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Erotismo diffuso e Tantra.
Teoricamente tutti gli atti, i momenti, della nostra vita possono essere vissuti come atti e momenti erotici.
Basta volerlo, desiderarlo e proporselo.
Inteso in questo senso l’erotismo può diventare una vera e propria forma di ascesi e di spiritualità, persino di mistica.
Qui non mi riferisco ovviamente al modo volgare e rozzo con cui vivono il sesso gli erotomani, i quali non sono altro che dei ginnasti del sesso.
Anzi!
Mi riferisco, al contrario, a coloro che vivono il sesso come una vera e propria esperienza di ricerca, profondamente interiore e allo stesso tempo intensamente relazionale, da vivere prima e innanzitutto dentro di sé e contemporaneamente con almeno un partner, che ne condivida però finalità, scopi, tempi e modalità.
Da questo punto di vista il Tantra – tra le esperienze che ci ha consegnato la storia dell’umanità – è quella che meglio e più compiutamente esprime questa mia concezione/visione dell’erotismo e della sessualità.
Perché è un’esperienza profondamente corporea, sensuale e, perfino, edonistica.
Ma, allo stesso tempo, profondamente spirituale, ascetica e, persino, mistica.
© Giovanni Lamagna
Mistica e filosofia.
A me, a dire il vero, ha sempre interessato più la mistica che la filosofia.
Credo, infatti, che ci sia più verità in un mistico che in un filosofo.
Almeno per come intendo io la mistica e il mistico.
Il filosofo ragiona, il mistico sperimenta.
Io sono per un filosofo che sia anche mistico (come Wittgenstein, ad esempio) o per un mistico che sia anche filosofo (come Tommaso d’Aquino, ad esempio).
Mentre non sempre (anzi quasi mai) chi è filosofo è anche mistico e chi è mistico è anche filosofo.
Laddove sarebbe auspicabile che lo fossero.
Ne guadagnerebbero sia il filosofo che il mistico.
© Giovanni Lamagna
Lo psicosoma.
Questa idea – che ebbe la sua prima importante sistematizzazione teorica con Platone – dell’anima sommo bene e del corpo sommo male, che ha poi influenzato anche gran parte dell’ascetica e della mistica cristiana, è una vera e propria aberrazione.
Teorica e pratica.
Corpo e anima, infatti, non sono due entità separate o separabili e, meno che mai, due realtà di valore gerarchico diverso.
Sono due categorie che solo cognitivamente si possono distinguere, ma che in realtà formano un unicum inseparabile, lo psicosoma.
Lo psicosoma è la caratteristica specifica della natura dell’uomo.
© Giovanni Lamagna
Etica, mistica e religione.
Kierkegaard, commentando l’episodio di Abramo, che per obbedire alla volontà di Dio, si dispone ad uccidere il figlio Isacco, “contrappone l’uomo religioso a quello etico” (Massimo Recalcati; “La legge della parola”; Einaudi 2022, p. 138).
Nel senso – evidente – che la scelta di Abramo va contro ogni etica umanistica: cosa c’è di più abominevole sul piano etico dell’ammazzare un uomo, per giunta un figlio?
E avviene in nome dell’obbedienza a Dio che è propria – la scelta fondamentale – dell’uomo religioso.
Io faccio un’ulteriore distinzione, anzi pongo un’ulteriore contrapposizione: quella tra il mistico e il religioso.
Il religioso per me è colui che obbedisce alle leggi della propria religione come norme esterne, che gli si impongono dall’esterno o, meglio, dall’alto, spesso incarnate da qualche autorità religiosa o scolpite su qualche tavola di pietra.
Il mistico, invece, è colui che obbedisce unicamente alla sua voce interiore, perché è in contatto diretto con Dio, non con le sue Leggi.
E, infatti, talvolta, il mistico va in conflitto con le norme della sua religione, con i sacerdoti e i fedeli ossequienti – ma passivi – della sua comunità.
Il mistico (come Gesù) è in grado di dire “non è l’uomo fatto per il sabato, ma è il sabato fatto per l’uomo”, nel senso che per il mistico l’amore per la Legge viene dopo un amore più grande, che è quello per la chiamata assolutamente singolare del suo Dio.
In questo senso, dunque, Abramo non è affatto uomo di religione (come lo considera Kierkegaard, in contrapposizione all’uomo dell’etica), ma è l’esemplare tipico del mistico, che va in conflitto con la stessa religione (oltre che con l’etica).
Questo per dire che “mistica” e “religione” non sono affatto la stessa cosa, come si potrebbe semplicisticamente pensare.
Anzi spesso sono addirittura opposti.
I sacerdoti del tempio erano indubbiamente uomini di religione; Gesù era, invece, un mistico.
E sappiamo bene qual fu la natura dei loro rapporti; mai idilliaca!
Alla fine i secondi richiesero addirittura la messa a morte del primo.
