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L’aggressività nel rapporto di coppia.
Perché – in molti casi – si diventa estremamente aggressivi nel rapporto di coppia?
Per la ragione molto semplice, persino banale, che il rapporto di coppia è quello nel quale la maggior parte delle persone investe di più.
Come in nessun altro rapporto.
In altre parole noi nel rapporto di coppia – specie all’inizio – tendiamo a ricercare le stesse gratificazioni che abbiamo sperimentato nel rapporto coi nostri genitori, specie nel rapporto con nostra madre.
Anzi tendiamo a cercare perfino le gratificazioni che non siamo riusciti a sperimentare allora, le gratificazioni che ci sono mancate, che non abbiamo ricevuto in quella fase decisiva della nostra vita affettiva.
Vorremmo così riempire – attraverso il rapporto di coppia – dei vuoti – qualcuno parla addirittura di ferite – che ci portiamo appresso da quando eravamo bambini.
Sta tutta qui la estrema complessità e difficolta dei rapporti di coppia.
E la ragione dei loro numerosi e frequenti fallimenti.
© Giovanni Lamagna
Violenza e linguaggio.
Il ricorso alla violenza fisica presuppone sempre un deficit della capacità di pensiero e di linguaggio, denuncia sempre comunque una sconfitta del pensiero e del linguaggio verbale.
Questi, infatti, per loro natura, si fondano sul ricorso all’astrazione e al simbolico, come sublimazione, trasfigurazione del reale.
Quanto più, dunque, una persona è incapace di sublimare, in altre parole di pensare, traducendo in parole, in linguaggio verbale, la sua aggressività, tanto più è incapace di dominare e arginare i suoi impulsi aggressivi.
Allora la violenza fisica, che – in alcuni casi estremi – diventa addirittura omicida, resta la sua unica forma di linguaggio e di (paradossale) comunicazione.
© Giovanni Lamagna
Amore, frustrazione, aggressività, violenza.
In ogni amore c’è sempre una componente aggressiva.
Ogni amore, infatti, si deve confrontare prima o poi con la separazione/allontanamento, per quanto provvisori, dell’altro e con l’impossibilità di superarli del tutto.
Questa consapevolezza genera allora frustrazione e la frustrazione inevitabilmente l’aggressività; almeno come moto istintivo e iniziale dell’animo.
Il fatto poi che la consapevolezza e l’amore ci consentano di tenere a bada e non agire questa aggressività non vuol dire che essa non sia insorta e che in alcuni casi duri anche nel tempo.
Questa dinamica la si vede benissimo nei bambini.
Capita, infatti, che essi, mentre stanno giocando allegramente e gioiosamente con la madre o con il padre, in un’atmosfera che a volte sembra di armonia pura, perfetta, quasi magica, improvvisamente si rannuvolano e diventano aggressivi, perfino violenti.
È questo il loro modo di difendersi dall’amore, che li rende dipendenti dalle figure che amano, mentre sono ancora incapaci di gestire l’allontanamento, per quanto solo provvisorio, dei loro genitori.
A dimostrazione che amore, frustrazione, aggressività e, persino, violenza sono sentimenti che lungi dall’essere inconciliabili e del tutto estranei, molto spesso si legano l’uno all’altro e si alternano tra di loro nella stessa persona e verso la stessa persona.
© Giovanni Lamagna
Amore e odio, paura e desiderio: osservando un bambino.
Osservando un bambino potremmo renderci conto direttamente e direi empiricamente, quindi perfino scientificamente, di quanto siano fondate alcune tesi di Sigmund Freud (grande osservatore della vita umana), che magari facciamo fatica a condividere con la nostra sola razionalità e in mancanza di verifiche in laboratorio.
Due in particolare me ne vengono in mente.
La prima è che l’amore non si può mai separare dall’odio, che l’amore è sempre mischiato, intrecciato, impastato con l’odio.
Basta osservare – per averne conferma – il comportamento di un bambino, verificare come egli sia capace di passare quasi all’improvviso da un atteggiamento di grande tenerezza, affettuosità, quindi amore, ad un atteggiamento di grande aggressività, perfino di violenza, in certi casi solo verbale, in altri persino fisica, verso la madre e il padre, cioè verso le persone di gran lunga più significative e importanti nella sua vita affettiva.
