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Perché sussista una vera democrazia…
L’uguaglianza legale (“tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge”) e quella civile (“tutti i cittadini godono di uguali diritti”) sono fondamentali, ma non bastano perché sussista una vera democrazia, cioè il “governo del popolo”.
In quanto i diritti legali e quelli civili garantiscono una uguaglianza solo formale.
Affinché tra i cittadini regni, invece, un’uguaglianza piena, vera ed effettiva, occorre che lo Stato garantisca anche la loro uguaglianza economica sostanziale.
Definendo un tetto massimo ai redditi più alti ed uno minimo a quelli più bassi.
Ostacolando e limitando al massimo gli oligopoli e favorendo il più possibile la distribuzione delle proprietà.
© Giovanni Lamagna
Sull’idea di comunità.
Nel numero 6/2018 di MicroMega Paolo Flores d’Arcais, in un suo articolo, sostiene: “La logica della comunità… è la logica del ghetto, dell’apartheid, della separazione, dell’identità costruita sulla esclusione dell’altro, della convivenza fittizia fondata sull’assemblaggio di gruppi chiusi, autoritari e dogmatici.
Una logica che annienta proprio quel ciascuno che tutti noi siamo, esistenze singolari e irripetibili intorno a un nucleo di opinione irriducibilmente libera. E in nome di cui nessuna collettività, nessuna ipostasi, può parlare, senza ridurre l’individuo a mera replica. Per cui, parafrasando Marx, andrà sempre ricordato che una comunità può essere libera senza che liberi siano gli individui che la compongono”.
Ora, a mio avviso, tali affermazioni sono senz’altro vere e condivisibili, se riferite ad alcune tesi politiche attuali, quali ad esempio quelle sovraniste oggi tanto in voga, in primis quelle portate avanti dalla Lega (ex Nord) di Matteo Salvini.
Non lo sono, se riferite alla nozione stessa di “comunità”, quale categoria filosofica, sociologica e finanche religiosa, se per religione intendiamo una visione del mondo, più e prima che la sua incarnazione storica in una Chiesa.
Vorrei provare, quindi, a confrontarmi con le affermazioni di Flores, contestandole e smentendole in buona sostanza, almeno in alcuni loro passaggi.
Partendo da una domanda: la logica della comunità è davvero solo “la logica del ghetto, dell’apartheid, della separazione, dell’identità costruita sulla esclusione dell’altro, della convivenza fittizia fondata sull’assemblaggio di gruppi chiusi e autoritari e dogmatici”?
La mia risposta è: dipende da che cosa intendiamo, quando pensiamo al concetto di “comunità”. Perché ci sono comunità e comunità: non tutte le comunità concretamente esistenti (o esistite) sono, infatti, da far rientrare nella stessa categoria filosofica e perciò astratta di “comunità”.
Se per comunità intendiamo un gruppo chiuso, che si fonda sulla condivisione di credenze inossidabili, ritenute verità rivelate e perciò dogmatiche, dunque assolute, eterne e indiscutibili, sulla presunzione di possedere la Verità da trasmettere o perfino imporre a color che ne sono ritenuti privi, sulla fede e obbedienza ad un’autorità a cui si attribuiscono poteri sacri o addirittura derivati da Dio stesso, sulla emarginazione dal gruppo di colui o coloro che si permettano anche solo minimamente di avanzare dubbi, riserve, critiche, perplessità riguardo sia ai valori fondanti del gruppo che alle “autorità” che quei valori sono chiamati a custodire, sulla appartenenza alla stessa etnia o, perfino, nei casi estremi sui soli legami di sangue, se per comunità intendiamo, quindi, un gruppo che vive sulla difensiva o, in alcuni casi, sulla competizione e, perfino, sulla guerra con i gruppi “stranieri”, allora la “comunità” effettivamente è quello che dice Flores d’Arcais, cioè un ghetto.
Ma la comunità è solo questo? O, meglio, dato per scontato che alcune (molte) comunità sono quello che sostiene Flores, nel concetto di comunità rientra solo questo? Per comunità dobbiamo intendere solo lo scenario che ne ha descritto Flores, anche se esso è effettivamente e indubbiamente un’esatta e precisa descrizione di alcune (molte) comunità?
