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Alcune semplici domande agli attuali governanti degli Stati del mondo.

Nel Vangelo di Luca (14; 31-32) Gesù racconta la seguente parabola:

… se un re va in guerra contro un altro re, che cosa fa prima di tutto?

Si mette a calcolare se con diecimila soldati può affrontare un nemico che avanza con ventimila, non vi pare?

Se vede che non è possibile, allora manda dei messaggeri incontro al nemico; e mentre il nemico si trova ancora lontano gli fa chiedere quali sono le condizioni per la pace.”

Questa parabola di Gesù a me sembra che oggi potrebbe essere raccontata così.

Se il capo di un piccolo Stato è consapevole che non potrà reggere lo scontro armato con il capo di un grande Stato (dotato, tra l’altro, di bomba atomica), cosa fa?

Va alla guerra, magari cercando aiuti militari a capi di Stato amici, o cerca forme di mediazione e di accordo, magari cedendo parte dei suoi territori al nemico per rabbonirlo e non esserne sopraffatto o, addirittura, annientato?

Mettiamo pure che ottenga gli aiuti richiesti e vada alla guerra!

Se, dopo lunghi mesi o anni di guerra, vede che non è riuscito a respingere l’esercito nemico che ha invaso il suo territorio e che questo è soggetto ogni giorno di più a nuove e immani distruzioni e che milioni di suoi concittadini hanno abbandonato le loro terre, per rifugiarsi all’estero e sfuggire ai disastri della guerra, cosa fa, continua a chiedere nuovi e sempre più potenti aiuti militari o va ad un accordo?

E i capi di Stato, che gli hanno dato, per mesi o magari anni, aiuti militari per impedirne la sconfitta, a questo punto cosa faranno?

Manderanno nuovi aiuti in armi e alfine truppe, allargando così il conflitto da locale a continentale e poi, inevitabilmente, mondiale?

E a voi pare che il gioco valga la candela?

Qualcuno replicherà: ma allora cosa dovrebbero fare il capo del piccolo Stato aggredito e i capi di Stato che lo hanno aiutato? dovrebbero accettare le condizioni del capo dello Stato aggressore? in altre parole dovrebbero arrendersi?

Risposta alla replica: e vi pare che, invece, valga la pena, per non cedere pochi e piccoli territori contesi in una guerra locale, andare ad un conflitto mondiale e, a questo punto, inevitabilmente atomico, che significherebbe la fine molto probabile, se non proprio del tutto sicura, dell’intera Umanità?

Vi pare che il gioco valga la candela?

Vi pare che questo suggerisca la parabola evangelica?

Non solo; ma che questo suggeriscano anche il normale buonsenso e la saggezza che dovrebbe contraddistinguere chi è chiamato ad alti compiti di governo di uno Stato?

………………………………………….

p. s. con l’augurio di buona Pasqua… nonostante tutto!… con l’augurio che la Saggezza prevalga sulla Follia… con l’augurio – soprattutto – che ognuno di noi sia capace di opporsi alla Follia che in questo momento sembra stia prevalendo…

Sì, perché, se ognuno di noi saprà opporsi alla Follia dei capi di Stato che ci governano, nessun capo di Stato, nessun governo, nessun Parlamento potranno imporci la loro follia…

Se, invece, non saremo capaci di farlo, se non lo faremo in tanti, tanti di più di quelli che vogliono la guerra, nessun augurio di buona Pasqua avrà quest’anno senso: è meglio esserne consapevoli…

© Giovanni Lamagna

Sulla fraternità come concetto ed obiettivo della politica.

La fraternità – come obiettivo politico (e non solo spiritualistico/religioso) – è qualcosa in più della uguaglianza; è un surplus rispetto all’uguaglianza.

Per garantire l’uguaglianza bastano, infatti, le leggi, anzi servono innanzitutto le leggi.

L’uguaglianza è, dunque, per sua natura un principio giuridico, legato alla cittadinanza, alla polis.

