Archivi Blog

L’amore per gli altri.

L’amore per gli altri è premio a sé stesso.

Non ha bisogno dell’attesa di ricompense o premi.

Non ha bisogno, quindi, di sperare nel Paradiso.

Che è pura illusione.

In questa falsa speranza sta l’aspetto più caduco del Cristianesimo.

Il nocciolo duro del messaggio cristiano sta nell’amore per gli altri.

Che ci salva dal narcisismo, dall’egocentrismo, dal triste e malsano ripiegamento su noi stessi.

E, quindi, è terapeutico.

Perciò basta a sé stesso; non ha bisogno di premi o ricompense in un aldilà ipotetico.

© Giovanni Lamagna

Sul messaggio di Cristo.

Il messaggio di Cristo – che arriva a comandarci l’amore per il prossimo e a consigliarci, addirittura, di porgere l’altra guancia a chi ci ha dato uno schiaffo – è per me di una forza straordinaria, anzi sconvolgente.

Mi è chiaro, del tutto evidente, perché sia persino scandaloso per il mondo, per il modo di pensare comune: quello del 99% delle persone.

Perché ci chiede di andare contro l’istinto e, quindi, in un certo senso, contro la nostra natura primigenia, che è quella animale.

Non sorprende, pertanto, che in alcuni casi (anzi, diciamo pure le cose fino in fondo: nella maggior parte dei casi), il comandamento di Cristo provochi un sentimento istintivo di opposizione, di rifiuto, anzi di rivolta.

Cristo ci chiede di andare, se non contro, di certo oltre la nostra natura originaria; ci chiede di diventare altro; ci chiede quasi di inventare un’altra natura.

Altra da quella del “homo homini lupus”, a cui Hobbes e – in fondo, in fondo – lo stesso Machiavelli pensavano si riducesse e fosse condannata la natura umana.

Ci chiede, quindi, di operare una vera e propria rivoluzione; interiore prima che esteriore, spirituale prima che sociale e politica.

Una rivoluzione interiore e spirituale senza la quale anche quelle sociali e politiche avrebbero/hanno ben poco solide fondamenta.

© Giovanni Lamagna

Sullo spot della Esselunga.

Sono tra quelli che ha reagito negativamente allo spot pubblicitario della Esselunga di cui tanto si sta parlando in questi giorni; ieri ho utilizzato addirittura parole feroci per commentare il post di un’amica che ne aveva scritto su facebook esprimendo la sua opinione; oggi ne vorrei parlare in maniera più riflessiva e pacata.

Ho reagito negativamente, dicevo, ma per un motivo diverso da quello per il quale i molti critici lo hanno condannato; e cioè che esso esalterebbe, rimpiangendolo, il modello della famiglia tradizionale, indissolubile, per principio contraria alle separazioni e al divorzio, in nome del bene supremo della “tutela” dei figli.

Non escludo che lo spot (coi tempi che corrono) intendesse lanciare, tra le righe, un messaggio in questo senso; anche se devo riconoscere, dopo averlo visto più volte, che, seppure voleva farlo, non lo ha fatto in maniera eclatante, rozza o volgare: il suo messaggio, da questo punto di vista, non è univoco e chiaro.

E tuttavia, in ogni caso, non mi sembra questa la ragione principale per criticarlo, come hanno fatto in molti, i più.

Il motivo per cui lo critico è che – come in tante occasioni del resto (la guerra, la violenza sulle donne, i naufragi degli immigrati, i terremoti, le alluvioni, la fame e le malattie nei paesi sottosviluppati…), in una società che oramai fa dello spettacolo il suo paradigma principale – ancora una volta una situazione in sé oggettivamente dolorosa, triste, malinconica, viene fatta oggetto di una piccola sceneggiatura.

Non solo; ma questa piccola sceneggiatura viene utilizzata come pretesto per fare pubblicità a un prodotto; viene in pratica messa sul mercato per fare pubblicità ad un supermercato.

Mi chiedo: quale e quanta ipocrisia c’è dentro una società che vieta ai giornali e ai telegiornali di mostrare i volti dei minori, quando accadono fatti nei quali essi sono coinvolti, e poi consente ad uno spot come questo di mettere in mostra la sofferenza evidente (addirittura vistosa) di una bambina per fare pubblicità a un prodotto?