La seconda tesi di Freud che mi sembra largamente confermata dall’osservazione del comportamento (in modo particolare) dei bambini è che desiderio e paura (come i “totem” e i “tabù” dei popoli primitivi) viaggiano di pari passo, camminano sempre insieme, sono associabili.
Lo verificavo l’altro giorno in maniera plastica giocando con un mio nipotino, Marco, che ha poco più di tre anni.
Marco ha sviluppato da sempre, fin dal suo primo compleanno, una sorta di paura/timore al momento del taglio della torta e, soprattutto, dello stappo dello spumante.
Il solo rumore del tappo estratto dalla bottiglia lo fa sobbalzare e quasi lo terrorizza.
Per cui, quando arriva il momento di stappare la bottiglia, egli chiede di farlo piano, piano, in modo da non fargliene sentire il rumore, che lo farebbe saltare per la paura.
Qualche giorno fa io e la nonna giocavamo con lui a tombola.
Sopra il panierino contenente i numeri del gioco noi abbiamo messo un tappo di spumante per impedire che i numeretti ne fuoriescano.
A lui è venuta, allora, spontanea l’associazione panierino/spumante.
Abbiamo, quindi, preso a giocare (ce ne ha dato lui l’idea) con il suo timore dello stappo.
Togliendo il tappo che chiudeva il panierino, abbiamo mimato con la bocca il rumore dello stappo e ci siamo accorti che lui saltava, ma allo stesso tempo rideva, facendoci chiaramente intendere che la cosa gli faceva al contempo paura e piacere.
Il piacere di entrare in contatto con la sua paura, di affrontarla e superarla.
Abbiamo ripetuto questo gioco più volte e con molto divertimento, anche su suo invito e sollecitazione.
Ecco una dimostrazione semplice, ma palmare, della veridicità e persino verificabilità della tesi freudiana.
© Giovanni Lamagna
La “donna sexy”.
La donna che si abbiglia, si muove, gesticola, parla in un certo modo, ovverossia la donna seducente, provocante, in altre parole la donna che, nel linguaggio oramai diventato comune, anche se decisamente frivolo e banale, viene definita “sexy”, è la donna che non si adatta semplicemente a recepire il desiderio dell’uomo e a corrispondervi.
Non si limita cioè (nel migliore dei casi) a condividere il desiderio del maschio, quando esso si manifesta; come se lei non ne potesse provare uno autonomo e goderne pienamente in quanto soggetto e non solo oggetto di desiderio.
Ma è la donna che non ha inibizioni nell’affermare autonomamente il proprio desiderio, anche prima che si manifesti quello del maschio; ovviamente dopo averlo in primo luogo riconosciuto dentro di sé e non averlo rimosso.
Come, invece, purtroppo avviene spesso nel caso delle donne (non solo delle donne, ma soprattutto nel caso delle donne), sotto il peso di antiche, anzi ataviche convenzioni, che le volevano (ma ancora oggi, in molte realtà sociali, continuano a volerle) non solo pudiche, ma anche, in molti casi, ritrose, reticenti, dunque, in qualche modo, respingenti (almeno in un primo momento) nei confronti del desiderio maschile.
E’, in altre parole, la donna adulta, matura, autonoma, culturalmente e psicologicamente evoluta, disinibita, che sa affermare sé stessa, che non abbisogna in prima istanza del desiderio del maschio e non si nasconde dietro di esso per manifestare il proprio, quasi a non volersene assumere la responsabilità piena, ovverossia in prima persona.
E’ la donna che cerca l’uomo, per soddisfare il proprio desiderio, come questi cerca la donna; su un piano, dunque, di assoluta parità e reciprocità, senza alcuna asimmetria; e non ha paura, né tantomeno vergogna, di comportarsi in questo modo; anzi mostra una spavalderia, che per alcuni è sfrontatezza, per alcuni altri (ancora oggi, perlomeno in alcune realtà geografiche e in alcuni ambienti culturali) è addirittura volgarità; per qualche altro ancora denota “facili costumi”.
