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Quanti equivoci dietro la parola “amore”!

La cronaca giornaliera ma anche l’esperienza che ho dei rapporti umani mi portano a dire che in nome dell’amore si pensano e (peggio ancora!) si commettono a volte le peggiori nefandezze.

Basti pensare al caso estremo degli omicidi che avvengono in nome del presunto amore o, addirittura, (come alcuni lo definiscono) di un “eccesso di amore”.

In realtà perché l’omicida era preda della gelosia o perché non riusciva a sopportare l’abbandono o la richiesta di separazione della persona che (a parole) diceva di amare.

Il termine “amore” checché ne pensino molti e anche a prescindere dai casi estremi, prima citati, che finiscono in tragedia, è, dunque, alquanto vago e generico, anzi perfino ambiguo e contraddittorio nei suoi molteplici significati possibili.

Ogni volta che parliamo di “amore” dovremmo dunque metterci d’accordo, in premessa, su quale significato (in termini di azioni concrete) attribuiamo a tale parola e imparare a distinguere “il grano dal loglio”.

Ci sono azioni e comportamenti (per fare un altro esempio, meno estremo, ma non privo anch’esso di esiti a volte nefasti: quello del rapporto dei genitori coi loro figli) che spesso non sono affatto d’amore, anche se i più li considerano perfettamente tali.

Quanti genitori, in nome dell’amore, in realtà in nome del possesso, del desiderio a volte gravemente morboso di tenerseli stretti, di non “perderli”, impediscono ai loro figli una crescita autonoma e non favoriscono il loro distacco, la loro indipendenza!

Quanti genitori, sempre in nome dell’amore, in realtà per tenerseli buoni ed evitare quei conflitti, che a volte sono invece necessari, diciamo pure fisiologici, incapaci di porre limiti e regole, comunicano ai figli il messaggio che a loro tutto è consentito!

© Giovanni Lamagna

Le tre istanze fondamentali della psiche secondo la mia visione.

Una delle affermazioni più famose (se non la più famosa) di Sigmund Freud è senz’altro questa: “Wo Es war, soll Ich werden”; contenuta nel suo “Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni)”; 1980 Bollati Boringhieri, pag. 190; tradotta da Cesare Musatti con le parole “dov’era l’Es, deve subentrare l’Io”.

Cosa voleva dire il grande viennese con una tale affermazione?

A mio avviso, alcune cose molto semplici.

Innanzitutto questa: all’inizio, quando nasce e nei suoi primi mesi ed anni di vita, l’uomo è essenzialmente un fascio di impulsi o, come le chiama Freud, pulsioni, che in questa fase però assomigliano molto agli istinti animali.

In altre parole nei suoi primi anni di vita l’uomo è poco più di un animale, molto simile agli altri animali: è quindi Es (quasi) allo stato puro.

Poi, un poco alla volta, lentamente, in misura più o meno grande, a seconda delle sue caratteristiche innate (che potremmo anche considerare genetiche) e, soprattutto, delle condizioni ambientali (il contesto nel quale l’individuo nasce e cresce), sopravviene e si afferma in lui una seconda istanza psichica, che Freud definisce l’Io o l’Ego.

Che cos’è l’Io/Ego?

È la dimensione razionale della vita psichica, quella che fa prendere consapevolezza all’individuo, che non tutti i suoi impulsi istintuali, non tutte le sue pulsioni sono realizzabili, praticabili; o perlomeno non lo sono sempre e immediatamente.

Perché esiste una Realtà che spesso o alcune volte si oppone loro, con la quale il soggetto pulsionale deve fare i conti, che ne limita, frena i desideri, rimandando o negando del tutto (alcune volte) la loro realizzazione.

Per usare espressioni freudiane, sopravviene “il principio di realtà”, che si contrappone talvolta (potremmo anche dire: spesso) al puro “principio di piacere”.

In questo modo all’Es (le pulsioni iniziali, la libido allo stato puro, quasi del tutto animalesca) subentra l’Ego (la parte razionale, consapevole quindi dei limiti imposti alle pulsioni dall’impatto con la realtà).

Così il bambino cresce – passando per la fase turbinosa dell’adolescenza – e diventa uomo maturo.

Do per scontato (credo che anche Freud lo desse per scontato) che in alcuni individui questo processo di crescita e maturazione riesca di più, in altri di meno; alcuni individui rimangono sostanzialmente bambini, altri (pochi) diventano addirittura animali selvaggi, preda dei loro istinti più primitivi.

