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Sulla fraternità come concetto ed obiettivo della politica.

La fraternità – come obiettivo politico (e non solo spiritualistico/religioso) – è qualcosa in più della uguaglianza; è un surplus rispetto all’uguaglianza.

Per garantire l’uguaglianza bastano, infatti, le leggi, anzi servono innanzitutto le leggi.

L’uguaglianza è, dunque, per sua natura un principio giuridico, legato alla cittadinanza, alla polis.

Non a caso nelle aule di tribunale campeggia la scritta “Tutti i cittadini sono uguali di fronte alla Legge”.

Nelle varie società poi questo valore è nei fatti più o meno realizzato.

In alcune è del tutto negato, in altre è riconosciuto solo formalmente, ma non nella sostanza, in altre ancora l’uguaglianza sostanziale, non solo formale, ha avuto qualche – sia pur parziale, piccolissimo –  riconoscimento.

La fraternità, invece, di certo, non è un principio giuridico: non può essere, infatti, imposta con le leggi.

La fraternità è piuttosto un sentire, che il singolo individuo o avverte dentro di sé o non lo avverte.

Se non lo si avverte, non si riesce a praticarla.

E si avverte, se si è stati educati o se ci si educa ad esso.

Il sentirsi fratelli di un altro (non consanguineo) è frutto pertanto di una consapevolezza che non può essere imposta da una norma giuridica.

La consapevolezza che l’altro è un mio simile, che – al di là delle ovvie e a volte notevoli differenze individuali – siamo fatti in fondo della stessa sostanza, che siamo figli della stessa specie, che originiamo dallo stesso ceppo.

Questa consapevolezza e solo essa (nessuna legge vi si può sostituire) genera il sentimento e, di conseguenza, l’agire fraterno.

La fraternità, dunque, nasce come sentimento, come consapevolezza, ovverossia come percezione anche emotiva e non solo intellettuale, che tutti gli uomini (senza distinzioni di sesso, razza, etnia, cultura, religione, condizione economica…) appartengono alla stessa famiglia: quella umana.

E, però, per diventare reale, per non restare solo un sentimento romantico, del tutto retorico, ha bisogno di azioni, scelte, comportamenti conseguenti.

Ha bisogno innanzitutto di educazione, formazione, culturale, filosofica, spirituale, interiore, prima che politica ed esteriore.

E poi ha bisogno anche di fatti esteriori; che, ad esempio, cambino i rapporti di produzione; che la proprietà dei mezzi di produzione non stia nelle mani di pochi, dei capitalisti (com’è oggi), ma che venga diffusa, sia partecipata tra molti; anzi tra tutti i cittadini di una comunità, nessuno escluso.

Che i luoghi della produzione si trasformino in luoghi della cooperazione, dove i ruoli non siano più rigidamente distinti tra chi comanda/dirige e chi esegue/lavora, ma tutti decidano e lavorino insieme.

Infine e per chiudere questa breve e semplice riflessione, occorre dire che c’è fraternità e fraternità.

C’è una fraternità che affratella alcuni ma contro altri: è questa ad esempio la fraternità dei clan, quella che ha caratterizzato soprattutto gli inizi della storia dell’Umanità; o la fraternità che unisce i membri di una stessa classe sociale (la fraternità di cui si è incominciato a parlare dal XIX secolo in poi).

E c’è poi una fraternità che potremmo definire universale, quella che affratella gli uomini in quanto umani; ed è questa la vera fraternità, la fraternità alla quale deve aspirare una vera rivoluzione; una rivoluzione che non sia soltanto delle strutture esteriori della società, ma anche, anzi in primis, delle strutture interiori degli individui.

La fraternità che è capace di amare persino il nemico, perché si fonda sul puro riconoscimento dell’umanità dell’altro, a prescindere dai suoi comportamenti.

Non si fa in altre parole corrompere e magari omologare dall’ostilità dell’altro e manco dalla sua eventuale bestialità.

Per cui non risponde all’odio e alla violenza con uguale odio e uguale violenza (“occhio per occhio, dente per dente”; “homo homini lupus”), ma interrompe il circolo vizioso dell’odio e della violenza con l’amore e la nonviolenza, in nome di un’Umanità che non vuole tradire sé stessa, manco di fronte all’odio e alla violenza dell’altro.

© Giovanni Lamagna

“Desiderio di società” o desiderio di comunità?

Ad un certo punto del suo libro-intervista “La speranza oggi” (Mimesis Minima; 2019), tra pag. 61 e pag. 64, Sartre e il suo intervistatore Benny Levy parlano di “desiderio di società”.

E Sartre sostiene che bisogna definirlo bene.

Per lui “non è la democrazia”; tantomeno “la pseudo-democrazia della Quinta Repubblica” francese.

“Non è neanche il rapporto socioeconomico che Marx ha contemplato.”.

“Si tratta di un rapporto completamente diverso degli uomini tra di loro.”.

Riflettendo su queste parole, mi viene allora di dire che il “desiderio di società” di cui parla Sartre è piuttosto un “desiderio di comunità”; e come tale andrebbe dunque definito.