Io dico di no. Io dico che ci può essere, anzi c’è, un’altra idea di comunità. E che questa (in parte almeno) è stata non solo teorizzata ma anche praticata (e tuttora viene praticata) in alcune realtà. Realtà magari piccole, minoritarie, ma che non per questo vanno ignorate o escluse dal vocabolario che definisce il concetto di “comunità”.
Per “comunità” noi possiamo intendere anche altro. Io personalmente così la intendo. La comunità è innanzitutto un luogo, un gruppo che mette insieme le persone non certo in base alle etnie e manco in base ai legami familiari, ma sulla base di una scelta, di una decisione/adesione libere e consapevoli (quindi senza nessuna forma di coartazione, né fisica né psicologica, né plateale né subliminale), del singolo individuo. Altro che individuo, quindi, come “mera replica” del gruppo!
Per comunità, inoltre, possiamo intendere un gruppo di persone che si mettono insieme sulla base di alcuni interessi, opinioni, convinzioni, intenzioni, valori condivisi.
Parliamoci chiaro: nessun gruppo nasce, potrebbe nascere, senza un denominatore comune, costituito appunto da interessi, opinioni, convinzioni, intenzioni, valori condivisi.
Ma, rispetto alla logica della comunità-ghetto, questi interessi, opinioni, convinzioni… possono anche non avere nulla di dogmatico e di rigido. Bensì aperti al confronto con interessi, opinioni, convinzioni… diversi di altri gruppi.
La comunità che intendo io è una comunità fondata sul dialogo con le diversità, sulla collaborazione e sulla cooperazione e non sulla competizione e sulla ostilità della comunità-ghetto.
E’ una comunità che ha sposato convintamente il motto (erroneamente attribuito a Voltaire, in realtà di una sua amica-discepola, la scrittrice inglese Evelyn Beatrice Hall): “Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire”.
E’, insomma, una comunità aperta al pluralismo delle idee e niente affatto integralista.
E’ un gruppo che, come tutti i gruppi, ha una sua leadership, ma essa è di natura democratica e per nulla autoritaria. Il leader è tale per le sue qualità umane, cioè caratteriali, relazionali, intellettuali, spirituali. Viene riconosciuto quindi come tale dal gruppo e non investito dall’alto e subìto dal gruppo.
Tanto è vero che, nel momento in cui egli non dovesse più esprimere il sentire e la volontà della comunità, questa prevede (formalmente o informalmente) meccanismi piuttosto semplici, fluidi e rapidi per la sua sostituzione con altra persona ritenuta più adeguata alla funzione.
In questo tipo di comunità il leader è un “primus inter pares” e la struttura psicodinamica del gruppo è circolare e non verticale, come invece lo è nelle comunità-ghetto, di cui parlava Flores.
Infine, la comunità, per come la intendo io, è tenuta insieme dal sentimento caldo e affettuoso dell’amicizia fraterna e non dalla condivisione di una fede fanatica, che lascia in realtà estranei gli uni agli altri i membri della comunità-ghetto.
La comunità di cui parlo io è un gruppo, nel quale si pratica concretamente, non solo a parole, ed è quindi realizzato il motto del 1789: “Libertà, uguaglianza e fraternità”.
E’ un gruppo nel quale l’individuo lungi dall’essere sacrificato e mortificato (come avviene nelle comunità-ghetto dei paesi sottosviluppati, ma anche nelle società-massa dei paesi cosiddetti ipersviluppati) è esaltato al massimo, è considerato una persona umana e non un soggetto anonimo.
E’ un gruppo allora che realizza pienamente, almeno nel micro, gli ideali che la rivoluzione francese avrebbe voluto realizzare nel macro e che in realtà non furono mai portati a compimento, perché realizzati solo in minima parte; certamente molto poco (o per niente) per quanto riguarda la dimensione della fraternità.
E’, quindi, in qualche modo, la prefigurazione micro di una società “altra” rispetto a quella macro nella quale pure è inserita.
Una realtà micro, fondata sui principi-ideali della libertà individuale, della laicità, del pluralismo, della tolleranza, della democrazia, dell’uguaglianza, della solidarietà umana, della fraternità, che aspira (perché no?) a diventare macro.
Ma senza coltivare alcun fanatismo, senza teorizzare alcuna prevaricazione e, soprattutto, senza praticare nessuna forma di violenza, ma utilizzando esclusivamente gli strumenti e le vie della democrazia formale e sostanziale.
