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Etica della responsabilità ed etica della convinzione.
Anche a non voler considerare la menzogna una virtù o, quanto meno, una dote, un’abilità, dell’uomo politico (vedi ciò che ne pensavano Platone, Machiavelli, Hannah Harendt), non si può di certo negare che l’uomo politico sia tenuto spesso alla riservatezza, alla diplomazia, in altre parole a non poter dire sempre e comunque ciò che sa o che pensa (vedi ciò che afferma Gramsci in proposito: “Quaderni del carcere”; pp. 669-700).
L’intellettuale, invece, per definizione è tenuto a dire sempre ciò che pensa, a dire cioè la verità o, meglio, quello che egli ritiene sia la verità.
Sempre e comunque, a qualunque costo; pena tradire la sua funzione specifica.
L’intellettuale non ha interessi superiori di cui tener conto, se non la verità come valore assoluto.
Da questo punto di vista il “politico” e l’ “intellettuale” hanno deontologie molto diverse.
Gli intellettuali, quindi, possono, anzi devono, costituire la coscienza critica, il pungolo morale dei politici.
Perché essi hanno una libertà, un’assenza di vincoli sociali, che i politici non hanno, non possono permettersi.
Potremmo concludere – prendendo a prestito due espressioni oramai divenute classiche di Max Weber – che, mentre i politici sono tenuti ad agire prevalentemente secondo “l’etica della responsabilità”, gli intellettuali sono tenuti ad agire prevalentemente secondo “l’etica della convinzione”.
© Giovanni Lamagna
Impulso e Maestro interiore.
Mai agire di primo impulso!
Darsi sempre il tempo – almeno un attimo – di ascoltare prima cosa ci suggerisce il nostro “Maestro interiore”.
© Giovanni Lamagna
Amore, frustrazione, aggressività, violenza.
In ogni amore c’è sempre una componente aggressiva.
Ogni amore, infatti, si deve confrontare prima o poi con la separazione/allontanamento, per quanto provvisori, dell’altro e con l’impossibilità di superarli del tutto.
Questa consapevolezza genera allora frustrazione e la frustrazione inevitabilmente l’aggressività; almeno come moto istintivo e iniziale dell’animo.
Il fatto poi che la consapevolezza e l’amore ci consentano di tenere a bada e non agire questa aggressività non vuol dire che essa non sia insorta e che in alcuni casi duri anche nel tempo.
Questa dinamica la si vede benissimo nei bambini.
Capita, infatti, che essi, mentre stanno giocando allegramente e gioiosamente con la madre o con il padre, in un’atmosfera che a volte sembra di armonia pura, perfetta, quasi magica, improvvisamente si rannuvolano e diventano aggressivi, perfino violenti.
È questo il loro modo di difendersi dall’amore, che li rende dipendenti dalle figure che amano, mentre sono ancora incapaci di gestire l’allontanamento, per quanto solo provvisorio, dei loro genitori.
A dimostrazione che amore, frustrazione, aggressività e, persino, violenza sono sentimenti che lungi dall’essere inconciliabili e del tutto estranei, molto spesso si legano l’uno all’altro e si alternano tra di loro nella stessa persona e verso la stessa persona.
© Giovanni Lamagna
Il mio antidoto alla frenesia e al logorio della vita moderna.
Vedo, constato, che, in questa nostra epoca nella quale la velocità è diventata un valore principe, la grande maggioranza delle persone corre, si affanna, fa le cose senza un attimo di tregua, senza mai tirare il fiato.
Come presa da un ingranaggio al quale non riesce a sottrarsi, ma che anzi forse le piace perfino assecondare, in certi casi addirittura autolesionisticamente e, quindi, masochisticamente.
Io, invece, a differenza di questa maggioranza, amo stare il più possibile fermo, seduto, a pensare, a riflettere, a meditare, a contemplare, a connettermi con la parte di me più intima e nascosta, con il mio io profondo.
È questo il mio status fondamentale, stavo quasi per dire il mio lavoro odierno, specie da quando sono andato in pensione e non vado più a lavorare.
L’ho scelto e lo preferisco anche a costo di apparire (anzi, essere) un po’ lento, se non proprio passivo, nelle mie reazioni agli stimoli esterni o eccessivamente statico, inattivo.
E, forse, questo mio atteggiamento, ne sono consapevole, può indurre reazioni negative nei miei confronti da parte di alcuni, che possono giudicarlo persino indolente, pigro.
