentro: è la chiamata ad assecondare il nostro destino, il nostro daimon.

E però non sempre e non tutti siamo in grado di rispondere a questa chiamata.

Vale anche qui la famosa (e un po’ misteriosa) frase pronunciata da Gesù: “Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti”.

© Giovanni Lamagna

Sulla fraternità come concetto ed obiettivo della politica.

La fraternità – come obiettivo politico (e non solo spiritualistico/religioso) – è qualcosa in più della uguaglianza; è un surplus rispetto all’uguaglianza.

Per garantire l’uguaglianza bastano, infatti, le leggi, anzi servono innanzitutto le leggi.

L’uguaglianza è, dunque, per sua natura un principio giuridico, legato alla cittadinanza, alla polis.

Non a caso nelle aule di tribunale campeggia la scritta “Tutti i cittadini sono uguali di fronte alla Legge”.

Nelle varie società poi questo valore è nei fatti più o meno realizzato.

In alcune è del tutto negato, in altre è riconosciuto solo formalmente, ma non nella sostanza, in altre ancora l’uguaglianza sostanziale, non solo formale, ha avuto qualche – sia pur parziale, piccolissimo –  riconoscimento.

La fraternità, invece, di certo, non è un principio giuridico: non può essere, infatti, imposta con le leggi.

La fraternità è piuttosto un sentire, che il singolo individuo o avverte dentro di sé o non lo avverte.

Se non lo si avverte, non si riesce a praticarla.

E si avverte, se si è stati educati o se ci si educa ad esso.

Il sentirsi fratelli di un altro (non consanguineo) è frutto pertanto di una consapevolezza che non può essere imposta da una norma giuridica.

La consapevolezza che l’altro è un mio simile, che – al di là delle ovvie e a volte notevoli differenze individuali – siamo fatti in fondo della stessa sostanza, che siamo figli della stessa specie, che originiamo dallo stesso ceppo.

Questa consapevolezza e solo essa (nessuna legge vi si può sostituire) genera il sentimento e, di conseguenza, l’agire fraterno.

La fraternità, dunque, nasce come sentimento, come consapevolezza, ovverossia come percezione anche emotiva e non solo intellettuale, che tutti gli uomini (senza distinzioni di sesso, razza, etnia, cultura, religione, condizione economica…) appartengono alla stessa famiglia: quella umana.

E, però, per diventare reale, per non restare solo un sentimento romantico, del tutto retorico, ha bisogno di azioni, scelte, comportamenti conseguenti.

Ha bisogno innanzitutto di educazione, formazione, culturale, filosofica, spirituale, interiore, prima che politica ed esteriore.

E poi ha bisogno anche di fatti esteriori; che, ad esempio, cambino i rapporti di produzione; che la proprietà dei mezzi di produzione non stia nelle mani di pochi, dei capitalisti (com’è oggi), ma che venga diffusa, sia partecipata tra molti; anzi tra tutti i cittadini di una comunità, nessuno escluso.

Che i luoghi della produzione si trasformino in luoghi della cooperazione, dove i ruoli non siano più rigidamente distinti tra chi comanda/dirige e chi esegue/lavora, ma tutti decidano e lavorino insieme.

Infine e per chiudere questa breve e semplice riflessione, occorre dire che c’è fraternità e fraternità.

C’è una fraternità che affratella alcuni ma contro altri: è questa ad esempio la fraternità dei clan, quella che ha caratterizzato soprattutto gli inizi della storia dell’Umanità; o la fraternità che unisce i membri di una stessa classe sociale (la fraternità di cui si è incominciato a parlare dal XIX secolo in poi).

E c’è poi una fraternità che potremmo definire universale, quella che affratella gli uomini in quanto umani; ed è questa la vera fraternità, la fraternità alla quale deve aspirare una vera rivoluzione; una rivoluzione che non sia soltanto delle strutture esteriori della società, ma anche, anzi in primis, delle strutture interiori degli individui.

La fraternità che è capace di amare persino il nemico, perché si fonda sul puro riconoscimento dell’umanità dell’altro, a prescindere dai suoi comportamenti.

Non si fa in altre parole corrompere e magari omologare dall’ostilità dell’altro e manco dalla sua eventuale bestialità.