In una società, infatti, anche la più socialdemocratica possibile, perfino in una società comunista, i rapporti tra gli uomini rimangono piuttosto freddi, anonimi e impersonali.

Sono rapporti improntati tutt’al più al valore dell’uguaglianza e della giustizia, non a quelli dell’amore e della fraternità.

E’ in una comunità (e solo in una vera comunità) che i rapporti tra gli uomini diventano caldi, affettuosi e personalizzati, come forse (azzardo a pensare) l’intendevano e volevano dire Sartre e il suo intervistatore nel libro citato.

© Giovanni Lamagna

Perché sussista una vera democrazia…

L’uguaglianza legale (“tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge”) e quella civile (“tutti i cittadini godono di uguali diritti”) sono fondamentali, ma non bastano perché sussista una vera democrazia, cioè il “governo del popolo”.

In quanto i diritti legali e quelli civili garantiscono una uguaglianza solo formale.

Affinché tra i cittadini regni, invece, un’uguaglianza piena, vera ed effettiva, occorre che lo Stato garantisca anche la loro uguaglianza economica sostanziale.

Definendo un tetto massimo ai redditi più alti ed uno minimo a quelli più bassi.

Ostacolando e limitando al massimo gli oligopoli e favorendo il più possibile la distribuzione delle proprietà.

© Giovanni Lamagna

La mia testimonianza al convegno per i 50 anni di vita della Comunità cristiana di base del Cassano.

8 giugno 2019

Cari amici, compagni e fratelli,

mi sono domandato tempo fa come avrei potuto impostare questa testimonianza che mi avete chiesto in occasione dei 50 anni di vita della vostra/nostra comunità. E mi sono orientato a donarvela sotto forma di lettera, mi verrebbe di dire di epistola, per fare un esplicito riferimento ad un termine utilizzato nella tradizione biblica, neotestamentaria.

Ho pensato di farlo per almeno due motivi. Il primo è di ordine comunicativo: chi mi conosce bene sa che ho difficoltà a parlare a braccio (mi confondo, perdo il filo, non riesco a dire tutte le cose che vorrei…), mentre me la cavo un po’ meglio quando scrivo.

Il secondo motivo è che in questo modo potrò lasciare agli atti di questo convegno il testo della mia testimonianza, se (come prevedo) non riuscirò a leggerla tutta restando nei tempi che mi avete assegnato. E così chi di voi ne avrà voglia potrà continuare a leggersene la restante parte. Scripta manent!

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Come avrete notato, ho iniziato questa mia epistula con tre termini: amici, compagni e fratelli. E l’ho fatto non per retorica, ma perché essi mi sono molto cari, sono per me tutti e tre carichi di significato. E lo sono perché esprimono bene la mia storia umana, culturale e politica.

Ma l’ho fatto anche perché esprimono bene i valori fondamentali che mi hanno sempre unito e ancora oggi mi uniscono a voi.

Se ci pensate i tre termini – amici, compagni, fratelli – sono collegati (ciascuno in modo più specifico ad una di esse) alle tre culture fondamentali che hanno costituito l’architrave della mia (ma credo di poter dire anche nostra) storia umana, culturale e politica: quella liberale, quella socialista e quella cristiana, con i loro tre valori fondamentali di libertà, uguaglianza e fraternità.

Mi verrebbe di dire – senza tema, credo, di apparire troppo presuntuosi – che la nostra vita si è svolta all’insegna di quelli che, a mio modesto, ma fermo, avviso, dovrebbero essere i tre valori portanti di una nuova cultura politica, che io spero prima o poi – nonostante i segnali contraddittori che sembra oggi consegnarci l’attualità – possa caratterizzare la scena del XXI secolo: i valori della libertà, della uguaglianza e della fraternità, appunto!

Valori che nella storia finora sono apparsi sempre scissi, come se fossero inconciliabili tra di loro, e che noi, invece, abbiamo sempre considerati e vissuti come inscindibili, inseparabili l’uno dall’altro.

Non può esserci, infatti, per noi vera libertà separata dall’uguaglianza, come non ci può essere vera uguaglianza separata dalla libertà.

E, soprattutto, libertà e uguaglianza non bastano a garantire una società veramente e pienamente umana senza la fraternità.

Come la fraternità è ipocrita, puro sentimentalismo paternalistico, senza la sussistenza della libertà e dell’uguaglianza effettive e non solo formali (cioè non solo astrattamente giuridiche) tra gli uomini.

Ecco questa è la prima testimonianza che intendevo darvi quest’oggi: le nostre vite, al di là degli alti e bassi dei nostri rapporti concreti, hanno viaggiato mi sembra di poter dire sempre all’unisono durante tutti questi anni su questi tre binari valoriali, etici, ma io credo di poter dire soprattutto spirituali: il binario della libertà, quello della uguaglianza e quello della fraternità. Per cui sono stati veri rapporti di amicizia, di compagneria (se si può usare questo termine) e di fraternità.