Eppure niente e nessuno riesce a smuovermi, a distogliermi da questa mia postura fondamentale.
Quasi mi fossi assegnato un compito: quello di andare contro corrente, di compensare con una loro aggiunta, un loro surplus, un loro eccesso, la carenza di lettura-meditazione-contemplazione, direi addirittura di anima, di spiritualità, che a me sembra caratterizzare il muoversi frenetico, in certi casi e momenti addirittura caotico e agitato, della maggior parte dei miei simili.
Cosa è, infatti, l’agire senza il necessario distacco e, quindi, senza una quota parte di pensiero, di riflessione, di meditazione, se non un inutile e a volte persino sciocco girare a vuoto?
Non che sia tale o che giudichi tale la maggior parte delle azioni degli uomini che mi circondano; non arrivo a pensare questo; anche se talvolta, anzi in molti casi – devo confessarlo – tale pensiero mi sfiora.
È che, forse, a mio giudizio, un po’ più di riflessione prima di agire, prima di tradurre un impulso istintivo o puramente emotivo in azione, non farebbe male; anzi!
È a questa carenza, a questa deficienza di consapevolezza, che ritengo voglia (lo ammetto: forse presuntuosamente), quasi per un istinto o per un riflesso condizionato uguale e contrario, sopperire il mio non-agire, il mio “stare fermo”.
Che, forse, per altri aspetti, non lo nego, arriva ad essere anch’esso negativo, per motivi opposti, soprattutto quando eccede, quando supera un certo livello.
Come se esso (forse mi illudo in questo) potesse essere il necessario o, quantomeno, utile bilanciamento di altri eccessi; quelli che vedo prevalere attorno a me.
© Giovanni Lamagna
Le uniche regole a cui dovrebbe obbedire la nostra coscienza.
Le uniche regole che dovremmo assumere a guida delle nostre scelte e delle nostre azioni dovrebbero essere quelle che Sigmund Freud definì – in modo estremamente chiaro e preciso – con le espressioni “principio del piacere” e “principio di realtà”.
E che Lacan ribattezzò con i termini, a mio avviso abbastanza equivalenti, di “desiderio” e “Legge”, anche se forse, soprattutto il secondo, meno precisi e più equivoci di quelli usati da Freud.
In altre parole, prima di agire e di compiere qualsiasi scelta, dovremmo chiederci: “Cosa desidero davvero? Qual è il mio desiderio profondo?”.
E poi: “E’ realizzabile questo desiderio o è un irrazionale capriccio della mia fantasia, fuori e contro la realtà? Fa danni a qualcuno o è del tutto compatibile con il desiderio di altri?”
E, infine: “Anche se fa oggettivamente e indirettamente dei danni a qualcuno, sono io davvero il responsabile di questi danni?”
Una volta ottenuto il via libera dalla nostra coscienza che si è posta queste domande, dovremmo poter agire di conseguenza; liberamente, abbastanza serenamente e senza paralizzanti sensi colpa.
Spesso, invece, molti di noi assumono a regola di comportamento quanto impone loro il Super-ego; a voler usare un altro termine famoso inventato da Freud.
Cioè l’insieme delle norme che tutti abbiamo introiettato – soprattutto durante la nostra infanzia, fanciullezza e adolescenza – dall’ambiente che ci circondava, in primo luogo dalla nostra famiglia; in altre parole una coscienza eterodiretta.
In questo modo molti di noi dimostrano di non essersi mai emancipati da quelle epoche della vita (infanzia, fanciullezza e adolescenza), di non essere mai diventati veramente adulti.
In uno dei suoi scritti più famosi (la trentunesima lezione di “Introduzione alla psicoanalisi”) Freud fece ricorso ad una frase divenuta celebre: “Dove era l’Es, deve subentrare l’Io”.
Io oggi, se mi posso permettere e col massimo rispetto per il padre della psicoanalisi, aggiornerei e completerei tale sua frase con quest’altra: “Dove era il Super-io, deve subentrare l’Io”.
© Giovanni Lamagna
La psicoterapia è solo un lavoro di ricostruzione storica?
Massimo Recalcati ci ricorda che “Lacan parla dell’analisi come di una ricostruzione storica” (da “La luce delle stelle morte; Feltrinelli 2022; pag. 115).
