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Violenza e linguaggio.

Il ricorso alla violenza fisica presuppone sempre un deficit della capacità di pensiero e di linguaggio, denuncia sempre comunque una sconfitta del pensiero e del linguaggio verbale.

Questi, infatti, per loro natura, si fondano sul ricorso all’astrazione e al simbolico, come sublimazione, trasfigurazione del reale.

Quanto più, dunque, una persona è incapace di sublimare, in altre parole di pensare, traducendo in parole, in linguaggio verbale, la sua aggressività, tanto più è incapace di dominare e arginare i suoi impulsi aggressivi.

Allora la violenza fisica, che – in alcuni casi estremi – diventa addirittura omicida, resta la sua unica forma di linguaggio e di (paradossale) comunicazione.

© Giovanni Lamagna

Anima e corpo

Di certo ciò che gli uomini – da quando è nata la filosofia – chiamano “anima” o “psiche” non è una realtà distinta, scissa o anche solo scindibile dal soma, dal corpo.

Ciò che chiamiamo “anima” o “psiche” o (con un termine ancora più vicino alle religioni) “spirito” è solo concettualmente, ma non ontologicamente, separabile, distinguibile dal corpo, dal soma o dalla materia.

Anima, psiche o spirito sono, infatti, realtà, dimensioni dell’essere, che, per definizione, non si vedono, non si toccano, non si ascoltano, non si annusano; hanno a che fare col mondo emotivo, affettivo, sentimentale, intellettuale dell’uomo, che sfugge (almeno per quello che ne sappiamo attualmente) ai nostri sensi corporei.

Ma, senza il corpo, senza il soma e senza la materia, di cui il corpo è fatto, l’anima (non solo come concetto, ma anche – cosa di certo più importante – come realtà effettuale) semplicemente evapora, si ecclissa, diventa pura astrazione.

Basti vedere cosa rimane della vita spirituale dell’uomo, quando la sua materia cerebrale si deteriora: ben poco! E cosa rimane di essa, quando l’organismo corporeo muore: ancora meno, cioè nulla!

Questa è la dimostrazione che l’anima senza il corpo è nulla.

Anche se pure il corpo senza l’anima si riduce a ben povera cosa: materia inerte, in rapida decomposizione.

Anima e corpo, dunque, non possono essere considerate, anzi non sono, due realtà autonome e, addirittura, separabili, come ci hanno voluto far credere i miti e le religioni e perfino le filosofie al loro stato nascente.

Ma costituiscono una unità indissolubile, che sarebbe meglio chiamare con un’unica parola composta, psico-soma o soma-psiche.

Anziché con due parole, come il più delle volte, ancora oggi, continuiamo pigramente a fare, nonostante i progressi che hanno compiuto le “scienze naturali” e le stesse “scienze dello spirito” (ovverossia le scienze umane), secondo la ben nota distinzione che ne fece Wilhelm Dilthey un secolo e mezzo fa.

© Giovanni Lamagna

Cosa è il Nirvana per me?

Il Nirvana, di cui parla Buddha, è lo stadio finale della meditazione.

Buddha così lo definisce “… un luogo ove non è acqua né terra, né luce né aria, né infinità spaziale né infinità razionale, in cui non c’è nessuna cosa di alcun genere e nemmeno il superamento simultaneo di rappresentazione e non rappresentazione… non è né un quaggiù né un lassù né un sito intermedio…”

Potremmo dire, dunque, è un “non-luogo”.

Ma un “non-luogo” è una pura astrazione della mente, a cui non corrisponde nessuna realtà oggettiva.

Se, infatti, vi corrispondesse qualche realtà, sarebbe un luogo come gli altri e, quindi, non potrebbe avere le caratteristiche che il Buddha attribuisce al Nirvana: quelle di un “non-luogo”.

Ma il “non-luogo”, dunque, altro non è che un’astrazione concettuale, non-esistente nella realtà, una pura invenzione della mente.

La quale, quindi, non sfugge (né potrebbe sfuggire) a se stessa.

Come, invece, Buddha auspica che avvenga nello stato del Nirvana, cioè nello stadio supremo della meditazione.

Anche a questo stadio, dunque, la mente c’è.

Se non ci fosse (la mente), anche nello stato del Nirvana, Buddha non potrebbe nemmeno descriverlo e parlarcene. Per quanto in negativo, cioè per sottrazione di attributi concreti e materiali.

Il Nirvana, allora, è da intendersi piuttosto come uno stato dell’anima. Dell’anima pacificata, che ha superato (più che la mente e i concetti, che dalla mente sono inseparabili) il turbinio delle passioni e l’inquietudine che da queste derivano.

L’anima che non ha affatto “lasciato andare il desiderio” (come pure Buddha invita a fare nella seconda delle sue nobili verità), ma non se ne lascia neppure condurre o, peggio, trascinare.

E’ lo stato dell’anima che accoglie i desideri (e non potrebbe fare altrimenti, senza perseguire – se lo facesse – una pulsione di morte), ma li guida sapiente, con discernimento, come l’auriga esperta i suoi cavalli, anche i più selvaggi e riottosi.

Giovanni Lamagna