Io condivido sostanzialmente questa lettura che Freud fa della psiche umana, che egli integra poi, come è noto, con una terza dimensione, quella del Super-Ego (o Super-Io).

Che sarebbe – a suo avviso – una variante della coscienza, che impone all’uomo di limitare i suoi desideri, le sue pulsioni istintuali, ma diversa dal “principio di realtà”, che ha una sua consistenza intrinseca, oggettiva.

Il Super-Ego, invece, insorge – come fattore del tutto relativo e contingente – dal contesto ambientale, sociale, culturale, nel quale ciascun individuo nasce, cresce e sviluppa i suoi codici morali.

E’ diverso dall’Ego, perché questo si fonda su una norma intrinseca, il principio di realtà, che ha una sua valenza oggettiva, potremmo dire addirittura universale, uguale per tutti gli esseri umani, a prescindere dal contesto sociale e culturale nel quale nascono, crescono e vengono educati.

Il Super-Ego, invece, pone leggi, norme e regole estrinseche, imposte dal contesto sociale e culturale particolare nel quale l’individuo nasce e cresce, ha quindi una valenza per sua natura variabile e perciò relativa, niente affatto universale.

Ripeto, io in buona sostanza condivido questa topica, fondata sui tre pilastri dell’Es, dell’Io e del Super-Io, con la quale Freud dipinge, direi addirittura fotografa, la psiche umana.

E non ritengo che gli altri studiosi che sono venuti dopo di lui e si sono dedicati a ricerche analoghe siano stati in grado di contestarla sostanzialmente o efficacemente.

Ne hanno magari dato riletture un po’ diverse, modificate in parte, ma nella sostanza quella descritta da Freud è oramai universalmente riconosciuta, anche laddove vengono usati termini diversi o accentuata l’importanza ora dell’una ora dell’altra delle tre dimensioni della psiche umana individuate da Freud.

Per quanto mi riguarda, gli unici appunti che mi sento di muovere (si parva licet) alla teoria freudiana sono che 1) è forse un po’ troppo rigida e schematica, 2) non è del tutto chiara la distinzione tra Ego e Super-Ego; essa forse andrebbe precisata meglio.

1.Per quanto riguarda il primo punto, l’affermazione “dov’era l’Es, deve subentrare l’Io”, almeno per come è stata posta da Freud, lascia supporre una netta preferenza del fondatore della psicoanalisi per il secondo rispetto al primo.

Quasi che il primo (l’Es) fosse per lui solo o tutto negatività e il secondo (l’Io) solo o tutto positività.

In altre parole si coglie in Freud una netta simpatia per il concetto di necessità e quello di realtà rispetto a quelli di piacere e di desiderio.

Laddove io ritengo che tra i primi due concetti e i secondi due debba sussistere non una opposizione netta, come pare intenderla Freud, ma piuttosto una dialettica, una interrelazione feconda, positiva, fruttuosa, che a volte fa prevalere i primi a volte (perché no?) i secondi.

In altre parole, ancora: non ci sono dubbi che in molti casi la realtà oggettiva si opponga ai nostri impulsi istintivi e, quindi, ai nostri desideri; e, in questi casi, maturità vuole che l’Es si pieghi alla realtà diventando Io.

E’ immaturo, infantile, quindi insano, nevrotico, l’uomo che vuole forzare ostinatamente, direi capricciosamente, questa realtà.

Ma ci sono casi in cui può essere l’Es a modificare la (presunta) realtà, laddove questa non si mostri del tutto dura e insuperabile, ma plasmabile e riformabile.

In questo caso Es ed Io possono tranquillamente convivere, anzi coincidono, non sono necessariamente due realtà in antitesi, in conflitto, come a volte infondatamente siamo portati a ritenere.

In altre parole ancora: per me si tratta di essere senz’altro realisti (e in questo sono del tutto d’accordo col maestro viennese), ma non occorre essere più realisti del re (come talvolta a me pare Freud tendeva ad essere).

Sopravvalutando cioè l’ineluttabilità del “principio di realtà” (Ego) e svalutando (a mio avviso in modo esagerato) la forza creativa e generativa (e non sempre e solo dissipativa, dissolutiva e, quindi, distruttiva) delle pulsioni (Es).