Non a caso nelle aule di tribunale campeggia la scritta “Tutti i cittadini sono uguali di fronte alla Legge”.

Nelle varie società poi questo valore è nei fatti più o meno realizzato.

In alcune è del tutto negato, in altre è riconosciuto solo formalmente, ma non nella sostanza, in altre ancora l’uguaglianza sostanziale, non solo formale, ha avuto qualche – sia pur parziale, piccolissimo –  riconoscimento.

La fraternità, invece, di certo, non è un principio giuridico: non può essere, infatti, imposta con le leggi.

La fraternità è piuttosto un sentire, che il singolo individuo o avverte dentro di sé o non lo avverte.

Se non lo si avverte, non si riesce a praticarla.

E si avverte, se si è stati educati o se ci si educa ad esso.

Il sentirsi fratelli di un altro (non consanguineo) è frutto pertanto di una consapevolezza che non può essere imposta da una norma giuridica.

La consapevolezza che l’altro è un mio simile, che – al di là delle ovvie e a volte notevoli differenze individuali – siamo fatti in fondo della stessa sostanza, che siamo figli della stessa specie, che originiamo dallo stesso ceppo.

Questa consapevolezza e solo essa (nessuna legge vi si può sostituire) genera il sentimento e, di conseguenza, l’agire fraterno.

La fraternità, dunque, nasce come sentimento, come consapevolezza, ovverossia come percezione anche emotiva e non solo intellettuale, che tutti gli uomini (senza distinzioni di sesso, razza, etnia, cultura, religione, condizione economica…) appartengono alla stessa famiglia: quella umana.

E, però, per diventare reale, per non restare solo un sentimento romantico, del tutto retorico, ha bisogno di azioni, scelte, comportamenti conseguenti.

Ha bisogno innanzitutto di educazione, formazione, culturale, filosofica, spirituale, interiore, prima che politica ed esteriore.

E poi ha bisogno anche di fatti esteriori; che, ad esempio, cambino i rapporti di produzione; che la proprietà dei mezzi di produzione non stia nelle mani di pochi, dei capitalisti (com’è oggi), ma che venga diffusa, sia partecipata tra molti; anzi tra tutti i cittadini di una comunità, nessuno escluso.

Che i luoghi della produzione si trasformino in luoghi della cooperazione, dove i ruoli non siano più rigidamente distinti tra chi comanda/dirige e chi esegue/lavora, ma tutti decidano e lavorino insieme.

Infine e per chiudere questa breve e semplice riflessione, occorre dire che c’è fraternità e fraternità.

C’è una fraternità che affratella alcuni ma contro altri: è questa ad esempio la fraternità dei clan, quella che ha caratterizzato soprattutto gli inizi della storia dell’Umanità; o la fraternità che unisce i membri di una stessa classe sociale (la fraternità di cui si è incominciato a parlare dal XIX secolo in poi).

E c’è poi una fraternità che potremmo definire universale, quella che affratella gli uomini in quanto umani; ed è questa la vera fraternità, la fraternità alla quale deve aspirare una vera rivoluzione; una rivoluzione che non sia soltanto delle strutture esteriori della società, ma anche, anzi in primis, delle strutture interiori degli individui.

La fraternità che è capace di amare persino il nemico, perché si fonda sul puro riconoscimento dell’umanità dell’altro, a prescindere dai suoi comportamenti.

Non si fa in altre parole corrompere e magari omologare dall’ostilità dell’altro e manco dalla sua eventuale bestialità.

Per cui non risponde all’odio e alla violenza con uguale odio e uguale violenza (“occhio per occhio, dente per dente”; “homo homini lupus”), ma interrompe il circolo vizioso dell’odio e della violenza con l’amore e la nonviolenza, in nome di un’Umanità che non vuole tradire sé stessa, manco di fronte all’odio e alla violenza dell’altro.

© Giovanni Lamagna

Oggi non basta dirsi a favore della pace.

Oggi non basta dirsi per la pace.