A significare, in maniera inequivocabile, la distinzione che c’è tra “religione” e “mistica”; in molti casi addirittura il conflitto, l’opposizione.
© Giovanni Lamagna
Esperienza mistica, concentrazione e dedizione.
L’esperienza mistica si fonda essenzialmente o in primo luogo sulla capacità di concentrazione e dedizione.
Concentrazione su e dedizione a un determinato oggetto considerato di grande (o, addirittura, di massimo) valore.
Attorno a cui unificare (o provare a unificare) tutto il resto della propria vita.
Per alcuni sarà l’arte, per altri la scienza, per altri ancora la filosofia, per altri la religione o la filantropia.
Questa esperienza richiede, dunque, disciplina e (almeno in certi momenti) fatica; in certe fasi perfino dolore e tormento.
Che non tutti sono in grado di affrontare e reggere.
Per questo, nei fatti, è un’esperienza per pochi, diciamo pure eletti.
Anche se tutti (potenzialmente) vi sono chiamati.
© Giovanni Lamagna
Mistica e sacrificio.
Pur considerandomi un mistico (almeno nelle intenzioni, nelle aspirazioni, nei desideri, non so quanto nella realtà), non ho mai condiviso l’opzione di molti mistici (forse la maggioranza) di scegliere il dolore come ascesi, come via primaria e privilegiata di perfezionamento spirituale.
Trovo in questa scelta un che di insano, che sfiora il masochismo ed in molti casi lo tocca; talvolta, anzi, ne è del tutto permeata, impregnata.
Il mistico, infatti, per me non è chiamato affatto (almeno in prima battuta) a vivere il dolore e manco una vita fatta principalmente di rinunce, come molti immaginano.
Il mistico è chiamato innanzitutto a realizzare i suoi ideali, i suoi valori, religiosi o laici che siano, a vivere quindi una vita piena, felice, niente affatto cupa e sofferente, votata essenzialmente al sacrificio.
Su questa via, sul suo percorso, indubbiamente, può incontrare (e spesso incontra, prima o poi, come del resto accade a tutti i mortali) il dolore.
Ed allora, solo allora, non deve (o almeno non dovrebbe) deviare; solo allora dovrà scegliere il dolore e, perfino, in certi casi, l’estremo sacrificio della vita, perché l’alternativa, in questo caso, sarebbe tradire i suoi ideali.
Ma la sua scelta fondamentale, primaria, (ed è questo che vorrei qui affermare con forza) rimane innanzitutto quella di rispondere alla sua vocazione, quella di non tradire i suoi ideali.
Non è affatto quella del dolore in sé, non è quella di “abbracciare la croce” per amore della croce, come dicono, ad esempio, i cristiani o, perlomeno, molti di loro.
Gesù stesso, d’altra parte, che per me è il prototipo del mistico, non scelse affatto la croce come suo ideale; egli scelse di non tradire, di non rinnegare il “vangelo” che fino ad allora aveva predicato.
E per questo (e solo per questo) accettò anche di essere messo in croce.
Ma non ne fu affatto felice o contento, come alcuni mistici a lui successivi (con l’intenzione – a mio avviso, nata da un fraintendendolo – di imitarlo) hanno inteso fare, dando origine alla cosiddetta teologia del sacrificio e della croce.
Si ricordi, infatti, che più volte nell’orto degli ulivi, Gesù, prima di essere catturato per essere sottoposto a giudizio, supplicò il Padre di risparmiargli “l’amaro calice”.
E, quando fu messo in croce, non lodò affatto il Padre per non averlo salvato, ma gli lanciò quasi un’imprecazione: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”.
Come a voler sottolineare che il suo desiderio, la sua preferenza (come del resto a me pare del tutto naturale e, perfino, ovvio) erano del tutto diversi: egli avrebbe voluto salvarsi e non morire; meno che mai morire in un modo così crudele, come fu quello di morire in croce.
© Giovanni Lamagna
Arte e mistica.
Io penso che un artista o è un mistico (pur senza averne nessuna consapevolezza) o semplicemente non è un artista.
Chi è il mistico, infatti?
E’ colui che si affaccia sugli abissi del mistero, che coglie, intravede, in qualche modo percepisce, il mistero della vita.
E a volte, ma solo a volte, lo rivela, lo manifesta, anche agli altri.
Cosa fa, invece, l’artista?
Fa, più o meno, la stessa cosa: intuisce, percepisce, illumina (fosse anche solo per un attimo) il mistero e lo rivela, lo mostra all’esterno, lo fa diventare oggetto, opera d’arte.
Così altri, noi spettatori e fruitori dell’opera, ne siamo a nostra volta toccati ed illuminati.
Le forme e i modi, in cui questa rivelazione e questa creazione avvengono (musica, parola, scultura, quadro…) sono del tutto secondarie.
L’opera d’arte (ogni autentica opera d’arte) è, quindi, una vera e propria esperienza mistica.
© Giovanni Lamagna