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Certo, poi (come dicevo prima) nei nostri rapporti ci sono stati alti e bassi, nel senso che ci sono stati momenti in cui ci siamo frequentati di più e momenti in cui ci siamo frequentati di meno, momenti in cui abbiamo condiviso più cose e momenti in cui ne abbiamo condivise di meno.

Mi viene allora spontaneo fare una piccola storia di questi nostri rapporti, distinguendola in tre fasi principali, che corrispondono poi grosso modo alle tre stagioni principali della nostra (oramai abbastanza lunga) vita.

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La prima fase è quella che inizia addirittura con la nostra adolescenza e si prolunga fino alla nostra prima giovinezza. Per quanto mi riguarda va (più o meno) dall’anno 1962 all’anno 1973. Comprende quindi circa 11 anni.

Ci siamo conosciuti con alcuni di voi (Gennaro Sanges, Aldo Bifulco, Ezio Esposito, Corrado Maffia…) nell’oramai lontano 1962, al Centro Diocesano dell’Azione Cattolica napoletana in Largo Donnaregina. Io ero delegato aspiranti di una piccola parrocchia dalle parti di via Arenaccia: stavo ancora al ginnasio, al Garibaldi. Gennaro e Aldo erano i delegati della parrocchia del Vasto con padre Errico. Ezio e Corrado (che si occupava degli juniores) venivano dalla parrocchia di piazza Capodichino.

Un poco più tardi (ma solo un poco) ho conosciuto poi Mario Corbo, Rosario Sanges e Benedetto Musacchia, della parrocchia del Vasto, e quindi Nello Esposito, Donato Michini della parrocchia di Capodichino.

Importante tramite tra di noi in quel periodo fu Biagio Passaro, che era mio compagno al ginnasio-liceo Garibaldi, ma abitava a San Pietro a Patierno (zona limitrofa a Capodichino) e nella parrocchia di san Pietro faceva anche lui il delegato aspiranti.

Che anni sono stati quegli anni!

Anni in cui ognuno di noi era alla ricerca di un suo percorso di fede più autentica, più vera e personale, che andasse oltre la religiosità un po’ ritualistica, tradizionale e, diciamolo pure, anche un po’ bigotta, che ci avevano trasmessa i nostri genitori e i preti delle parrocchie che frequentavamo.

E questa ricerca, anche se forse non proprio in una forma esplicita e molto palese, ci accomunava, si sentiva che era qualcosa che ci metteva assieme.

In questo ci aiutava molto l’atmosfera del Concilio, indetto da papa Giovanni (guarda caso!) nel 1962 e durato fino all’8 dicembre del 1965, che segnò (come tutti sappiamo) una svolta nella storia della Chiesa, potremmo dire la fine della Chiesa tridentina, chiusa al mondo moderno, e l’inizio della Chiesa ecumenica, aperta alla modernità, anzi alla contemporaneità.

Sono stati questi gli anni, penso per ciascuno di noi, dell’incontro più intimo e personale col Vangelo e con la figura di Gesù (ricordo l’importanza fondamentale che ha avuto per me la lettura dei libri di Carlo Carretto, di Arturo Paoli, di Renè Voillaume, di Jacques Maritain) con la spiritualità dei Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld e con quella dei Focolarini, che pure nella loro grande diversità (l’una più contemplativa, l’altra più sociale ed attiva) hanno contribuito a fornirmi modelli di Cristianesimo nuovi, meno ritualistici e più autentici, proprio quelli che sia io che voi, per vie magari un po’ diverse tra di loro, andavamo già cercando da qualche anno, anche se ancora all’interno dell’alveo tradizionale e un po’ protettivo delle nostre parrocchie.

Poi è venuto il momento del distacco pure da questa dimensione. Io sono andato per due anni e mezzo a Loppiano, presso la cittadella internazionale dei Focolarini vicino Firenze e sono stato lì per due anni e mezzo (dagli inizi del 1967 fino alla metà del 1969).

Al ritorno da questa esperienza (a Loppiano avevo capito con chiarezza oramai che la strada dei focolarini non era propriamente la mia), dopo circa un anno e mezzo (credo dovesse essere il 1971) ci siamo incontrati di nuovo: la Comunità (non ancora del Cassano) si era appena avviata, frutto sostanzialmente dell’incrocio dei due gruppi di Azione Cattolica del Vasto e di Capodichino.

Ricordo di aver conosciuto allora Remigio Raimondi e la fidanzata Rita Esposito, Antonia Melino (fidanzata con Corrado), Marinella Filosa (fidanzata con Mario), Rosa Raimondi (fidanzata con Aldo), Elisa Palmieri (fidanzata con Gennaro).

Molte riunioni della Comunità in quell’anno tra il 1971 e il 1972 si svolsero proprio a casa mia o meglio presso la casa dei miei genitori, in via colonnello Lahalle, 24, dove io abitavo ancora in quanto studente universitario di filosofia.

In quella fase era forte tra di noi il desiderio di recuperare lo spirito dei primi cristiani e delle loro piccole comunità, al di fuori dei formalismi e delle liturgie delle parrocchie, all’interno delle quali tutti noi avevamo incontrato il cristianesimo.