E, indubbiamente, certamente è così: l’analisi è uno sguardo a ritroso sul nostro passato, un ripercorrere la trama della nostra vita.
Non è però – come lo stesso Recalcati ci fa notare – un semplice “ricordare”, un mettere insieme, un ricomporre frammenti del passato.
Che avrebbe poco senso e soprattutto non avrebbe alcun effetto terapeutico.
Bensì è il tentativo di ritrovare in questo lavoro di memoria un filo rosso tra i fatti ricordati e quindi un senso, un significato, una direzione di marcia.
Per verificare dove si sono annidati gli intoppi, gli ostacoli che hanno intralciato e, in qualche caso, bloccato, ostruito del tutto, il fluire sereno, se non proprio felice, della nostra esistenza.
Per provare a sbloccare, a disostruire questi grumi di cupezza e infelicità e dare alla nostra vita una nuova direzione, un nuovo slancio.
Senza questo lavoro di “ricostruzione storica” non sarebbe possibile alcun rilancio, nessuna ripartenza.
Ma senza rilancio e senza ripartenza la ricostruzione storica resterebbe fine a sé stessa, non avrebbe alcuna utilità terapeutica per la nostra vita.
Qui mi sovviene la profonda saggezza di un motto che ha segnato la mia adolescenza, quando frequentavo la Parrocchia e l’Azione cattolica: “Vedere, giudicare e agire”.
E mi vien voglia di applicarlo a quello che considero il percorso tipo, ideale di una psicoterapia.
“Vedere” in psicoterapia significa fare memoria storica della propria vita; andare a recuperare anche i ricordi rimossi, laddove evidentemente si annidavano sofferenze che ancora oggi possono rappresentare ferite non rimarginate.
“Giudicare” equivale a capire, comprendere (io non userei più oggi il termine “giudicare”), le ragioni di quelle sofferenze, i fattori che le hanno determinate e che evidentemente ancora perdurano, se continuano a farci star male.
“Agire” equivale a prendere una decisione, fare una scelta tra due alternative.
Rimanere impantanati nelle sabbie mobili dei ricordi e della sofferenza vissuta un tempo.
Oppure prendere atto del passato, accettarlo con tutte le sue ombre; per poi uscirne prendendo una strada diversa, dando una direzione nuova alla propria vita.
Vedere e capire aiuta, ma da soli non bastano; occorre poi agire, decidere, convertirsi (per dirla in un linguaggio cristiano), riconvertirsi (per dirla con un linguaggio più laico).
Se non si ha la forza, se non si trovano le energie, per compiere questo terzo passo, il lavoro dell’analisi rimane del tutto incompiuto, si riduce a vuota chiacchiera, ad uno sterile, addirittura masochistico, rimuginare fine a sé stesso.
© Giovanni Lamagna
Pancia, cuore e testa.
Sono tre – a mio avviso – i tipi fondamentali di approccio alla vita.
Il primo, quello tutto di pancia, di chi agisce in base al puro istinto.
Il secondo, tutto di cuore, di chi agisce in base alla pura emotività.
Il terzo, tutto di testa, di chi agisce in base alle sole ragioni della mente.
Credo che siano tutti e tre, se non proprio sbagliati, quantomeno parziali ed incompleti.
Credo che, per agire bene ed in maniera equilibrata, bisogna tener conto sia della pancia che del cuore che della testa.
L’approccio migliore alla vita sta in buon mix di istinto, emotività e razionalità.
© Giovanni Lamagna
Morte di Dio e coscienza morale.
Non c’è dubbio che la “morte di Dio” nella coscienza collettiva della modernità e, ancora più, della contemporaneità abbia determinato uno scombussolamento nella sensibilità morale e nella stessa vita spirituale degli individui.
Reso molto bene dalle parole che Dostoevskij mette in bocca a Ivan Karamazov: “Se Dio non esiste, allora tutto è permesso”.
E, però, voglio sperare che prima o poi gli uomini prendano consapevolezza che l’agire senza freni morali, ovverossia per fini esclusivamente individuali ed egoistici, fa del male non solo agli altri, ma in fondo anche a sé stessi.
E che quindi recuperino il senso dei valori altruistici ed universali, che stanno alla base di tutte le tradizioni religiose del mondo e di qualsiasi epoca, anche in una visione non più religiosa ma del tutto laica della vita e della morale.
© Giovanni Lamagna