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Quanti equivoci dietro la parola “amore”!
La cronaca giornaliera ma anche l’esperienza che ho dei rapporti umani mi portano a dire che in nome dell’amore si pensano e (peggio ancora!) si commettono a volte le peggiori nefandezze.
Basti pensare al caso estremo degli omicidi che avvengono in nome del presunto amore o, addirittura, (come alcuni lo definiscono) di un “eccesso di amore”.
In realtà perché l’omicida era preda della gelosia o perché non riusciva a sopportare l’abbandono o la richiesta di separazione della persona che (a parole) diceva di amare.
Il termine “amore” checché ne pensino molti e anche a prescindere dai casi estremi, prima citati, che finiscono in tragedia, è, dunque, alquanto vago e generico, anzi perfino ambiguo e contraddittorio nei suoi molteplici significati possibili.
Ogni volta che parliamo di “amore” dovremmo dunque metterci d’accordo, in premessa, su quale significato (in termini di azioni concrete) attribuiamo a tale parola e imparare a distinguere “il grano dal loglio”.
Ci sono azioni e comportamenti (per fare un altro esempio, meno estremo, ma non privo anch’esso di esiti a volte nefasti: quello del rapporto dei genitori coi loro figli) che spesso non sono affatto d’amore, anche se i più li considerano perfettamente tali.
Quanti genitori, in nome dell’amore, in realtà in nome del possesso, del desiderio a volte gravemente morboso di tenerseli stretti, di non “perderli”, impediscono ai loro figli una crescita autonoma e non favoriscono il loro distacco, la loro indipendenza!
Quanti genitori, sempre in nome dell’amore, in realtà per tenerseli buoni ed evitare quei conflitti, che a volte sono invece necessari, diciamo pure fisiologici, incapaci di porre limiti e regole, comunicano ai figli il messaggio che a loro tutto è consentito!
© Giovanni Lamagna
Sesso e disagio
Può succedere che, dopo un atto sessuale, si provi una sorta di vago o profondo disagio, rammarico, in certi casi persino pentimento, accompagnati da una sottile, a volte malcelata, aggressività verso l’altro/a.
Rammarico/pentimento per essersi abbandonati, quasi persi nell’altro, arresi al nostro stesso desiderio.
Aggressività nei confronti dell’altro, per averci egli sedotto, rapito, sottratti alla nostra indipendenza/separazione.
E’ il nostro Io (quello malsano, ovviamente) che protesta, recalcitra, si difende.
© Giovanni Lamagna
Dipendenza, indipendenza e interdipendenza in amore
L’amore (parlo qui dell’amore, in cui c’è un coinvolgimento sessuale, ma anche dell’amore in cui questo coinvolgimento non c’è, quello che comunemente viene definito “amicizia”) vive sempre su un doppio registro, cammina su due binari, oscilla tra due poli contrapposti: quello della dipendenza e quello della indipendenza.
Per poter dire che io amo una persona, financo se la considero “solo” amica, devo sentire che ho bisogno o, quantomeno, desiderio della sua presenza.
Se una persona mi è indifferente, se posso fare tranquillamente a meno di lei, non posso certo affermare di amarla o di sentirla amica.
In questo senso l’amore denota sempre una certa qual dipendenza: io dipendo dalla persona che amo; ne sento la mancanza quando essa non c’è; la sua presenza riempie un vuoto che c’è in me e che, senza di lei, torna a manifestarsi come vuoto, come “mancanza di”.
Allo stesso tempo un eccesso di dipendenza non fa bene all’amore. Quando la dipendenza dalla persona amata diventa assoluta, non possiamo più parlare di amore, perlomeno non possiamo più parlare di amore sano: ci troviamo in presenza – diciamolo pure – di un “amore” guasto, malato, che tende a succhiare il sangue alla persona “amata”.
Se, infatti, io dipendo in maniera assoluta dalla persona che dico di amare, se non sono dotato di un minimo di autonomia e di indipendenza, cosa posso darle? In linea teorica, ma anche nella pratica, non posso darle nulla! Posso darle tutt’al più la mia ammissione, il mio riconoscimento, di aver un assoluto bisogno di lei.
Ma questo è amore? Basta questo perché si possa parlare di amore o anche di “semplice” amicizia tra due persone?