Per cui non risponde all’odio e alla violenza con uguale odio e uguale violenza (“occhio per occhio, dente per dente”; “homo homini lupus”), ma interrompe il circolo vizioso dell’odio e della violenza con l’amore e la nonviolenza, in nome di un’Umanità che non vuole tradire sé stessa, manco di fronte all’odio e alla violenza dell’altro.

© Giovanni Lamagna

Sulla elaborazione di un lutto.

Quando si vive un lutto (cioè il dolore profondo che ci colpisce per la perdita di qualcuno o qualcosa a cui eravamo legati da amore) il primo passo per elaborarlo (e, quindi, per uscirne, per superarlo) non è quello (come molti pensano) di rimuovere, dimenticare, allontanare il pensiero, l’immagine dell’oggetto amato che si è perduto.

Ma piuttosto il contrario: il primo passo dovrebbe essere quello di renderlo ancora più presente nella nostra memoria e nella nostra coscienza, fino a farlo diventare così parte di noi, da non sentire quasi più il bisogno della sua presenza fisica e, quindi, attutire, addolcire il dolore che la perdita di questa presenza causava.

Forse è questo il processo psichico a cui alludeva Gesù, quando, poco prima di esser preso prigioniero e sottoposto al martirio del Golgota (fatti che Gesù sapeva bene sarebbero avvenuti di lì a poco), disse ai suoi discepoli: “Ma io vi assicuro che per voi è meglio se io me ne vado” (Vangelo di Giovanni; 16, 7).

Evidentemente il suo “andare via”, quindi la perdita della sua presenza fisica, il lutto che questo avrebbe causato nei suoi discepoli, erano condizioni imprescindibili perché la sua presenza spirituale si radicasse ancora di più nei loro cuori; (“Perché, se non me ne vado, non verrà da voi lo Spirito che vi difende”; ibidem).

La sua morte, il suo allontanamento fisico, erano pertanto necessari, affinché potesse avvenire nei discepoli quello che di lì a poco Paolo di Tarso dirà essere avvenuto in lui: “Non sono più io che vivo: è Cristo che vive in me.” (Lettera ai Galati; 2, 20).

A mio avviso, secondo la mia esperienza e per concludere questa breve riflessione, chi non vive il lutto in questo modo, cioè chi lo supera in modo eccessivamente frettoloso o addirittura lo rimuove del tutto, è destinato a rimanere con una ferita sempre aperta, che non si rimarginerà mai.

Nonostante egli voglia convincersi (o si sia magari convinto) di aver completamente dimenticato, rimosso dalla propria coscienza, l’oggetto d’amore perduto e, quindi, superato del tutto e definitivamente il dolore della sua perdita.

Questa speranza/convinzione si rivela ancora più falsa ed illusoria, quando la perdita avviene in seguito a un “tradimento” da parte della persona che egli/ella amava, a cui era profondamente legato/a.

In questo caso l’orgoglio ferito blocca un’adeguata interiorizzazione dell’oggetto perduto, addirittura provoca il suo rifiuto, la sua espulsione, il suo rigetto rancoroso dal proprio spazio interiore ed affettivo.

E ciò impedisce, per conseguenza, una soddisfacente elaborazione della perdita vissuta.

© Giovanni Lamagna

Erotismo diffuso e Tantra.

Teoricamente tutti gli atti, i momenti, della nostra vita possono essere vissuti come atti e momenti erotici.

Basta volerlo, desiderarlo e proporselo.

Inteso in questo senso l’erotismo può diventare una vera e propria forma di ascesi e di spiritualità, persino di mistica.

Qui non mi riferisco ovviamente al modo volgare e rozzo con cui vivono il sesso gli erotomani, i quali non sono altro che dei ginnasti del sesso.

Anzi!

Mi riferisco, al contrario, a coloro che vivono il sesso come una vera e propria esperienza di ricerca, profondamente interiore e allo stesso tempo intensamente relazionale, da vivere prima e innanzitutto dentro di sé e contemporaneamente con almeno un partner, che ne condivida però finalità, scopi, tempi e modalità.

Da questo punto di vista il Tantra – tra le esperienze che ci ha consegnato la storia dell’umanità – è quella che meglio e più compiutamente esprime questa mia concezione/visione dell’erotismo e della sessualità.

Perché è un’esperienza profondamente corporea, sensuale e, perfino, edonistica.

Ma, allo stesso tempo, profondamente spirituale, ascetica e, persino, mistica.

© Giovanni Lamagna