Poi nel 1972 mi sono laureato e a settembre di quell’anno sono partito per il militare, che ho fatto a Roma, a Pietralata. Ricordo che all’epoca, per respirare aria di comunità, il sabato pomeriggio andavo alla basilica di san Paolo, dove si riuniva la comunità di Giovanni Franzoni e spesso vi tornavo anche la domenica mattina per la messa, in una basilica enorme eppure strapiena di gente, che veniva per ascoltare le bellissime omelie di Giovanni.

E’ stato quello l’anno in cui ho maturato il mio distacco finale dalla fede. Ricordo di aver ricevuto la mia ultima ostia eucaristica proprio dalle mani di Giovanni Franzoni nella basilica di san Paolo.

Ma il distacco era maturato gradualmente negli ultimi tre anni di Università, sotto gli stimoli dei libri di filosofia che andavo leggendo, ma soprattutto di un libro che ha segnato la mia vita, “L’arte di amare”, di Erich Fromm.

E’ stato quindi un distacco graduale, leggero, mi verrebbe di dire soft, che non ha avuto nulla di traumatico. Perché in realtà io non ho mai smesso di credere in Gesù Cristo, nel senso di amarlo come un mio Maestro fondamentale di vita.

Ho “solo” smesso di considerarlo “il figlio di Dio”, perché ho smesso di credere nell’esistenza di un Dio, separato da questo mondo; cosa che (più ci penso e più mi appare chiaro) non mi sembra l’essenza del messaggio che ha voluto lasciarci Gesù.

Che sta piuttosto in questo: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato!”. Nell’amore tra gli uomini, dunque, non nella fede in un Dio trascendente.

E qui, in questo anno, il 1973, io considero chiusa la prima fase della nostra storia, di noi come persone singole e di noi come amici e come fratelli, non ancora compagni: non avevamo, infatti, ancora scoperto la politica come impegno grosso, centrale, della nostra vita.

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E’ iniziata a questo punto una seconda fase della nostra vita: la fase della maturità. Quella del lavoro, del matrimonio, della famiglia, dei figli, per molti di noi dell’incontro con la politica, della scelta a sinistra, cioè dalla parte dei lavoratori, della lotta per un mondo più giusto, più equo, più solidale, oltre che più libero.

Qui le nostre strade si sono (almeno fisicamente) divaricate abbastanza e per un bel po’ di tempo. Io incontravo spesso Gennaro, Aldo, Benedetto, ma quasi sempre al sindacato o nei luoghi della politica.

Non più negli spazi della Ecclesia tradizionale, nei quali ci eravamo conosciuti, o della comunità di base, nei quali ci eravamo incontrati un poco più tardi, dopo un breve e provvisorio distacco.

Voi, invece, avete continuato fedeli, tenaci, direi perfino testardi e quasi imperterriti, nel vostro cammino di comunità. Io me ne sono fisicamente allontanato.

E non perché fosse venuta meno in me analoga esigenza, ma perché sentivo, avvertivo, che l’esperienza di una comunità di fede (quale fede poi, se non ce l’avevo più?) mi stava stretta.

Continuavo a sentire ancora (come sento del resto ancora tuttora) l’esigenza della comunità, ma di una comunità che uscisse dai confini ristretti della Chiesa e si aprisse all’universo mondo.

Avvertivo, in altre parole, l’esigenza di una comunità radicalmente laica, fondata certamente sull’amore: da questo punto di vista il valore della libertà e quello dell’uguaglianza non mi sono mai bastati come valori ispiratori fondanti del mio impegno politico.

Ma un amore totalmente profano, nel senso letterale del termine: un amore cioè vissuto “fuori dal tempio”. Il “tempio mi era divenuto inutile”, aspiravo ad abitare “la città planetaria”, per usare termini che ho ritrovato poi, qualche anno più tardi, nelle parole di un nostro comune maestro.

Non a caso questi sono stati gli anni in cui per me hanno acquistato sempre più importanza l’incontro (in questa fase solo teorico e conoscitivo) con la psicoanalisi e l’esperienza (questa, per fortuna, soprattutto pratica e vissuta) della sessualità.

Che io avevo visto (ed esperito) sempre come un po’ castigata (per non dire decisamente repressa) all’interno dell’esperienza religiosa, per quanto aperta, avanzata, rivisitata, modernizzata essa fosse.

E qui ci sarebbe molto da dire ed approfondire. Ma non lo faccio, perché il discorso mi prenderebbe la mano e sforerei di troppo i tempi del mio intervento.

Dico solo che in questi anni al mio primo Maestro, quello della mia (nostra) adolescenza e della mia (nostra) prima giovinezza, che è stato Gesù, se ne sono aggiunti (almeno) altri due, che io considero di (quasi) uguale importanza, Marx e Freud.