Se io dipendo in maniera assoluta da una persona, se non riesco a stare da solo e senza di lei, vuol dire che non ho nulla in me, che tutto quello che ho sta nella persona che dico di amare.
Quindi non sono in grado di darle nulla di mio, di me, di quello che sta in me, perché questo qualcosa semplicemente non esiste, non c’è.
E, se in un rapporto non sono in grado di dare qualcosa, anche poche cose, posso definire questo rapporto un rapporto d’amore o di amicizia? Con tutta evidenza no!
Ecco perché un amore (quello che possiamo definire davvero amore, in altre parole un amore sano) ha bisogno sia della dipendenza che della indipendenza.
Se io fossi già completo in me stesso, privo di ogni mancanza, hortus conclusus, del tutto autosufficiente, perché mai dovrei aver bisogno di una persona da amare? Basterei già a me stesso e non dovrei andare, quindi, in cerca di qualcuno/a con cui costruire una relazione di amore.
E, quand’anche lo facessi, forse riuscirei a dare alla persona amata molte cose, le cose che già ho, ma non riuscirei a donarle il sentimento – unico – di quello che lei è per me, di quello che lei può donare a me. Sentimento che in amore è fondamentale, costitutivo dell’amore stesso.
Se, all’opposto, sono del tutto dipendente dall’altro/a, incapace di stare da solo, senza una mia vita e – diciamolo pure – una mia solidità autonoma, se, senza l’altro, non riesco a vivere (come spesso si dicono romanticamente gli innamorati) cosa posso riuscire a dare all’altro? La mia dipendenza, il mio bisogno di lui/lei?
L’altro allora mi vivrà – fatalmente, inevitabilmente – come una specie di sanguisuga. Potrà anche darsi che all’inizio il suo narcisismo ne risulti lusingato. Ma, alla lunga, egli si sentirà oppresso e svuotato dalla mia presenza e reagirà con uno speculare e fisiologico sentimento di rifiuto e di allontanamento-distanziamento.
Per concludere dico che, forse, né il termine “dipendenza” ne quello di “indipendenza” sono adeguati a definire compiutamente lo stato d’animo di chi ama ed è riamato, in modo sufficientemente sano e corretto. Il termine più adatto (come del resto già altri hanno detto prima di me) è forse quello di “interdipendenza”.
In amore non si è (o, meglio, non si dovrebbe essere) né assolutamente dipendenti né assolutamente indipendenti. Entrambi questi due atteggiamenti sono sbagliati e, quindi, insani. In amore si è (o, meglio, si dovrebbe essere) inter-dipendenti.
Dipendenti l’uno dall’altro, desiderosi di stare insieme all’altro, di godere della sua presenza, consapevoli della propria strutturale incompletezza. Ma senza che questa dipendenza diventi esagerata, cioè morbosa ed ossessiva.
Ciascun amante dovrebbe coltivare la propria autonomia e indipendenza e allo stesso tempo essere rispettoso/a dell’autonomia e della indipendenza dell’altro/a.
Senza, però, che questa autonomia e indipendenza arrivino al punto di trasformarsi in frigidità affettiva o, addirittura, indifferenza, distacco e, financo, misantropia.
© Giovanni Lamagna
L’amore sbagliato
L’amore è “sbagliato” quando, ad esempio, è incapace di pronunciare dei no al/lla figlio/a che si pensa di amare.
O di porre dei limiti alla persona che si dice di amare.
Di conservare la propria indipendenza e di preservare l’indipendenza della persona che si pensa di amare.
L’amore è “sbagliato” quando viene immaginato come fusione, come simbiosi con la persona “amata”.
© Giovanni Lamagna
Indipendenza e odio
Per staccarsi dai propri genitori, per raggiungere la giusta indipendenza emotiva, occorre, insieme all’amore, provare anche un poco (e, in certi casi, parecchio) odio verso di loro.
Chi è incapace di questo “odio”, perché ne è impedito dai sensi di colpa, spesso rimane eternamente dipendente dal punto di vista emotivo dalle figure genitoriali.
E resta, quindi, un po’ bambino.
© Giovanni Lamagna
La politica deve essere necessariamente una professione?
Il terzo mito filosofico da sfatare è quello della “politica come professione”. Che allude immediatamente e inevitabilmente al titolo (“Politik als Beruf”) della famosa conferenza tenuta da Max Weber nel 1919.