In altre parole ancora: l’essere umano per mantenersi vivo deve indubbiamente prendere atto della Realtà, ma senza mai perdere contatto col suo mondo pulsionale, che talvolta lo spinge ad osare, a forzare la presunta realtà.

Laddove un eccesso di “realismo” castrerebbe inutilmente (mi verrebbe di dire sadicamente) i suoi desideri, mortificandone non solo il diritto al piacere, ma anche risorse e potenzialità.

2. Per quanto riguarda il secondo punto occorre a mio avviso fare una netta distinzione tra il “principio di realtà” (che fonda l’Io) e quello che io definirei il “pensiero comune” (oggi potremmo chiamarlo anche “mainstream”), che fonda il Super-Io.

Una corretta coscienza deve a mio avviso tener conto della realtà, non può prescinderne; in alcuni casi quindi deve sacrificare, in tutto o in parte, le proprie spinte e aspettative pulsionali.

L’alternativa è il godimento mortifero, di cui parlava Lacan, mortifero perché ha come esito fatale la dissipazione, se non la vera e propria dissoluzione, della psiche.

Una corretta coscienza individuale altresì non può non confrontarsi con il “pensiero comune”, quello prevalente in un determinato contesto antropologico, sociale, culturale e storico; l’alternativa sarebbe il delirio, la farneticazione e, in ultima istanza, l’ostracismo, se non il totale isolamento sociale.

Ma non ne può neanche essere acriticamente dipendente, con l’esito di diventare inautentica, nel senso heideggeriano del termine (“così si dice! così si pensa!); rinunciando alla propria autonomia e indipendenza di pensiero e di agire, in nome del confortevole conformismo del gregge.

Ci sono casi, situazioni, in cui la coscienza deve avere il coraggio di affermare il proprio desiderio (le proprie istanze pulsionali, quelle che affondano nell’Es) e non reprimerli: quando cioè essi non sono in (vero) contrasto col “principio di realtà” (Io); e anche a costo di andare contro il “pensiero comune”, prevalente (Super-Io).

In questi casi, forse, l’Io patirà un certo grado di sofferenza dovuta all’ostracismo e all’emarginazione sociali, ma ne guadagneranno la sua creatività e vitalità, il suo spirito di indipendenza e di autonomia, che sono e saranno sempre segni inequivocabili di una buona salute psichica, allo stesso livello del senso (necessario) di realtà.

© Giovanni Lamagna

Sesso e disagio

Può succedere che, dopo un atto sessuale, si provi una sorta di vago o profondo disagio, rammarico, in certi casi persino pentimento, accompagnati da una sottile, a volte malcelata, aggressività verso l’altro/a.

Rammarico/pentimento per essersi abbandonati, quasi persi nell’altro, arresi al nostro stesso desiderio.

Aggressività nei confronti dell’altro, per averci egli sedotto, rapito, sottratti alla nostra indipendenza/separazione.

E’ il nostro Io (quello malsano, ovviamente) che protesta, recalcitra, si difende.

© Giovanni Lamagna

Dipendenza, indipendenza e interdipendenza in amore

L’amore (parlo qui dell’amore, in cui c’è un coinvolgimento sessuale, ma anche dell’amore in cui questo coinvolgimento non c’è, quello che comunemente viene definito “amicizia”) vive sempre su un doppio registro, cammina su due binari, oscilla tra due poli contrapposti: quello della dipendenza e quello della indipendenza.

Per poter dire che io amo una persona, financo se la considero “solo” amica, devo sentire che ho bisogno o, quantomeno, desiderio della sua presenza.

Se una persona mi è indifferente, se posso fare tranquillamente a meno di lei, non posso certo affermare di amarla o di sentirla amica.

In questo senso l’amore denota sempre una certa qual dipendenza: io dipendo dalla persona che amo; ne sento la mancanza quando essa non c’è; la sua presenza riempie un vuoto che c’è in me e che, senza di lei, torna a manifestarsi come vuoto, come “mancanza di”.

Allo stesso tempo un eccesso di dipendenza non fa bene all’amore. Quando la dipendenza dalla persona amata diventa assoluta, non possiamo più parlare di amore, perlomeno non possiamo più parlare di amore sano: ci troviamo in presenza – diciamolo pure – di un “amore” guasto, malato, che tende a succhiare il sangue alla persona “amata”.