E’ la donna che, ad esempio, non delega al maschio la conduzione (tempi, modi, luoghi, posizioni…) dell’atto sessuale – come avviene invece, ancora oggi, nella maggior parte dei rapporti sessuali – ma se ne fa pienamente attrice, anzi protagonista, allo stesso, identico, modo del maschio.
Per questo è una donna che attrae, che occupa indubitabilmente l’immaginario e provoca il desiderio (quantomeno quello inconscio) della maggioranza, se non della quasi totalità dei maschi, ma allo stesso tempo li intimidisce, anzi in molti casi li intimorisce e, in non poche situazioni, fa loro addirittura paura.
Mentre, al contrario, provoca l’invidia, la gelosia e, quindi, l’aggressività (latente e in molti casi del tutto manifesta) di molte donne, che non hanno (purtroppo per loro!) raggiunta la sua stessa libertà culturale e psicologica, ancora schiave di vecchi e arretrati modelli di femminilità.
© Giovanni Lamagna
L’uomo non è né angelo né diavolo, ma diavolo e angelo allo stesso tempo.
Freud, ne “Il disagio della civiltà” (1929), così scrive:
“… l’uomo non è una creatura mansueta, bisognosa d’amore, capace, al massimo, di difendersi se viene attaccata; ma … occorre attribuire al suo corredo pulsionale anche una buona dose di aggressività.
Ne segue che egli vede nel prossimo non soltanto un eventuale aiuto e oggetto sessuale, ma anche un invito a sfogare su di lui la propria aggressività, a sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, ad abusarne sessualmente senza il suo consenso, a sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, ad umiliarlo, a farlo soffrire, a torturarlo e a ucciderlo.
Homo homini lupus: chi ha il coraggio di contestare quest’affermazione dopo tutte le esperienze della vita e della storia?
Questa crudele aggressività è di regola in attesa di una provocazione, oppure si mette al servizio di qualche altro scopo, che si sarebbe potuto raggiungere anche con mezzi più benigni.
In circostanze estreme che le sono propizie, quando le forze psichiche contrarie che ordinariamente la inibiscono cessano di operare, essa si manifesta anche spontaneamente e rivela nell’uomo una bestia selvaggia, alla quale è estraneo il rispetto per la propria specie.”
Vorrei commentare brevemente queste tesi freudiane.
Non certo per mettere in discussione che molte delle affermazioni sostenute qui da Freud corrispondano alla verità.
Ma solo per contestare che esse siano del tutto vere, l’unica verità sulla natura umana.
Io concordo che l’uomo non sia una creatura (solo o del tutto) mansueta: sarebbe certamente una falsità affermarlo.
Indubbiamente – come dice Freud – al suo corredo pulsionale appartiene (anche) una buona dose di aggressività.
Contesto, invece, che l’uomo sia solo un lupo in mezzo ad altri lupi (homo homini lupus), come sembra concludere Freud nel passo sopra citato, riprendendo una famosa tesi di Hobbes.
No, io – onestamente, proprio guardando alle esperienze della mia vita e alla storia, come ci invita a fare Freud – non riesco a condividere una tale tesi.
Che mi appare anch’essa estrema e unilaterale, come quella opposta e speculare dell’uomo naturalmente buono di – per citare un solo nome – Rousseau.
D’altra parte lo stesso Freud sembra (almeno in parte) contraddirla, quando riconosce che ordinariamente ci sono nell’uomo forze psichiche che inibiscono la sua aggressività, la quale esplode solo “in circostanze estreme”.
Questo mi porta a pensare: se esistono nell’uomo forze psichiche che normalmente inibiscono la sua aggressività, da qualche parte esse devono pur scaturire.
E da dove scaturirebbero, se esse non facessero parte intrinseca della sua natura?
La mia tesi, pertanto, è che l’uomo non sia né tutto buono, né tutto cattivo, né sempre mansueto come un agnellino, né sempre feroce come un lupo.
Ma costituisca un impasto complesso di mansuetudine e di aggressività, di amore e di odio, di tensione alla cooperazione, alla generosità e al rispetto per gli altri e, allo stesso tempo, di propensione alla competizione, allo sfruttamento, all’invidia e alla gelosia.