Chi intende la politica essenzialmente come una professione, infatti, spesso si rifà all’autorevolezza del grande pensatore tedesco per avvalorare la sua tesi, dimostrando di non aver letto bene o di non aver letto per niente lo scritto di Weber.
Infatti, a leggere bene il testo di Weber, non emergono affatto argomenti a sostegno della tesi che la politica debba essere terreno esclusivo degli specialisti, anzi dei professionisti della politica.
Innanzitutto perché il termine “Beruf” in tedesco può essere inteso sia come “professione” che come “vocazione”. E poi perché dalle argomentazioni che porta avanti Weber sembra che egli abbia voluto dare al termine più la seconda accezione che la prima.
E comunque qui io non voglio appoggiarmi tanto all’autorità intellettuale di Max Weber, ma provare a fare un ragionamento autonomo. Che tende a replicare a due argomenti forti di chi sostiene la tesi della “politica come professione”.
I due argomenti sono: 1) la politica richiede competenze specialistiche; 2) la politica richiede esperienza.
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Al primo argomento così replico. Certo la politica richiede competenze specialistiche. Non credo affatto che la casalinga di Voghera possa andare al governo del Paese e governare bene. Né che “uno valga uno”, come sostengono i 5 Stelle.
Ritengo, infatti, che per occuparsi di questioni economiche occorra essere degli economisti, che per occuparsi di questioni scolastiche occorra essere esperti del mondo della scuola, che per occuparsi di questioni sanitarie occorra essere esperti del mondo della sanità, che per occuparsi di infrastrutture occorra essere degli ingegneri, che per occuparsi della questione della giustizia occorra essere dei giuristi e così via…
Ma, se questo è vero, allora il punto è mettere al posto giusto, per decidere delle questioni che riguardano il bene comune (cioè la politica), le persone giuste, cioè dei tecnici competenti. E non il politico di professione, che magari non capisce niente delle questioni tecniche di cui si dovrà occupare ed ha come unico titolo quello di fare il “politico di professione”.
E non mi si venga a dire che per fare il ministro o l’assessore non occorre essere competenti delle questioni di cui si occupa un certo ministero o un certo assessorato, perché il ministro o l’assessore deve avere e dare una linea politica e non essere un tecnico esperto della materia specifica di un ministero o di un assessorato.
Perché a questa obiezione rispondo: ma la linea politica riguardante un determinato settore di problemi mica nasce in un empireo astratto, separato dalle questioni concrete; si forma, invece, analizzando le questioni concrete e confrontando, diverse ipotesi di soluzione, per poi sceglierne una, certo anche in base ad una determinata line politica, ma non certo prescindendo da un obiettivo esame tecnico dei problemi.
Se il ministro o l’assessore delle questioni concrete facenti capo al suo ministero o al suo assessorato, non capisce niente, come farà a scegliere tra le varie ipotesi di soluzione?
Non sto manco dicendo (come dicono i 5 Stelle) che le questioni sono solo tecniche e che fare scelte politiche significa dare semplicemente soluzioni tecniche ai problemi. Perché non esisterebbero soluzioni di destra, di sinistra o di centro, esisterebbero solo “le soluzioni”, come fatti esclusivamente tecnici e, quindi, neutri.
Questa è un’emerita sciocchezza, contraddetta, tra l’altro dalla stessa esperienza politica dei 5 Stelle, che hanno rotto con la Lega sulle soluzioni politiche da dare alle questioni tecnico-politiche che via, via si ponevano. Segno evidente che ai problemi si posso dare soluzioni tecniche diverse, la cui diversità è data dal loro diverso segno politico.
Sto solo dicendo (e lo ribadisco di nuovo) che le soluzioni politiche non possono prescindere da un esame tecnico dei problemi. La scelta sulla TAV (per fare un solo esempio) è di natura squisitamente e prevalentemente politica (nel senso che dipende in ultima istanza dalla visione politica dello sviluppo e di ciò che si intende per “progresso”, che ciascuna forza politica ha).
Ma non può prescindere da una valutazione (anche) tecnica dei costi (non solo economici) ed degli eventuali benefici, che l’opera comporta.
Qual è allora la mia proposta per selezionare e scegliere il personale politico destinato a ricoprire determinati ruoli politico-istituzionali?