Anche perché tutti dicono di esserlo.

Anche quelli che poi inviano (o sono favorevoli a inviare) armi all’Ucraina, perché – dicono – è giusto, è necessario che l’Ucraina si difenda dall’invasore russo.

“Perché – dicono – anche noi vogliamo la pace, ma una pace giusta, non una pace che sia una resa al prepotente invasore.

Mentre voi pacifisti, che siete contrari all’invio delle armi affinché l’Ucraina possa difendersi, volete una pace ingiusta, che è in realtà una resa passiva e incondizionata all’invasore.”

Per questo oggi non basta dire: “vogliamo la pace!”.

Perché bisogna dare una risposta alle ovvie, scontate, direi addirittura naturali, obiezioni dei “pacifisti” che sono favorevoli all’invio delle armi affinché l’Ucraina possa difendersi dall’invasione russa.

Occorre allora dire che noi siamo non solo pacifisti, ma siamo soprattutto nonviolenti.

E’ questo che ci distingue e divide, in modo radicale, dai pacifisti armati.

Pensiamo, cioè, con molta fermezza e convinzione, che la difesa dal nemico aggressore non debba essere quella militare ed armata, ma una resistenza attiva e nonviolenta.

Fatta di scioperi, di boicottaggi, di manifestazioni pubbliche e private di dissenso e di ribellione; non certo – dunque – una resa passiva e rassegnata al nemico invasore.

Come i pacifisti armati ci accusano di volere ed auspicare.

Costoro potranno, allora, dirci (e contestarci) che questa forma di lotta è ingenua e senza nessuna efficacia; che equivale in realtà ad una resa.

E, certo, noi non potremmo convincerli del contrario, se in loro non è maturata o fino a quando non maturerà in loro un’intima convinzione (che è una specie di fede) del contrario.

Anche se nella storia, soprattutto in quella recente, non sono mancate importanti testimonianze (vedi Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela…) dell’efficacia di una tale forma di lotta, nonviolenta.

Potremmo solo obiettare loro che il ricorso alle armi e la conseguente, molto probabile, progressiva, escalation bellica, nell’attuale situazione storica, con il rischio incombente del ricorso alle armi nucleari, ci porterà quasi sicuramente dritti, dritti verso un’ecatombe mondiale e, dunque, la probabile estinzione della nostra specie.

Hanno presente i nostri pacifisti favorevoli all’uso delle armi (fossero anche solo di difesa) un tale rischio, che, a dire il vero, è molto più di un rischio, perché è invece una quasi assoluta certezza?

Chi è quindi più ingenuo e realista?

Chi, in nome del presunto realismo, si dice contrario all’utopia nonviolenta o chi azzarda questa utopia, come unica forma di realismo e non solo di idealismo, perché mai come oggi vede reale la possibilità che la specie umana si autodistrugga con le sue stesse mani?

C’è, in altre parole, oggi, nell’attuale situazione storica, una reale alternativa alla nonviolenza (attenzione: non il semplice e generico appello alla pace!), se si vuole salvaguardare il futuro dell’Umanità e non rimuovere il problema, come, invece, la maggior parte dei “pacifisti armati” fa?

© Giovanni Lamagna

Facciamo la pace, non facciamo la guerra!

E’ venuto il tempo di gridare forte nelle piazze (reali e virtuali): “No alla guerra! No alla violenza! Non esiste guerra giusta! Non esiste violenza legittima!”

Esiste un modo altro di difendersi dalla violenza e dalle aggressioni altrui: attivamente nonviolento, disarmato.

Che non è resa passiva e codarda.

Come i più considerano: per pigrizia intellettuale o – peggio ancora – malafede.

E’ solo un altro modo di fare resistenza.

Diverso da quello (armato) a cui fecero ricorso i (pur eroici) partigiani durante la seconda guerra mondiale.

Con tutto il rispetto e la gratitudine per quei gloriosi partigiani, è venuto il momento di dire – con forza e senza mezze misure – che oramai quella forma di resistenza non è più praticabile, è divenuta anacronistica.