La constatazione che in alcuni uomini prevalgano nettamente la cattiveria e la malvagità (la Storia ce ne mostra indubbiamente infiniti esempi) non smentisce e non annulla il fatto che in altri uomini (la stessa Storia ce ne mostra altrettanto numerose testimonianze) prevalgano la bontà e la dedizione agli altri.
Ne deduco, in conclusione, che questo è l’Uomo: né angelo, né diavolo, ma angelo e diavolo allo stesso tempo!
© Giovanni Lamagna
Noi e gli altri.
Gli altri sono per noi come degli specchi, nei quali ci riflettiamo, nei quali ricerchiamo il nostro volto, quello nel quale identificarci.
I rapporti con gli altri, attraverso questo gioco di specchi, ci aiutano a trovare il nostro “vero” volto, a costruire la nostra identità.
Per questo, soprattutto da un certo momento in poi, in genere dalla fine dell’adolescenza, le persone che hanno un significato profondo per noi si assomigliano un po’ tutte: perché ci raccontano più o meno la stessa storia, ci rimandano più o meno lo stesso volto, quello nel quale ci riconosciamo e che ci dà sicurezza, stabilità.
Tendiamo, perciò, a sfuggire le persone che invece ci chiedono cose (valori, ideali, scelte, comportamenti, gesti, posture…) diverse, che alludono ad altre identità.
Tendiamo a sottrarci al loro sguardo, perché questo crea dentro di noi una divisione, un conflitto, che minacciano la nostra stabilità.
Ecco perché, a mio avviso, è molto vero il vecchio adagio “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”!
E questa è la prima “verità” che riguarda il nostro rapporto con gli altri.
La seconda “verità” è questa: non si può piacere a tutti, perché le persone sono diverse, in alcuni casi molto diverse.
Se piaci ad una che ha certi gusti, certe preferenze, un certo stile di vita, una certa visione del mondo, non puoi piacere ad altre che hanno gusti, preferenze, stili di vita, visioni del mondo diversi, a volte opposti.
I simili o gli affini si attraggono, legano tra di loro, così come gli opposti e i diversi si respingono, fanno attrito, scintille.
Succede poi (ed è questa la terza “verità”, forse la più importante delle tre) che a volte incontriamo persone che ci rimandano un’immagine “altra” da quella nella quale siamo soliti riconoscerci.
Un’immagine che non ci piace, che quantomeno ci turba, che non vorremmo (almeno a livello conscio) fosse la nostra.
A volte perché essa ci ripugna decisamente, contrasta con l’idea che ci siamo fatti di noi stessi e con quello che vorremmo essere.
Altre volte, invece, proprio perché – sotto, sotto – noi vorremmo che essa ci appartenesse, ci corrispondesse, almeno come aspirazione, come desiderio inconsci.
In questo caso gli altri ci propongono un’immagine che ci attira (almeno ad un livello inconscio), ma che non riusciamo, malgrado qualche tentativo fatto, a rendere nostra.
Allora, quasi per un riflesso condizionato, sia nell’uno che nell’altro caso, tendiamo ad allontanarci da queste persone, a sfuggire loro.
O a viverle come ostili e quindi con aggressività.
La verità ci fa male, si sa; e non tutti riescono a reggere il dolore che a volte essa ci procura.
© Giovanni Lamagna
Tenerezza affettiva e passione erotica.
Freud afferma che la tenerezza affettiva e la passione erotica tendono ad escludersi nello stesso rapporto: quando c’è l’una non c’è l’altra; e viceversa.
Questo però, a mio avviso, succede quando la passione erotica non è condivisa nella stessa forma e misura dai due partner in un rapporto.
Quando, invece, è condivisa, la passione erotica non solo non esclude la tenerezza affettiva ma la esalta all’ennesima potenza.
Dopo una grande “scopata” si è naturalmente, istintivamente, grati, ri-conoscenti verso il proprio partner; e la gratitudine, la ri-conoscenza generano tenerezza.
Al contrario, quando il nostro o i nostri desideri vengono respinti, si prova rabbia verso il proprio partner; e la rabbia genera aggressività: l’esatto contrario della tenerezza.
© Giovanni Lamagna