La mia proposta è quella di “pescare” nella società civile le competenze professionali migliori nei vari settori della vita economica e culturale. E affidare loro incarichi politici, cioè istituzionali, collegati alle loro competenze.
Ma per periodi non troppo prolungati. Conclusi i quali, il “professionista politico” (che è cosa ben diversa dal “politico di professione”) tornerà a svolgere la professione per cui si è formato e che praticava prima di “entrare in politica”.
In questo caso il professionista in questione non sarebbe “prestato alla politica”, come si suol dire oggi con un’espressione a mio avviso impropria, ma sarebbe semmai “prestato alle Istituzioni”.
Nessuno di noi può essere, infatti, “prestato alla politica”, perché ciascuno di noi è “politico” nella sua essenza, è politico vita natural durante e in ogni atto che compie. Non si entra in politica, perché si è già politici per il semplice fatto di essere cittadini. Semmai si entra nelle istituzioni: che è cosa diversa.
In questo modo, secondo questo mio criterio, nessuno diventerebbe mai “politico di professione”, non ci sarebbero più i cosiddetti “professionisti della politica”, e, nello stesso tempo, la politica avrebbe a sua disposizione le professionalità migliori presenti nel campo della cittadinanza, cioè della cosiddetta “società civile”.
Questo tipo di selezione garantirebbe, oltretutto, al massimo l’autonomia e l’indipendenza dell’uomo politico, il quale non verrebbe mai a trovarsi nella condizione di quei chierici che perdono la vocazione ma sono costretti a continuare a fare i chierici perché questo è anche il loro mestiere, quello che garantisce loro il reddito con cui vivere.
E nello stesso tempo limiterebbe al massimo il rischio che la categoria degli uomini a cui affidiamo la nostra rappresentanza e, soprattutto, la gestione delle nostre Istituzioni, si costituisca, come spesso è avvenuto in passato e come avviene ancora tuttora, in corporazione separata dagli altri cittadini e, quindi, come vera e propria casta.
……………………..
Al secondo argomento (“la politica richiede esperienza”) replico con le argomentazioni che seguono.
Certo, la politica richiede esperienza!
E, infatti, le scelte politiche non possono essere improvvisate: richiedono competenze tecniche, professionali (come abbiamo visto in precedenza); e le competenze uno o ce le ha o non ce le ha, non se le può inventare solo perché fa il politico di professione.
E questo è quindi (come abbiamo già visto) un argomento non a favore, ma semmai contro il concetto di “politica come professione”.
In secondo luogo, se la politica richiede esperienza, non ci si improvvisa politici. Perché le relazioni politiche richiedono ponderazione, capacità di dialogo, di diplomazia, di compromesso, conoscenza della vita, saggezza e chi più ne ha più ne metta.
Tutte doti, qualità, che possono anche essere innate in alcuni casi (lo dubito, però), ma che nella maggior parte dei casi, si maturano col tempo, con l’avanzare dell’età.
Questo va contro un vezzo oggi molto diffuso in politica, dopo la vertiginosa ascesa del giovane Renzi (seguita da una altrettanto vertiginosa e ben meritata sua caduta): quello che, se hai superato una certa soglia di età non sei più buono per fare politica, per ricoprire incarichi istituzionali, vai rottamato.
Magari sei buono per lavorare in miniera o presso un altoforno, ma non lo sei più per la “politica”.
La mia tesi sostiene esattamente il contrario: io penso che in politica più sono alti i livelli degli incarichi istituzionali da ricoprire e più bisogna affidarli a persone di età avanzata (non sto parlando, ovviamente, degli ottuagenari, come Napolitano, ad esempio). Perché gli anziani sono, appunto, dotati di esperienza (come ci hanno insegnato bene i Romani, per i quali i “senatores” erano appunto gli anziani).
Trovo singolare, quindi, che chi sostiene la tesi del “professionismo in politica” trovi poi del tutto naturale, anzi addirittura auspicabile, che vengano affidati incarichi istituzionali (perfino nel governo nazionale) a uomini e donne quarantenni o, addirittura, trentenni.
Per me l’esperienza necessaria in politica significa innanzitutto questo: che prima di una certa età non puoi (e non dovresti) ricoprire determinati incarichi istituzionali, perché potrai anche essere uno scienziato, ma non ne hai (appunto!) l’esperienza (quantomeno quella umana).