Che hanno rappresentato sul piano simbolico i due binari fondamentali lungo i quali ha camminato poi in seguito la mia vita: – quella di una ricerca interiore, introspettiva, intrapsichica, quasi di autoanalisi continua, – e quella dell’impegno sociale e politico, di attenzione, altrettanto continua, alla realtà esterna che ci circonda.

E in questi anni (purtroppo!) i nostri rispettivi percorsi hanno camminato un po’ distanti. Mai del tutto divaricati e però quasi sempre paralleli: solo di tanto in tanto, infatti, solo raramente si incontravano, sia sul piano materiale, dell’incontro fisico, sia sul piano spirituale, del confronto di anime.

Di questi anni – diciamoci la verità – io so poco di voi: quel poco che so l’ho appresso dal libro che avete pubblicato in occasione dei primi 25 anni di vita della Comunità. Ma anche voi sapete poco di me.

Oggi in parte, ma ovviamente solo in piccolissima parte, ho riempito questo vuoto: questo era il senso e la motivazione del mio breve racconto di questa fase.

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Passo, quindi, rapidamente alla illustrazione di quella che ritengo la terza fase dei nostri rapporti, che incomincia con quello che per me e per la maggior parte di noi è stato l’inizio della terza età. L’inizio di questa fase io lo situo anagraficamente per me attorno ai 54/55 anni, quindi attorno agli anni 2001/2002.

Attorno a questi anni incomincia una nuova fase della mia vita non solo fisica e anagrafica, ma soprattutto psicologica. Perché recupero, gradualmente, ma sempre più distintamente, con sempre maggiore energia e consapevolezza, quella che era stata una dimensione che (a dire il vero) non mi aveva mai abbandonato del tutto, ma che negli anni della maturità, negli anni di mezzo della mia vita, avevo messo un po’ in secondo piano: la dimensione della spiritualità, della contemplazione, in altre parole potrei definirla pure della ricerca della Sapienza (Sapienza con la S maiuscola): la dimensione che oggi non esiterei a definire perfino religiosa della mia vita.

Anche se una dimensione del tutto laica, fondata su nessuna fede cieca e su nessun libro sacro. Religiosa nel senso semplice ma letterale del verbo “religo”, ovverossia del sentirmi membro dell’intera famiglia umana, quindi legato essenzialmente, strutturalmente a ciascun componente di questa famiglia, anzi (di più) frammento dell’intero universo, quindi legato al Cosmo intero e non solo all’Umanità in quanto specie.

E, infatti e non a caso, il “sentimento cosmico” (come lo ha spesso descritto  Einstein) o il “sentimento oceanico” (come lo hanno definito Romain Rolland e Sigmund Freud in un loro celebre scambio epistolare) è ciò che caratterizza specificamente la mia religiosità attuale e ritrovata, che è poi null’altro che la mia spiritualità rinsaldata e maggiormente consapevolizzata.

Sulla base di una convinzione forte che mi ha accompagnato sempre in questi ultimi anni: “la spiegazione razionale del mondo divulgata dalla scienza ha inesorabilmente corroso lo spazio sacro, che è il (….) naturale dominio” (delle religioni), ma non ha rese superate le domande da cui sono nate le religioni. Che sono poi “domande di senso”: le stesse a cui cerca di rispondere la filosofia.

Ora quali ricadute ha avuto questo mio percorso spirituale sui nostri rapporti? E’ successo (e per me mai niente succede a caso) che abbiamo ripreso a vederci più spesso, non solo in ambiti politici, ma anche alla Scuola di pace e anche qui, in alcuni omenti di incontro della comunità.

Dove alcuni miei interventi di riflessione politica ma anche filosofica (filosofica, proprio nel senso letterale di cui dicevo prima, di amore e ricerca della Sapienza) sono stati riconosciuti e (perfino) utilizzati in alcune vostre “liturgie” (se posso ancora continuare a chiamarle così) o momenti di riunione.

Fino all’ultima scoperta (per me molto piacevole) che per voi si era aperto un cammino di riflessione e ricerca che dalla dimensione religiosa si spostava nettamente (se non proprio esclusivamente) sulla dimensione spirituale, attraverso il superamento della stessa religione.

Quindi non più o non tanto l’esperienza di una “religiosità altra” e, per conseguenza, di una “Chiesa altra”, ma il superamento della stessa religiosità e, quindi, dei confini stessi della Chiesa.

Dell’abbattimento perciò di tutti gli steccati che separano una comunità cristiana (per quanto di base) dall’universale e (mi verrebbe di dire: scusate il gioco di parole) comune comunità degli uomini.

Qui, se questo vostro cammino dovesse andare avanti e arrivare alle sue estreme conseguenze, i nostri rispettivi percorsi potrebbero di nuovo incrociarsi e forse addirittura tornare a coincidere. Come in cuor mio mi auguro e vi auguro.

E non certo perché sia cosa importante che questo succeda: in fondo ci vogliamo già bene così e continueremmo a volercene anche se continuassimo a camminare su strade un po’ diverse.

Ma perché questo fatto sarebbe la realizzazione di quanto auspicato da un uomo che molti di noi qui presenti hanno sicuramente molto amato e molto stimato, un uomo che è stato uno dei profeti più importanti della Chiesa cattolica del ‘900: sto parlando di Ernesto Balducci.