Mi chiedo: cosa proverà il bambino o la bambina che vive la stessa situazione mostrata in questo spot, quando vedrà scorrere davanti ai suoi occhi – continuamente, perché viene trasmesso più volte nel corso della giornata – le immagini della loro coetanea che soffre, è triste, per la separazione dei suoi genitori?

Se lo è chiesto l’autore dello spot? Se lo sono chiesti la Meloni (che lo ha trovato “molto bello e toccante”), i ministri Crosetto e Salvini, che lo hanno esaltato senza ombra di dubbi?

Se lo è chiesto lo stesso Massimo Recalcati, psicoanalista insigne, che su “la Repubblica” di ieri ha scritto un articolo intitolato “Come ci guardano i figli” e che ha definito “immaturi” (ancora una volta facendo ricorso a questo aggettivo per tagliare la società in due) tutti coloro che hanno criticato lo spot?

© Giovanni Lamagna

Il sintomo doloroso è un messaggio.

Il sintomo doloroso (sia quello fisico che quello psichico) è un messaggio che il nostro corpo o la nostra psiche (la sua parte inconscia) ci lanciano per dirci che c’è qualcosa di sbagliato nella nostra vita, qualcosa che dobbiamo correggere, medicare, sanare.

La cura è una forma di conversione: attraverso la cura decidiamo di cambiare strada, di prendere una via diversa da quella stavamo seguendo e che, almeno da un certo momento in poi, ha cominciato a darci un disagio o una vera e propria sofferenza.

© Giovanni Lamagna

Quanti equivoci dietro la parola “amore”!

La cronaca giornaliera ma anche l’esperienza che ho dei rapporti umani mi portano a dire che in nome dell’amore si pensano e (peggio ancora!) si commettono a volte le peggiori nefandezze.

Basti pensare al caso estremo degli omicidi che avvengono in nome del presunto amore o, addirittura, (come alcuni lo definiscono) di un “eccesso di amore”.

In realtà perché l’omicida era preda della gelosia o perché non riusciva a sopportare l’abbandono o la richiesta di separazione della persona che (a parole) diceva di amare.

Il termine “amore” checché ne pensino molti e anche a prescindere dai casi estremi, prima citati, che finiscono in tragedia, è, dunque, alquanto vago e generico, anzi perfino ambiguo e contraddittorio nei suoi molteplici significati possibili.

Ogni volta che parliamo di “amore” dovremmo dunque metterci d’accordo, in premessa, su quale significato (in termini di azioni concrete) attribuiamo a tale parola e imparare a distinguere “il grano dal loglio”.

Ci sono azioni e comportamenti (per fare un altro esempio, meno estremo, ma non privo anch’esso di esiti a volte nefasti: quello del rapporto dei genitori coi loro figli) che spesso non sono affatto d’amore, anche se i più li considerano perfettamente tali.

Quanti genitori, in nome dell’amore, in realtà in nome del possesso, del desiderio a volte gravemente morboso di tenerseli stretti, di non “perderli”, impediscono ai loro figli una crescita autonoma e non favoriscono il loro distacco, la loro indipendenza!

Quanti genitori, sempre in nome dell’amore, in realtà per tenerseli buoni ed evitare quei conflitti, che a volte sono invece necessari, diciamo pure fisiologici, incapaci di porre limiti e regole, comunicano ai figli il messaggio che a loro tutto è consentito!

© Giovanni Lamagna

L’importanza e la verità dei miti.

Un mito è il racconto di personaggi, storie, fatti, vicende, frutto di fantasia, immaginazione, che superano i confini della realtà, sono potremmo dire sur-reali.

Il che non vuol dire che siano del tutto ir-reali e, quindi, falsi, semplicemente non-veri e, quindi, del tutto in-significanti.

Se fosse così, se cioè il mito non corrispondesse a nulla di reale, se non avesse un nucleo, un nocciolo di verità (quantomeno psicologica) profondo, non si capirebbe perché gli uomini gli abbiano dato in epoche antiche così tanta importanza e, in alcuni casi, gliene diano ancora oggi, in piena età moderna e contemporanea.

Per l’uomo moderno, pertanto, come ci hanno insegnato pensatori del calibro di Jung e di Hillman (per citarne solo due), non si tratta di negare il valore e il significato dei miti, considerandoli banali fantasie, invenzioni puramente fantastiche, che ci allontanano dal vero e dalla realtà, facendoci prigionieri di un mondo di sogni.