Di fronte alla prospettiva di un disastro nucleare, che vedrebbe coinvolti aggressori e aggrediti e non avrebbe quindi né vincitori né vinti.

Che non vedrebbe alcun trionfo della giustizia contro la (eventuale) barbarie.

E’ venuto il tempo di insegnare (per chi già le conosce) e di imparare (per chi non le conosce ancora) forme e pratiche di lotta nonviolenta.

Non di resa, quindi; ma di lotta; seppur senza armi.

O, meglio, con armi diverse da quelle che usa il nemico.

Armi che non mirano ad ammazzare a loro volta chi attenta con armi mortali alla nostra vita.

Armi che fanno r-esistere, ma non uccidono il nemico.

Perché la vita del nemico, per quanto cattivo e crudele possa essere, vale quanto la nostra.

Perché ammazzare l’Altro – anche se in nome di ragioni giuste e, persino, sacrosante – equivale ad ammazzare sé stessi, l’umano che è in noi.

Ci imbarbarisce, come la Storia – ad abundantiam – dimostra.

© Giovanni Lamagna

L’importanza di avere un ideale dell’Io.

Sono fermamente convinto che, nella vita, sia molto importante avere un Ideale dell’Io.

Camminare avendo continuamente davanti agli occhi il nostro Ideale dell’Io, cioè quello che – tenuto conto delle nostre risorse (limitate e non infinite) e delle esperienze già fatte – vogliamo diventare, aspiriamo a diventare.

E’ molto importante, quindi, mettere a fuoco – appena la nostra crescita umana ce lo consente – il nostro Ideale dell’Io; per due ragioni principali.

La prima: perché nel momento in cui cominceremo a farlo non saremo più soli; avremo almeno in parte risolto quello che Erich Fromm (ed io sono pienamente d’accordo con lui) considera il problema fondamentale dell’uomo, quello della solitudine.

Perché saremo sempre in compagnia di una sorta di maestro che ci guida, quello che io sono solito chiamare “Maestro interiore”.

L’Ideale dell’Io sarà il nostro bastone, il nostro vincastro, la nostra bussola, l’ancora a cui tenere legata la nostra barca, specie quando il mare nel quale navighiamo viene agitato dalla tempesta.

La seconda ragione: perché, avendo davanti a noi questa sorta di guida, saremo stimolati a camminare, a non stare mai fermi per troppo tempo, se non il tempo necessario per riposare un po’.

E, quindi, saremo spinti ad evolvere, a realizzare così ciò che in noi è solo potenziale e non ancora in atto.

Cosa che non potrà fare, invece, chi rinuncia ad avere questa guida e ad affidarsi a lei; chi si accontenterà di una vita statica, routinaria, se non addirittura stagnante, incapace di proiettarsi verso il futuro, anzi spesso ripiegata nostalgicamente sul proprio passato.

Da queste poche riflessioni fin qui svolte, credo sia già sufficientemente chiaro che questa mia nozione di “Ideale dell’Io” sia da distinguere da (o da aggiungere a) quelle classiche freudiane di Es, Io e Super-io.

E, comunque, fosse anche solo per un eccesso di chiarezza, ne sottolineerò ancora meglio la distinzione.

L’Ideale dell’Io non è ovviamente l’Io (può essere persino pleonastico evidenziarlo) anche se non gli si contrappone e non è una sua antitesi.

L’Ideale dell’Io è il potenziale dell’Io, quello che l’Io è in potenza ma non è ancora in atto.

Potremmo anche dire, utilizzando una terminologia lacaniana, che è il desiderio dell’Io, la sua vocazione più profonda.

O, per usare un altro termine, più vicino alla psicologia junghiana, è il suo “daimon”.

L’Ideale dell’Io non è manco l’Es, ovviamente; anche se non gli si contrappone.