Che in un suo libro bellissimo del 1985, “L’uomo planetario”, già profetizzava l’avvento di “una nuova epoca per la spiritualità umana”. E lo faceva più di 30 anni prima che John Shelby Spong, Maria Lopez Vigil, Roger Lenaers e Josè Maria Vigil scrivessero il loro “Oltre le religioni”, che so essere stato al centro della vostra riflessione/meditazione all’incirca un anno fa.

In questo libro, che sicuramente molti di voi avranno letto, Ernesto Balducci parlava dell’uomo planetario in questi termini (ne cito i paragrafi finali):

L’uomo planetario è l’uomo postcristiano, nel senso che non si adattano a lui determinazioni che lo separino dalla comune degli uomini.

Liberata dalle sue obiettivazioni ontologiche e restituita alla sua dinamica esistenziale, che cos’è l’Incarnazione se non un’immersione di Dio nell’umano, in virtù dell’amore che di Dio è la stessa essenza?…

… La qualifica di cristiano mi pesa. Mi dà soddisfazione sapere che i primi credenti in Cristo la ignoravano…

… Non sono che un uomo: ecco un’espressione neotestamentaria in cui la mia fede meglio si esprime. E’ vicino il giorno in cui si comprenderà che Gesù di Nazaret non intese aggiungere una nuova religione a quelle esistenti, ma, al contrario, volle abbattere tutte le barriere che impediscono all’uomo di essere fratello all’uomo e specialmente all’uomo più diverso, più disprezzato…

… E’ questa la mia professione di fede, sotto le forme della speranza. Chi ancora si professa ateo o marxista o laico e ha bisogno di un cristiano per completare la serie delle rappresentanze sul proscenio della cultura, non mi cerchi.

Io non sono che un uomo.”

E’ questa la mia stessa professione di fede. In essa mi riconosco pienamente. Ci tenevo a darvene testimonianza in questa occasione in cui festeggiamo i 50 anni della vostra/nostra Comunità.

Con i migliori auguri, il vostro affezionato amico, compagno e fratello!

Giovanni Lamagna

Sul comunismo.

Non posso dirmi comunista, perché amo troppo la libertà.

Chi si dice “comunista”, infatti, spesso sacrifica la libertà all’uguaglianza.

Definisce le libertà borghesi libertà solo formali.

Saranno pure solo formali, ma a me queste libertà piacciono e non ci voglio rinunciare!

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Non posso non dirmi comunista, perché amo troppo la giustizia e l’uguaglianza sociale.

Le libertà formali non mi bastano.

Ho bisogno (anche) della libertà sostanziale.

Che c’è solo quando i bisogni fondamentali (di tutti e di ciascuno) sono soddisfatti.

Quando c’è piena uguaglianza tra gli uomini.

Giovanni Lamagna

Il compito del filosofo.

7 gennaio 2016

Il compito del filosofo.

Il filosofo (almeno per me) non è soltanto un uomo che pensa, ma anche un uomo che agisce in conformità a ciò che pensa.

So benissimo (e prevengo perciò l’obiezione scontata) che ci sono stati in passato, ci sono oggi e ci saranno ancora in futuro filosofi, che pur entrando a far parte a pieno titolo della storia di questa disciplina, non solo non sono stati, non sono e non saranno coerenti con le loro teorie filosofiche, ma non lo hanno ritenuto, non lo ritengono e non lo riterranno neppure necessario né tantomeno indispensabile.

Il punto che voglio affermare, però, qui con molta forza (per quello che può valere) è questo: io prediligo e considero miei maestri solo i filosofi che rientrano nella prima categoria. Gli altri li ho pure studiati al liceo e all’Università, ma di essi mi è rimasta ben poca traccia. E soprattutto di essi non mi interessa continuare lo studio, la meditazione.

Il filosofo che prediligo è, dunque, un uomo che trasforma la sua teoria in prassi di vita, che converte la sua prassi di vita sul modello della sua teoria, in un intreccio indissolubile e continuo.

Da questo punto di vista mi riconosco molto nella famosa frase di Marx “I filosofi hanno interpretato il mondo in vari modi, ma il punto ora è di cambiarlo”.

Che io mi permetterei di parafrasare (e integrare) in questo modo: “Compito dei filosofi è indubbiamente (e in primo luogo) quello di (provare a) capire il mondo (a cominciare da se stessi), ma anche quello di (provare a) trasformare il mondo (a cominciare da se stessi)”.

Il compito del filosofo, dunque, non è esclusivamente di natura teoretica e dottrinaria. Ma è anche un compito di natura morale e pratica: convertire se stesso. E’, infine, un compito di natura politica: contribuire, con gli strumenti di cui egli è dotato, alla trasformazione del mondo; per quanto mi riguarda, in senso progressivo, cioè nel senso dell’affermazione dei valori della libertà, della uguaglianza e della fraternità.