Ma di decodificare i miti, estraendone il significato, il messaggio profondo che essi sono in grado ancora oggi di trasmetterci, traducendolo semmai – quando lo si ritiene utile e, in certi casi necessario – in un altro linguaggio, il linguaggio del realismo e della razionalità.

Che, senza pretendere di negare la lingua della fantasia, del sogno, delle emozioni e dei sentimenti, sia capace di farsene interprete e di parlare anche alla nostra parte più razionale e disincantata, che in epoca moderna è diventata (mi verrebbe di dire: purtroppo!) di gran lunga quella prevalente, anzi dominante.

© Giovanni Lamagna

Ciò che resta del messaggio di Gesù.

Certamente Gesù, quando ha prefigurato la fine imminente di questo mondo e l’avvento di un altro mondo, quello che lui chiamava “Regno di Dio”, si è sbagliato.

Ed anche di grosso.

Il Regno di Dio che lui aveva immaginato stesse per giungere – come del resto lo avevano immaginato altri profeti prima di lui; ultimo il suo quasi coetaneo e cugino Giovanni il Battista – non solo non giunse prima che passasse la sua generazione, come egli aveva preannunciato, ma non è ancora giunto a distanza di venti secoli dalla sua morte.

La sua visione apocalittica ed escatologica era figlia molto probabilmente di una personalità disturbata, se non proprio folle, vittima di qualche paranoia o di qualche allucinazione.

E, tuttavia, non sempre i “pazzi” – come ci ha spiegato la recente e più avanzata psichiatria – dicono (solo) cose infondate, senza senso, perciò folli; spesso i pazzi, nella loro follia, vedono cose che i cosiddetti sani non riescono a vedere.

Allora cosa resta (se resta) della “follia” di Gesù? C’è qualcosa di essa che possiamo salvare, perché è sana, anzi più sana della cosiddetta “sanità”, che spesso altro non è che conformismo benpensante, “normalità” intesa come banale mediocrità?

Sì, a mio avviso sì!

La possiamo ritrovare nella frase “il regno di Dio è dentro di voi”.

Qui Gesù non parla di un Regno di Dio di là da questo mondo, la cui venuta avrebbe comportato la fine (tra “pianto e stridore di denti”) di questo mondo.

No, qui Gesù parla di un “regno” che ciascuno di noi può costruire già dentro di sé, qui e ora, convertendosi ad un altro modo di pensare e di agire, ad un altro modo di vivere, diverso da quello comune, prevalente in questo mondo.

Portando quindi, su questa terra, un altro mondo: un mondo di attenzione, ascolto, compassione, solidarietà, pace, giustizia, amore verso l’altro (gli altri).

Al posto del mondo attuale, nel quale prevalgono, invece, indifferenza, insofferenza, divisione, isolamento, guerra, ingiustizia, odio.

Ciò che rimane del messaggio di Gesù, della sua “buona novella”, è l’annuncio che “un altro mondo è possibile”, a cominciare dal cuore di ognuno di noi.

E già su questa terra, in questo tempo mortale.

Senza bisogno di attendere “un altro Regno”, un tempo futuro ed eterno; senza bisogno di passare prima per la morte ed una (improbabile) resurrezione.

No, ci dice Gesù (ed è questo il senso più profondo e vero del suo messaggio, quello che è rimasto nel corso dei secoli e che a mio avviso rimarrà anche per i secoli futuri) “il regno di Dio è dentro di voi”, è “già” dentro di voi.

A condizione, però, che vi convertiate alla legge dell’amore universale: “Ama il prossimo tuo come te stesso”; anzi (e persino) “Amate i vostri nemici”.

Un vero discorso… dell’altro mondo!

Da applicare, realizzare, però, già in questo mondo.

© Giovanni Lamagna

Alcune considerazioni sul Cristianesimo

Un amico mi scrive: “Secondo me, amare i propri nemici è una follia contro natura e uno dei motivi per cui il cristianesimo è in via di estinzione. Anzi il vero cristianesimo è già estinto da secoli. Quello che sopravvive è un cristianesimo fai-da-te e ipocrita.”

Qui di seguito la mia risposta.