© Giovanni Lamagna
Sul comunismo.
Non posso dirmi comunista, perché amo troppo la libertà.
Chi si dice “comunista”, infatti, spesso sacrifica la libertà all’uguaglianza.
Definisce le libertà borghesi libertà solo formali.
Saranno pure solo formali, ma a me queste libertà piacciono e non ci voglio rinunciare!
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Non posso non dirmi comunista, perché amo troppo la giustizia e l’uguaglianza sociale.
Le libertà formali non mi bastano.
Ho bisogno (anche) della libertà sostanziale.
Che c’è solo quando i bisogni fondamentali (di tutti e di ciascuno) sono soddisfatti.
Quando c’è piena uguaglianza tra gli uomini.
Giovanni Lamagna
Il compito del filosofo.
7 gennaio 2016
Il compito del filosofo.
Il filosofo (almeno per me) non è soltanto un uomo che pensa, ma anche un uomo che agisce in conformità a ciò che pensa.
So benissimo (e prevengo perciò l’obiezione scontata) che ci sono stati in passato, ci sono oggi e ci saranno ancora in futuro filosofi, che pur entrando a far parte a pieno titolo della storia di questa disciplina, non solo non sono stati, non sono e non saranno coerenti con le loro teorie filosofiche, ma non lo hanno ritenuto, non lo ritengono e non lo riterranno neppure necessario né tantomeno indispensabile.
Il punto che voglio affermare, però, qui con molta forza (per quello che può valere) è questo: io prediligo e considero miei maestri solo i filosofi che rientrano nella prima categoria. Gli altri li ho pure studiati al liceo e all’Università, ma di essi mi è rimasta ben poca traccia. E soprattutto di essi non mi interessa continuare lo studio, la meditazione.
Il filosofo che prediligo è, dunque, un uomo che trasforma la sua teoria in prassi di vita, che converte la sua prassi di vita sul modello della sua teoria, in un intreccio indissolubile e continuo.
Da questo punto di vista mi riconosco molto nella famosa frase di Marx “I filosofi hanno interpretato il mondo in vari modi, ma il punto ora è di cambiarlo”.
Che io mi permetterei di parafrasare (e integrare) in questo modo: “Compito dei filosofi è indubbiamente (e in primo luogo) quello di (provare a) capire il mondo (a cominciare da se stessi), ma anche quello di (provare a) trasformare il mondo (a cominciare da se stessi)”.
Il compito del filosofo, dunque, non è esclusivamente di natura teoretica e dottrinaria. Ma è anche un compito di natura morale e pratica: convertire se stesso. E’, infine, un compito di natura politica: contribuire, con gli strumenti di cui egli è dotato, alla trasformazione del mondo; per quanto mi riguarda, in senso progressivo, cioè nel senso dell’affermazione dei valori della libertà, della uguaglianza e della fraternità.
Giovanni Lamagna
In ricordo di Pier Paolo Pasolini
3 novembre 2015
In ricordo di Pier Paolo Pasolini.
Ieri ricorreva il 40° anniversario della morte violenta e prematura di Pier Paolo Pasolini.
La presenza intellettuale e culturale, ma direi anche e forse ancora di più umana, di questa persona straordinaria è ancora viva e forte, nonostante il passare del tempo.
Sono stati numerosi quindi gli articoli dei giornali, i servizi radiotelevisivi che lo hanno ricordato, com’era giusto che fosse.
Ovviamente, come già avvenuto in altre circostanze simili, molti di questi ricordi si sono soffermati sulla personalità estremamente articolata dell’uomo, anzi molti, se non i più, hanno fatto preciso ed esplicito riferimento alle sue numerose contraddizioni.
Prendo ad esempio (ma potrebbe valere per molti altri) l’articolo di Massimo Recalcati comparso su “la Repubblica” il 28 ottobre u. s., che ha (non a caso) come sottotitolo “Le contraddizioni e le pulsioni vissute nella propria carne”.
Vorrei dire anche io qualcosa su questo aspetto della personalità di Pasolini, che spesso, se non sempre, viene messo in evidenza quando si parla di quest’uomo e di questo grande artista ed intellettuale.
Comincio col dire allora che, di solito, quando si parla di personalità contraddittoria, ci si riferisce ad aspetti diciamo pure nevrotici della persona, a conflitti irrisolti, causa molto spesso di sofferenze e angosce oltre che di creatività e poesia.