Se, infatti, io dipendo in maniera assoluta dalla persona che dico di amare, se non sono dotato di un minimo di autonomia e di indipendenza, cosa posso darle? In linea teorica, ma anche nella pratica, non posso darle nulla! Posso darle tutt’al più la mia ammissione, il mio riconoscimento, di aver un assoluto bisogno di lei.

Ma questo è amore? Basta questo perché si possa parlare di amore o anche di “semplice” amicizia tra due persone?

Se io dipendo in maniera assoluta da una persona, se non riesco a stare da solo e senza di lei, vuol dire che non ho nulla in me, che tutto quello che ho sta nella persona che dico di amare.

Quindi non sono in grado di darle nulla di mio, di me, di quello che sta in me, perché questo qualcosa semplicemente non esiste, non c’è.

E, se in un rapporto non sono in grado di dare qualcosa, anche poche cose, posso definire questo rapporto un rapporto d’amore o di amicizia? Con tutta evidenza no!

Ecco perché un amore (quello che possiamo definire davvero amore, in altre parole un amore sano) ha bisogno sia della dipendenza che della indipendenza.

Se io fossi già completo in me stesso, privo di ogni mancanza, hortus conclusus, del tutto autosufficiente, perché mai dovrei aver bisogno di una persona da amare? Basterei già a me stesso e non dovrei andare, quindi, in cerca di qualcuno/a con cui costruire una relazione di amore.

E, quand’anche lo facessi, forse riuscirei a dare alla persona amata molte cose, le cose che già ho, ma non riuscirei a donarle il sentimento – unico – di quello che lei è per me, di quello che lei può donare a me. Sentimento che in amore è fondamentale, costitutivo dell’amore stesso.

Se, all’opposto, sono del tutto dipendente dall’altro/a, incapace di stare da solo, senza una mia vita e – diciamolo pure – una mia solidità autonoma, se, senza l’altro, non riesco a vivere (come spesso si dicono romanticamente gli innamorati) cosa posso riuscire a dare all’altro? La mia dipendenza, il mio bisogno di lui/lei?

L’altro allora mi vivrà – fatalmente, inevitabilmente – come una specie di sanguisuga. Potrà anche darsi che all’inizio il suo narcisismo ne risulti lusingato. Ma, alla lunga, egli si sentirà oppresso e svuotato dalla mia presenza e reagirà con uno speculare e fisiologico sentimento di rifiuto e di allontanamento-distanziamento.

Per concludere dico che, forse, né il termine “dipendenza” ne quello di “indipendenza” sono adeguati a definire compiutamente lo stato d’animo di chi ama ed è riamato, in modo sufficientemente sano e corretto. Il termine più adatto (come del resto già altri hanno detto prima di me) è forse quello di “interdipendenza”.

In amore non si è (o, meglio, non si dovrebbe essere) né assolutamente dipendenti né assolutamente indipendenti. Entrambi questi due atteggiamenti sono sbagliati e, quindi, insani. In amore si è (o, meglio, si dovrebbe essere) inter-dipendenti.

Dipendenti l’uno dall’altro, desiderosi di stare insieme all’altro, di godere della sua presenza, consapevoli della propria strutturale incompletezza. Ma senza che questa dipendenza diventi esagerata, cioè morbosa ed ossessiva.

Ciascun amante dovrebbe coltivare la propria autonomia e indipendenza e allo stesso tempo essere rispettoso/a dell’autonomia e della indipendenza dell’altro/a.

Senza, però, che questa autonomia e indipendenza arrivino al punto di trasformarsi in frigidità affettiva o, addirittura, indifferenza, distacco e, financo, misantropia.

© Giovanni Lamagna

L’amore sbagliato

L’amore è “sbagliato” quando, ad esempio, è incapace di pronunciare dei no al/lla figlio/a che si pensa di amare.

O di porre dei limiti alla persona che si dice di amare.

Di conservare la propria indipendenza e di preservare l’indipendenza della persona che si pensa di amare.

L’amore è “sbagliato” quando viene immaginato come fusione, come simbiosi con la persona “amata”.

© Giovanni Lamagna

Indipendenza e odio

Per staccarsi dai propri genitori, per raggiungere la giusta indipendenza emotiva, occorre, insieme all’amore, provare anche un poco (e, in certi casi, parecchio) odio verso di loro.