L’Ideale dell’Io è, infatti, un’istanza di cui siamo almeno in parte consapevoli, mentre, come tutti sappiamo, l’Es è l’altro nome dell’inconscio.

Allo stesso tempo, però, l’Ideale dell’Io non è del tutto altra cosa dall’Es, perché ci sono parti, componenti dell’Ideale dell’Io, che sono ancora inconsce.

Che, quindi, fanno parte dell’Es, e affiorano solo un poco alla volta alla coscienza, man mano che l’Io andrà ad occupare spazi sempre più consistenti dell’Es (secondo la famosa espressione freudiana che “laddove c’è l’Es ci sarà l’Io”).

Mentre invece, al contrario di quello che si potrebbe pensare, l’Ideale dell’Io è tutt’altra cosa dal Super-io.

Il Super-io, per come lo aveva immaginato Freud, è una istanza tutta sociale e ben poco personale, anche se viene pienamente introiettata dal soggetto, dalla persona, dall’individuo.

Il Super-io è dato dall’insieme di quelle norme che vengono imposte all’individuo, a ciascuno di noi, dal contesto familiare e sociale nel quale nasciamo, cresciamo e viviamo.

La maggioranza di noi tende ad assumere tali norme in maniera (quasi) del tutto acritica e passiva; e ciò spesso è causa di sofferenza, perché tali norme molte volte si pongono in conflitto stridente con le spinte che vengono dalle pulsioni.

L’Ideale dell’Io, invece, non nega per principio le pulsioni, non intende reprimerle e meno che mai rimuoverle; vuole anzi integrarle il più possibile nell’Io, compatibilmente coi limiti imposti dal principio di realtà.

Il Super-io per sua natura è repressivo, capriccioso e autoritario, l’Ideale dell’Io per sua natura è espressivo, razionale e liberatorio.

Il Super-io tende a deprimere le nostre potenzialità, in nome di una (presunta) morale superiore, quindi assoluta e vessatoria.

L’Ideale dell’Io, invece, tende ad esaltare e stimola a realizzare al massimo le nostre potenzialità.

La sua morale è frutto di scelte autonome, libere, razionali, spesso anticonvenzionali, anticonformiste, che tengono conto del principio di realtà, ma anche di quello primario del piacere.

Il Super-io, invece, è per sua natura e definizione, dipendente, suddito, conformista, routinario, convenzionale, succube del pensiero altrui, quasi sempre più realista del Re; e nemico del piacere.

© Giovanni Lamagna

L’uomo di mondo e il sapiente.

Chi cerca il “godimento senza limiti” (avrebbe detto Lacan) o la ricchezza, il potere, la fama, la gloria (ovvero “le cose del mondo”, avrebbe detto Gesù) è nemico mortale (non può non esserlo) di chi ricerca la “sapienza”.

Il quale, per sua natura, “odia”, disprezza, invece, tutte queste cose, ovverossia “le cose del mondo”, perché il suo pensiero, il suo sguardo, il suo desiderio sono proiettati oltre, verso altro; la sua vita è dedicata all’essere e non all’avere.

Ma perché il primo odia il secondo, perché lo vede come nemico da eliminare, mentre il secondo si può “limitare” ad “odiare” le cose che il primo ama con smisurata passione e a tenersene lontano, come cose che lo lasciano indifferente?

Perché il secondo (al di là delle sue stesse intenzioni) sgama il primo, lo rivela a se stesso, ne disvela la fatuità, la frivolezza, l’inganno, su cui si fonda la sua vita, gli fa scivolare via la maschera che normalmente gli copre il volto.

Il secondo può tollerare l’esistenza del primo, non se ne sente minacciato né turbato; non ne condivide certo lo stile di vita e le abitudini, ma non pretende di scuoterlo, di cambiarlo, tutt’al più lo compatisce per le sue contraddizioni.

Il primo, invece, non può tollerare l’esistenza del secondo, perché ne è infastidito, a volte inquietato, se ne sente messo in discussione; lo deve allontanare come si allontana un tafano (il riferimento a Socrate è, ovviamente, consapevole e voluto).