In altre parole ci si riferisce a un minus della persona, ad un che di non realizzato, di irrisolto e non ad un majus, cioè a qualcosa che indica la vitalità e i pregi della persona.
Io, invece, vorrei evidenziare che non sempre le contraddizioni di una persona ne indicano un limite o una nevrosi, ma che, anzi, alcune volte ne evidenziano al contrario proprio la ricchezza e la poliedricità speciali, in certi casi solo umana ed emotiva, in altri casi anche intellettuale, culturale, artistica.
C’è da chiedersi, dunque: quando è che le contraddizioni di una persona sono solo una classica nevrosi e, quindi, causa prevalente di sofferenza, sintomo, cioè conflitto irrisolto e negativo, e non certo promotrici di opere creative?
La mia risposta a questa domanda è la seguente: quando le contraddizioni si riferiscono a polarità oggettivamente incomponibili e sono causa quindi di un conflitto non solo non risolto nella realtà effettuale ma irrisolvibile anche in quella potenziale.
A cosa mi riferisco? Mi riferisco a vere e proprie forme di patologia. Descritte ampiamente e con ricchezza di sintomi e di manifestazioni nei manuali e nei libri di psicologia, non necessariamente di psichiatria.
Quando, ad esempio, una persona persegue (apparentemente) il principio del piacere ma lo vuole realizzare attraverso passaggi e soluzioni che tutto sono fuorché di piacere, questa contraddizione esprime un conflitto incomponibile e perciò chiaramente nevrotico, se non addirittura psicotico.
Quando, per fare un altro esempio, una persona vorrebbe essere autonoma e indipendente, crescere e diventare adulta, ma poi nella realtà si fa sempre “schiava” di qualcuno/a, è sempre alla ricerca di rifugio e conforto, come se volesse restare eternamente bambina, ci troviamo di fronte ad un’altra forma tipica di conflitto nevrotico e irresolubile.
Quando una persona ritiene razionalmente una legge ingiusta, ma i suoi sensi di colpa radicati e ben introiettati le impediscono di opporsi ad essa, ci troviamo di fronte a una contraddizione nevrotica, che non potrà mai essere risolta fin quando i due poli che la caratterizzano restano entrambi vivi e attivi.
Ma non tutte le contraddizioni sono di questo tipo e natura. Ci sono contraddizioni che non sono affatto nevrotiche, che non sono per niente sintomo di un conflitto insano e patologico, ma anzi esprimono appieno la ricchezza e l’articolazione delle umane possibilità e, quindi, allorché si ritrovano, più o meno numerose, in una persona ne segnalano la ricchezza emotiva, umana e, a volte, anche intellettuale, artistica, creatrice e non la patologia paralizzante di una nevrosi o di una psicosi.
Ora, quando Recalcati scrive: “Sono diverse e note le contraddizioni che attraversano la vita e l’opera di Pasolini: individualista, testimonia con coraggio l’impegno civile e collettivo dell’intellettuale; anticlericale si schiera risolutamente contro l’aborto; comunista militante entra in conflitto con il Pci; ateo, marxista, resta cristiano nello spirito; anticonformista detesta l’anticonformismo; contestatore vigoroso del “sistema” si schiera contro i giovani contestatori del ’68; antipaternalista, non si risparmia nel segnalare il rischio del tramonto del padre nel nostro tempo; sperimentatore della lingua, resta critico irriducibile di ogni avanguardismo; straordinario poeta civile, conduce pascolianamente la poesia verso i propri drammi più segreti e indicibili; pedagogo libertario, riconosce come insuperabile la figura del maestro; poeta sublime dei corpi e della loro esuberanza pulsionale, ne ha messo in scena il loro oltraggio e la loro devastazione; omosessuale e ribelle, è un conservatore dei valori della tradizione.”, a quale tipo di contraddizioni si riferisce: a quelle nevrotiche, patologiche e, quindi, distruttive della persona o a quelle naturali, creatrici, stimolanti e, quindi, produttive del talento, dell’immaginazione, dell’arte e, per certi aspetti almeno, anche della ricchezza stessa della persona?
Ho l’impressione che nell’articolo di Recalcati questo confine non sia chiaro e, forse, è anche giusto, condivisibile che sia così.