Chi è incapace di questo “odio”, perché ne è impedito dai sensi di colpa, spesso rimane eternamente dipendente dal punto di vista emotivo dalle figure genitoriali.

E resta, quindi, un po’ bambino.

© Giovanni Lamagna

Amore di sé e amore per gli altri.

Qualche giorno fa sulla mia pagina facebook ho pubblicato il seguente post:

Per quanti sforzi possa fare, nessuno di noi riuscirà ad amare un altro come se stesso.

Meno che mai riuscirà ad amarlo più di se stesso.”

A molti è piaciuto e l’hanno condiviso.

Ma (non posso nasconderlo) a molti altri non è piaciuto affatto e più di uno/a l’ha criticato, anche piuttosto severamente.

Alcuni mi hanno fatto rilevare che la storia è piena di eroi che hanno dato la vita (addirittura la stessa vita fisica) per gli altri.

Molti mi hanno fatto notare che il mio ragionamento non vale per tutti. Non vale, ad esempio, per i genitori, specie per le madri, che (a meno di non essere genitori e madri perverse) amano i figli più di loro stessi.

Riconosco che c’è del vero in queste obiezioni, riconosco che esse sono molto serie e quindi sono disposto a rivedere, almeno in parte, la mia considerazione.

Con le precisazioni che seguono:

1.Gli eroi sono degli esseri umani eccezionali. Sono dunque delle eccezioni rispetto alla media degli esseri umani. E noi tutti sappiamo che le eccezioni non contraddicono in maniera assoluta e radicale, ma anzi in buona sostanza confermano, la regola generale.

Ne posso dedurre pertanto che la sostanza, se non il senso letterale, del mio post (almeno sui grandi numeri) resta valida.

  1. E’ vero, i genitori, in genere, quasi tutti i genitori, amano (o dicono di amare) i propri figli più di se stessi.

Però qua si possono fare due contro-obiezioni.

La prima è questa: i genitori, la maggior parte dei genitori, considerano i loro figli una specie di prolungamento di sé; per cui amando i figli in realtà amano se stessi e quindi non è poi tanto vero che amano i figli più di se stessi; o perlomeno è vero solo rispetto alla dimensione fisica della vita: essi sarebbero disposti a sacrificare la loro vita fisica per salvare quella dei loro figli.

Questo discorso può valere addirittura per i nonni rispetti ai loro nipoti.

La seconda contro-obiezione è la seguente: siamo proprio sicuri che quello che i genitori considerano amore per i propri figli sia vero amore, cioè amore sano, rispettoso della loro indipendenza e autonomia, e non un modo insano di considerarli (e viverli) come “cosa loro”, loro proprietà, di cui sentirsi padroni?

In questo caso mi chiedo: è proprio vero che i genitori amano i figli più di se stessi? o, attraverso i figli, non fanno altro che amare se stessi, in certi casi addirittura coltivando il proprio narcisismo?

Credo ci sia materiale sufficiente per riflettere ulteriormente su un tema come questo. Per me (che indubbiamente sono stato troppo drastico quando ho scritto il post da cui è partita questa riflessione) e per coloro che lo hanno contestato, muovendomi le obiezioni di cui ho parlato sopra e con le quali ho provato a corrispondere.

Giovanni Lamagna

La paura della solitudine.

La paura della solitudine è una brutta bestia.

Che spesso ci fotte.

Perché ci rende estremamente fragili.

E dipendenti dagli altri.

Può arrivare, in certi casi, a farci accontentare del primo rapporto che ci capita tra le mani.

Anche dei rapporti di cui non siamo soddisfatti, né tantomeno contenti.

Perfino dei rapporti che ci fanno male.

Perfino dei rapporti in cui siamo costretti a subire violenze.

Spesso “solo” morali e psicologiche. Talvolta anche (e perfino) fisiche.

La paura della solitudine ci rende poco esigenti nel selezionare le nostre relazioni.

Quindi esposti ai ricatti affettivi.

Ancora di più, esposti alla superficialità e alla banalità delle persone di cui ricerchiamo il sostegno affettivo.

Cosa che non ci aiuta certo a crescere, ad evolvere positivamente, ad affermare le nostre potenzialità.

Post scriptum.

Pier Paolo Pasolini un giorno ebbe a dire: “La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la mia solitudine, che è la mia debolezza.

Cosa voleva dire? A mio avviso questo.