Caro B., amare i propri nemici sarebbe contro natura, se nell’uomo ci fossero solo pulsioni che tendono alla competizione e alla sopraffazione, per cui all’invidia, all’aggressività, all’odio non si può che rispondere con altrettanto odio e aggressività; in altre parole se fosse vero che “occhio per occhio, dente per dente”.

Come forse ritieni tu. Ma – devo riconoscere – non sei certo il solo: nella storia ti hanno preceduto caterve di uomini di pensiero illustri, quali – per fare solo quattro nomi – Machiavelli, Hobbes e, per molti aspetti, Nietzsche e Freud.

Io, invece, penso (ma mi sento, a mia volta, in buona compagnia, con fior di altri illustri pensatori) che nell’uomo esistano indubbiamente le pulsioni (negative e distruttive) di cui sopra, ma esistano anche quelle (positive e costruttive) che tendono alla compassione, alla cooperazione e persino all’amore.

Il “vero cristianesimo” (come lo definisci tu) mirava a che le seconde superassero, annullassero o, quantomeno, integrassero le prime in ogni singolo uomo; perciò invitava, sollecitava, ad una vera e propria conversione del cuore.

E questo non è, certo, facile da realizzarsi, ma, almeno a mio avviso, non è neanche del tutto impossibile o, addirittura, una follia, perché radicalmente “contro natura”, come invece sostieni tu.

Il Cristianesimo, il vero Cristianesimo, si è estinto da tempo?

Questo è forse il tuo auspicio, ma a me (e, a dire il vero, non solo a me) non sembra affatto; del resto, quando sembra morto, il Cristianesimo rinasce dalle sue ceneri.

Intanto sono vive e ancora abbastanza vegete le Chiese, che, pur con tutte le loro infinite contraddizioni (e, in certi casi, persino misfatti; pensiamo agli ultimi, recenti, episodi venuti alla luce di pedofilia tra i preti), al Cristianesimo si richiamano.

Questo è, che ci piaccia o no, un dato storico inoppugnabile; ora, mi sai dire quali altre istituzioni, che abbiamo conosciuto nella Storia, sono state in grado di durare così a lungo nel tempo?

Ma soprattutto il Cristianesimo ha gettato un seme profondo, ritengo oramai indelebile, che vive nella coscienza morale di tanti, tantissimi, uomini di spirito, che ne hanno colto e si sforzano di praticare il suo messaggio essenziale.

Perfino uomini che non si sono riconosciuti ieri e non si riconoscono oggi nelle Chiese che al Cristianesimo facevano e fanno riferimento; perfino uomini (tra i quali metto immodestamente il sottoscritto) che si dichiarano non credenti, che non si riconoscono in nessuna fede religiosa.

Basti pensare a uno per tutti, a Benedetto Croce, che su questo argomento scrisse un piccolo saggio diventato poi famoso e spesso citato: “Non possiamo non dirci cristiani”; e lui non era certo un “uomo di fede”, almeno nel senso classico e tradizionale che ha assunto questa espressione.

© Giovanni Lamagna

Religione e religiosità

Ogni religione (quale più, quale meno) ha la pretesa di portare un messaggio di salvezza per l’Umanità.

Tutte le religioni o quasi tutte nascono con una vocazione apostolica, con l’intento cioè di fare proseliti.

L’uomo dotato di un’autentica spiritualità religiosa non condivide, però, né questa presunzione né questo intento.

Egli pensa che non ci sia nessuno da salvare se non se stesso; egli è già troppo impegnato a guarire le sue proprie ferite.

E’ consapevole che questo è l’unico, vero, contributo che può dare alla crescita del bene nel mondo e alla evoluzione positiva dell’Umanità.

© Giovanni Lamagna

Il messaggio delle religioni

Bisogna, a mio avviso, riscoprire il messaggio autentico delle religioni.

Liberarlo dalle loro sovrastrutture mitiche e (in molti casi) dogmatiche.

Soprattutto dalla fede nella divinità o nelle divinità (in vario modo intese, ma comunque trascendenti) e in una vita ultraterrena, che ci aspetterebbe dopo la morte.

Per farle diventare quello che nel loro nucleo originario ed essenziale, pur con milioni di contraddizioni, sono sempre state: fede nell’Umanità, amore per l’Umanità, speranza nella costruzione di un futuro migliore del presente.

© Giovanni Lamagna