Giovanni Lamagna

In ricordo di Pier Paolo Pasolini

3 novembre 2015

In ricordo di Pier Paolo Pasolini.

Ieri ricorreva il 40° anniversario della morte violenta e prematura di Pier Paolo Pasolini.

La presenza intellettuale e culturale, ma direi anche e forse ancora di più umana, di questa persona straordinaria è ancora viva e forte, nonostante il passare del tempo.

Sono stati numerosi quindi gli articoli dei giornali, i servizi radiotelevisivi che lo hanno ricordato, com’era giusto che fosse.

Ovviamente, come già avvenuto in altre circostanze simili, molti di questi ricordi si sono soffermati sulla personalità estremamente articolata dell’uomo, anzi molti, se non i più, hanno fatto preciso ed esplicito riferimento alle sue numerose contraddizioni.

Prendo ad esempio (ma potrebbe valere per molti altri) l’articolo di Massimo Recalcati comparso su “la Repubblica” il 28 ottobre u. s., che ha (non a caso) come sottotitolo “Le contraddizioni e le pulsioni vissute nella propria carne”.

Vorrei dire anche io qualcosa su questo aspetto della personalità di Pasolini, che spesso, se non sempre, viene messo in evidenza quando si parla di quest’uomo e di questo grande artista ed intellettuale.

Comincio col dire allora che, di solito, quando si parla di personalità contraddittoria, ci si riferisce ad aspetti diciamo pure nevrotici della persona, a conflitti irrisolti, causa molto spesso di sofferenze e angosce oltre che di creatività e poesia.

In altre parole ci si riferisce a un minus della persona, ad un che di non realizzato, di irrisolto e non ad un majus, cioè a qualcosa che indica la vitalità e i pregi della persona.

Io, invece, vorrei evidenziare che non sempre le contraddizioni di una persona ne indicano un limite o una nevrosi, ma che, anzi, alcune volte ne evidenziano al contrario proprio la ricchezza e la poliedricità speciali, in certi casi solo umana ed emotiva, in altri casi anche intellettuale, culturale, artistica.

C’è da chiedersi, dunque: quando è che le contraddizioni di una persona sono solo una classica nevrosi e, quindi, causa prevalente di sofferenza, sintomo, cioè conflitto irrisolto e negativo, e non certo promotrici di opere creative?

La mia risposta a questa domanda è la seguente: quando le contraddizioni si riferiscono a polarità oggettivamente incomponibili e sono causa quindi di un conflitto non solo non risolto nella realtà effettuale ma irrisolvibile anche in quella potenziale.

A cosa mi riferisco? Mi riferisco a vere e proprie forme di patologia. Descritte ampiamente e con ricchezza di sintomi e di manifestazioni nei manuali e nei libri di psicologia, non necessariamente di psichiatria.

Quando, ad esempio, una persona persegue (apparentemente) il principio del piacere ma lo vuole realizzare attraverso passaggi e soluzioni che tutto sono fuorché di piacere, questa contraddizione esprime un conflitto incomponibile e perciò chiaramente nevrotico, se non addirittura psicotico.

Quando, per fare un altro esempio, una persona vorrebbe essere autonoma e indipendente, crescere e diventare adulta, ma poi nella realtà si fa sempre “schiava” di qualcuno/a, è sempre alla ricerca di rifugio e conforto, come se volesse restare eternamente bambina, ci troviamo di fronte ad un’altra forma tipica di conflitto nevrotico e irresolubile.

Quando una persona ritiene razionalmente una legge ingiusta, ma i suoi sensi di colpa radicati e ben introiettati le impediscono di opporsi ad essa, ci troviamo di fronte a una contraddizione nevrotica, che non potrà mai essere risolta fin quando i due poli che la caratterizzano restano entrambi vivi e attivi.

Ma non tutte le contraddizioni sono di questo tipo e natura. Ci sono contraddizioni che non sono affatto nevrotiche, che non sono per niente sintomo di un conflitto insano e patologico, ma anzi esprimono appieno la ricchezza e l’articolazione delle umane possibilità e, quindi, allorché si ritrovano, più o meno numerose, in una persona ne segnalano la ricchezza emotiva, umana e, a volte, anche intellettuale, artistica, creatrice e non la patologia paralizzante di una nevrosi o di una psicosi.

Ora, quando Recalcati scrive: “Sono diverse e note le contraddizioni che attraversano la vita e l’opera di Pasolini: individualista, testimonia con coraggio l’impegno civile e collettivo dell’intellettuale; anticlericale si schiera risolutamente contro l’aborto; comunista militante entra in conflitto con il Pci; ateo, marxista, resta cristiano nello spirito; anticonformista detesta l’anticonformismo; contestatore vigoroso del “sistema” si schiera contro i giovani contestatori del ’68; antipaternalista, non si risparmia nel segnalare il rischio del tramonto del padre nel nostro tempo; sperimentatore della lingua, resta critico irriducibile di ogni avanguardismo; straordinario poeta civile, conduce pascolianamente la poesia verso i propri drammi più segreti e indicibili; pedagogo libertario, riconosce come insuperabile la figura del maestro; poeta sublime dei corpi e della loro esuberanza pulsionale, ne ha messo in scena il loro oltraggio e la loro devastazione; omosessuale e ribelle, è un conservatore dei valori della tradizione.”, a quale tipo di contraddizioni si riferisce: a quelle nevrotiche, patologiche e, quindi, distruttive della persona o a quelle naturali, creatrici, stimolanti e, quindi, produttive del talento, dell’immaginazione, dell’arte e, per certi aspetti almeno, anche della ricchezza stessa della persona?