Deve cancellarlo dal suo orizzonte mentale, in certi casi addirittura eliminandolo fisicamente, per non subire il suo sguardo e il giudizio, che l’altro gli getta addosso, anche senza volerlo, anche senza proporselo, per il solo e semplice fatto di esistere.

© Giovanni Lamagna

La vita umana è sacra

Per me la vita umana è sacra.

Anche quella di chi mi è nemico.

Anche quella del mio peggiore avversario politico.

La vita umana è per me – nel “tutto è relativo” del mondo – un incondizionato assoluto.

Potrei dire anche: l’unico, vero, punto fermo.

Per questo sono radicalmente contro ogni forma di violenza.

Senza “se” e senza “ma”.

© Giovanni Lamagna

Due tipi di amore.

Gli amori sono fondamentalmente di due tipi.

C’è un amore che sorge spontaneo, perché nasce dall’attrazione verso qualcuno che ci piace. Spesso qualcuno che è (anche molto) diverso da noi. Che possiede quelle caratteristiche o qualità che a noi mancano o che in noi sono carenti.

E’ un amore, quindi, che potremmo anche definire “facile”, di cui non abbiamo nessun merito. Non lo dobbiamo conquistare, né possiamo imporcelo. Esso o c’è o non c’è.

E’, in secondo luogo, un amore che tende al possesso, che si associa spesso al sentimento della gelosia.

E’, in terzo luogo, un amore tutto sommato abbastanza interessato: io ti amo, perché sono attratto da te, sono interessato alle “cose” che tu possiedi e che spero tu mi possa dare, se ricambierai il mio amore.

Potremmo far rientrare in questa categoria l’amore erotico e l’amore di amicizia, quelli che gli antichi Greci denominavano eros e philia.

Il secondo tipo di amore non è affatto spontaneo, perché non nasce dall’attrazione. Anzi talvolta si accompagna alla repulsione, se non al vero e proprio odio.

Mentre il primo tipo di amore è figlio dell’istinto o dell’emozione o del sentimento (tutte cose che si originano in noi a prescindere dalla nostra volontà e a cui è anche difficile spesso comandare, perché tendono a impossessarsi di noi e a travolgerci, imponendoci determinati comportamenti e scelte), il secondo tipo di amore è figlio della consapevolezza.

Quale consapevolezza? La consapevolezza che, al di là delle differenze (a volte anche profondissime) che ci caratterizzano, c’è un’essenza profonda che accomuna tutti quanti noi esseri umani. Al di là delle differenze di sesso, di età, di etnia, di ceto sociale, di livello culturale, di salute, di bellezza…

Questa essenza è espressa dalla parola UMANITA’.

Non è facile, però, cogliere questa essenza. Infatti, non tutti arrivano a coglierla. Molti non la colgono affatto. Essi vedono solo le differenze (accidentali) che distinguono un essere umano da un altro essere umano.

Si può arrivare a cogliere questa essenza solo attraverso un percorso che non saprei definire meglio che come un percorso di consapevolezza o, se non avessi timore di essere equivocato, come un percorso mistico.

Che ci porta a vedere come ciascuno di noi sia parte di un tutto, dal quale non può essere separato, a meno che non lo decida lui stesso.

Pena, però, gravi conseguenze per la sua salute spirituale.

Solo questa consapevolezza può condurci ad amare anche chi in prima battuta non ci è simpatico, perfino chi ci provoca ripugnanza, perfino chi ci odia e si dimostra nostro nemico.

Questo tipo di amore coincide con quello che san Paolo definiva charitas e che gli antichi Greci denominavano agape.

Solo questo amore (a pensarci bene) è veramente meritorio.

Perché è il frutto di una conquista, di un percorso di crescita spirituale. Non può essere l’esito di un sentimento spontaneo.

E perché è completamente disinteressato: non ha niente da conquistare e nulla di cui impossessarsi.

Giovanni Lamagna