L’indipendenza è una forza, ma presuppone la capacità, il coraggio di affrontare la solitudine. E questa non è una situazione comoda, facile da reggere. Perché fa emergere tutte le nostre debolezze.

Esiste però una “forza” (non lo stare mai soli, lo stare sempre in compagnia, assieme agli altri) che è, in realtà, una debolezza, perché implica la schiavitù dell’incapacità di stare da soli.

Ed esiste una debolezza (essere costretti talvolta ad affrontare la solitudine) che è in realtà una forza, perché ci dona l’indipendenza dagli altri, la libertà, la capacità di stare in piedi da soli.

Giovanni Lamagna

Le stagioni della vita.

Le stagioni della vita.

 

La vita è fatta, come sappiamo bene tutti, di stagioni.

Per la maggioranza degli uomini ci sono stagioni più belle ed altre più brutte.

La loro bellezza o bruttezza sarebbe congenita, segnata dalla biologia e fisiologia, in altre parole dalla natura.

Sempre per la maggioranza degli uomini, le stagioni più belle sarebbero l’infanzia, la fanciullezza e la giovinezza.

Quella indubitabilmente (?) più brutta la vecchiaia.

Per me, invece, che oramai le ho attraversate tutte e sono all’ultima tappa del mio viaggio, non c’è una stagione più bella e una più brutta. Ogni stagione della vita ha le sue bellezze e le sue pene, le sue gioie e i suoi dolori, le sue allegrie e le sue tristezze.

L’infanzia è, infatti, la stagione della “beata” incoscienza.

Ma anche della dipendenza dagli altri, anzi della simbiosi con le figure genitoriali, specie con la figura materna. Quindi dell’assenza totale di autonomia e libertà.

La fanciullezza è essenzialmente l’età della spensieratezza e del gioco, delle prime scoperte, quindi della meraviglia.

Ma il fanciullo è ancora fondamentalmente dipendente dagli altri, specie dai suoi genitori. Quindi è poco o per niente libero. Non può ancora godere, pertanto, se non in misura molto limitata, di beni preziosi come l’autonomia e la libertà che ne consegue.

L’adolescenza è l’età del distacco dalle figure genitoriali, quindi dell’inizio dell’indipendenza.

Ma, spesso, anche della frustrazione dei desideri, cui si collegano ribellione e rabbia.

E’ l’età della scoperta del sesso e dell’eros.

Ma anche dei turbamenti che tale scoperta comporta. Oltre che dell’inadeguatezza tra desiderio erotico/sessuale e possibilità concrete, pratiche di soddisfarlo.

La giovinezza è l’età della massima vitalità sessuale ed erotica, della fine degli studi e della ricerca del lavoro e, quindi, della piena autonomia psicologica, oltre che economica. E’, forse, l’età del massimo edonismo.

Ma anche delle ansie dovute alla propria inesperienza del mondo e alle incertezze sul proprio futuro.

La maturità è (o dovrebbe essere) l’età del pieno esercizio del sesso e dell’eros, della procreazione, del lavoro avviato e consolidato, dei riconoscimenti professionali, dell’impegno sociale e politico.

Ma è anche l’età in cui bisogna faticare di più e sperimentare, praticare il senso di responsabilità (che comporta oneri e inquietudini oltre che onori e gioie) verso di sé e,( forse, soprattutto) verso gli altri.

La vecchiaia è l’età dei bilanci, a volte tristi, a volte allegri, ma sempre in qualche modo melanconici.

E’, infine, l’età del distacco e delle separazioni, in preparazione (si spera non troppo angosciosa) del distacco e della separazione ultimi, definitivi.

Ma può essere anche (almeno per alcuni fortunati) l’età della meditazione e della contemplazione.

La vecchiaia, dunque, non è destinata ad essere fatalmente la stagione più brutta della vita. Perché può essere l’età della serenità massima o della depressione massima.

Il suo esito non è predestinato: dipende molto da come si sono vissute le stagioni della vita che la precedono.

Ognuno dunque si ritrova (si potrebbe dire un po’ cinicamente) la vecchiaia che si è meritato. O, meglio, forse, quella che è stato capace (in base al suo patrimonio genetico e al contesto familiare, sociale, ambientale in cui è vissuto) di costruirsi con gli anni dell’intera sua vita.

 

Giovanni Lamagna