A patto, però di considerare che alcune presunte contraddizioni di P. P. Pasolini non erano affatto nevrotiche ma esprimevano anzi appieno la ricchezza e la poliedricità della sua persona, sia di uomo che di artista.
L’individualismo, cioè l’affermazione di sé come persona, la volontà di esercitare appieno e fino in fondo il proprio senso critico non si opponevano affatto, in una contraddizione stridente e incomponibile, con il suo sentirsi parte di una comunità civile e intellettuale.
Il suo anticlericalismo non era per niente contraddittorio con l’affermazione di valori ritenuti perenni, ma solo la contestazione dell’ipocrisia e della non coerenza tra valori dichiarati e pratiche realizzate (da parte della Chiesa cattolica).
Il suo comunismo diventava in certi momenti anticomunismo in nome della libertà, che per lui non poteva essere separata e scissa dal valore dell’uguaglianza.
Il suo ateismo in nome della ragione illuminista non contrastava con lo spirito cristiano i cui valori possono essere riconosciuti anche da una visione del mondo del tutto laica e areligiosa.
Il suo anticonformismo provava giustamente ripugnanza per un anticonformismo più di facciata e di moda che di sostanza, cioè per l’anticonformismo snob e borghese.
La sua contestazione del “sistema” si scontrò coi giovani del ’68, molti dei quali di quel sistema facevano pienamente parte, ne erano figli, in certi casi addirittura privilegiati.
Il suo antipaternalismo non rifiutò in maniera pregiudiziale e assoluta la figura archetipa del Padre. E perché avrebbe dovuto?
La sua pedagogia libertaria non gli impedì di riconoscere l’importanza del ruolo del maestro. E perché avrebbe dovuto impedirglielo?
L’esaltazione del corpo non gli impedì di vederne e descriverne l’effimera giovinezza e la caducità. E, anche qui, perché avrebbe dovuto?
L’omosessualità affermata e ribelle non gli fece velo nel riconoscere i valori di una certa tradizione. E perché avrebbe dovuto fargli velo?
“Ragione e passione, storia e natura, pensiero critico e pulsione non trovano mai in lui una conciliazione stabile, ma permangono in uno stadio di perenne dissidio. La sua stessa psicologia individuale appare scissa tra gentilezza e attitudine alla provocazione, altruismo e rapacità pulsionale, divismo e umiltà, mondanità e solitudine.”, afferma Recalcati. Può darsi che Recalcati abbia ragione, anzi sicuramente ha ragione. Effettivamente in Pasolini c’è la ricerca, il tentativo generosi, appassionati, in certi casi disperati di conciliare degli opposti.
Il punto che voglio affermare però qui è che le polarità a cui fa riferimento Recalcati sono tutte polarità non incomponibili tra loro, che possono dare origine a contraddizioni (e spesso danno origine a contraddizioni; in Pasolini, ad esempio, queste contraddizioni esistevano ed erano molto forti) ma non contraddizioni di per sé irresolubili, bensì contraddizioni addirittura necessarie alla vita e alla sua espressione creatrice e realizzatrice.
Potrei aggiungere che in Pasolini queste contraddizioni erano non risolte, perché in lui le polarità da cui esse si originavano erano tutte portate al limite estremo, quasi assolutizzate (come spesso avviene nelle personalità dotate di un temperamento, di una sensibilità e di un’intelligenza fuori dal comune) e quindi la loro conciliazione era oggettivamente difficile, complessa, ardua.
La maggior parte delle contraddizioni in cui si dibatteva Pasolini erano di questa natura, cioè della natura da cui nasce la creatività, e non della natura tipica delle nevrosi, da cui non può scaturire nessuna vera creatività, ma solo (semmai) paralisi e, per conseguenza, mediocrità.
Di conseguenza e in conclusione Pasolini è anche per me sicuramente una personalità contraddittoria, ricca di sfumature e di ambivalenze, ma il suo genio è nato, si è sviluppato ed affermato proprio nella tensione tra le opposte polarità da cui si originavano le sue contraddizioni.
Che, forse, come dice Recalcati, non erano conciliate, ma non erano neanche – dico io – causa di scissioni insanabili. Altrimenti non avremmo avuto il genio che tutti riconoscono in lui, ma solo una persona paralizzata e mediocre, come ce ne sono state e ce ne sono tante.
Giovanni Lamagna