Ho l’impressione che nell’articolo di Recalcati questo confine non sia chiaro e, forse, è anche giusto, condivisibile che sia così.

A patto, però di considerare che alcune presunte contraddizioni di P. P. Pasolini non erano affatto nevrotiche ma esprimevano anzi appieno la ricchezza e la poliedricità della sua persona, sia di uomo che di artista.

L’individualismo, cioè l’affermazione di sé come persona, la volontà di esercitare appieno e fino in fondo il proprio senso critico non si opponevano affatto, in una contraddizione stridente e incomponibile, con il suo sentirsi parte di una comunità civile e intellettuale.

Il suo anticlericalismo non era per niente contraddittorio con l’affermazione di valori ritenuti perenni, ma solo la contestazione dell’ipocrisia e della non coerenza tra valori dichiarati e pratiche realizzate (da parte della Chiesa cattolica).

Il suo comunismo diventava in certi momenti anticomunismo in nome della libertà, che per lui non poteva essere separata e scissa dal valore dell’uguaglianza.

Il suo ateismo in nome della ragione illuminista non contrastava con lo spirito cristiano i cui valori possono essere riconosciuti anche da una visione del mondo del tutto laica e areligiosa.

Il suo anticonformismo provava giustamente ripugnanza per un anticonformismo più di facciata e di moda che di sostanza, cioè per l’anticonformismo snob e borghese.

La sua contestazione del “sistema” si scontrò coi giovani del ’68, molti dei quali di quel sistema facevano pienamente parte, ne erano figli, in certi casi addirittura privilegiati.

Il suo antipaternalismo non rifiutò in maniera pregiudiziale e assoluta la figura archetipa del Padre. E perché avrebbe dovuto?

La sua pedagogia libertaria non gli impedì di riconoscere l’importanza del ruolo del maestro. E perché avrebbe dovuto impedirglielo?

L’esaltazione del corpo non gli impedì di vederne e descriverne l’effimera giovinezza e la caducità. E, anche qui, perché avrebbe dovuto?

L’omosessualità affermata e ribelle non gli fece velo nel riconoscere i valori di una certa tradizione. E perché avrebbe dovuto fargli velo?

Ragione e passione, storia e natura, pensiero critico e pulsione non trovano mai in lui una conciliazione stabile, ma permangono in uno stadio di perenne dissidio. La sua stessa psicologia individuale appare scissa tra gentilezza e attitudine alla provocazione, altruismo e rapacità pulsionale, divismo e umiltà, mondanità e solitudine.”, afferma Recalcati. Può darsi che Recalcati abbia ragione, anzi sicuramente ha ragione. Effettivamente in Pasolini c’è la ricerca, il tentativo generosi, appassionati, in certi casi disperati di conciliare degli opposti.

Il punto che voglio affermare però qui è che le polarità a cui fa riferimento Recalcati sono tutte polarità non incomponibili tra loro, che possono dare origine a contraddizioni (e spesso danno origine a contraddizioni; in Pasolini, ad esempio, queste contraddizioni esistevano ed erano molto forti) ma non contraddizioni di per sé irresolubili, bensì contraddizioni addirittura necessarie alla vita e alla sua espressione creatrice e realizzatrice.

Potrei aggiungere che in Pasolini queste contraddizioni erano non risolte, perché in lui le polarità da cui esse si originavano erano tutte portate al limite estremo, quasi assolutizzate (come spesso avviene nelle personalità dotate di un temperamento, di una sensibilità e di un’intelligenza fuori dal comune) e quindi la loro conciliazione era oggettivamente difficile, complessa, ardua.

La maggior parte delle contraddizioni in cui si dibatteva Pasolini erano di questa natura, cioè della natura da cui nasce la creatività, e non della natura tipica delle nevrosi, da cui non può scaturire nessuna vera creatività, ma solo (semmai) paralisi e, per conseguenza, mediocrità.

Di conseguenza e in conclusione Pasolini è anche per me sicuramente una personalità contraddittoria, ricca di sfumature e di ambivalenze, ma il suo genio è nato, si è sviluppato ed affermato proprio nella tensione tra le opposte polarità da cui si originavano le sue contraddizioni.

Che, forse, come dice Recalcati, non erano conciliate, ma non erano neanche – dico io – causa di scissioni insanabili. Altrimenti non avremmo avuto il genio che tutti riconoscono in lui, ma solo una persona paralizzata e mediocre, come ce ne sono state e ce ne sono tante.

Giovanni Lamagna