Come dimostra, ad esempio, da ultimo ma non da sola, la vicenda politica del 33enne Di Maio.
L’esperienza, quindi, per me (anche per me) necessaria in politica, non è quella maturata nella “professione della politica” (per intenderci, come funzionario di qualche organizzazione politica), ma piuttosto quella che matura cogli anni nel corso della vita in generale e nell’ambito delle professioni specifiche in particolare.
E’ di questa esperienza che le Istituzioni hanno un imprescindibile bisogno ed è questo tipo di esperienza (e solo di questa) che non bisogna far mancare alla politica, cioè alla gestione pubblica, dei nostri quartieri, dei nostri comuni, del nostro Paese.
Della esperienza dei “funzionari di partito” possiamo, invece, benissimo fare a meno. Questi, infatti, tendono a fare più i loro interessi personali o, tutt’al più, quelli dell’organizzazione di cui sono parte, che gli interessi comuni della collettività, da cui spesso anzi si sentono “separati”, quasi fossero una casta a parte.
Giovanni Lamagna
(4, fine)
Amore di sé e amore per gli altri.
Qualche giorno fa sulla mia pagina facebook ho pubblicato il seguente post:
“Per quanti sforzi possa fare, nessuno di noi riuscirà ad amare un altro come se stesso.
Meno che mai riuscirà ad amarlo più di se stesso.”
A molti è piaciuto e l’hanno condiviso.
Ma (non posso nasconderlo) a molti altri non è piaciuto affatto e più di uno/a l’ha criticato, anche piuttosto severamente.
Alcuni mi hanno fatto rilevare che la storia è piena di eroi che hanno dato la vita (addirittura la stessa vita fisica) per gli altri.
Molti mi hanno fatto notare che il mio ragionamento non vale per tutti. Non vale, ad esempio, per i genitori, specie per le madri, che (a meno di non essere genitori e madri perverse) amano i figli più di loro stessi.
Riconosco che c’è del vero in queste obiezioni, riconosco che esse sono molto serie e quindi sono disposto a rivedere, almeno in parte, la mia considerazione.
Con le precisazioni che seguono:
1.Gli eroi sono degli esseri umani eccezionali. Sono dunque delle eccezioni rispetto alla media degli esseri umani. E noi tutti sappiamo che le eccezioni non contraddicono in maniera assoluta e radicale, ma anzi in buona sostanza confermano, la regola generale.
Ne posso dedurre pertanto che la sostanza, se non il senso letterale, del mio post (almeno sui grandi numeri) resta valida.
- E’ vero, i genitori, in genere, quasi tutti i genitori, amano (o dicono di amare) i propri figli più di se stessi.
Però qua si possono fare due contro-obiezioni.
La prima è questa: i genitori, la maggior parte dei genitori, considerano i loro figli una specie di prolungamento di sé; per cui amando i figli in realtà amano se stessi e quindi non è poi tanto vero che amano i figli più di se stessi; o perlomeno è vero solo rispetto alla dimensione fisica della vita: essi sarebbero disposti a sacrificare la loro vita fisica per salvare quella dei loro figli.
Questo discorso può valere addirittura per i nonni rispetti ai loro nipoti.
La seconda contro-obiezione è la seguente: siamo proprio sicuri che quello che i genitori considerano amore per i propri figli sia vero amore, cioè amore sano, rispettoso della loro indipendenza e autonomia, e non un modo insano di considerarli (e viverli) come “cosa loro”, loro proprietà, di cui sentirsi padroni?
In questo caso mi chiedo: è proprio vero che i genitori amano i figli più di se stessi? o, attraverso i figli, non fanno altro che amare se stessi, in certi casi addirittura coltivando il proprio narcisismo?
Credo ci sia materiale sufficiente per riflettere ulteriormente su un tema come questo. Per me (che indubbiamente sono stato troppo drastico quando ho scritto il post da cui è partita questa riflessione) e per coloro che lo hanno contestato, muovendomi le obiezioni di cui ho parlato sopra e con le quali ho provato a corrispondere.
Giovanni Lamagna
La paura della solitudine.
La paura della solitudine è una brutta bestia.
Che spesso ci fotte.
Perché ci rende estremamente fragili.
E dipendenti dagli altri.
Può arrivare, in certi casi, a farci accontentare del primo rapporto che ci capita tra le mani.
Anche dei rapporti di cui non siamo soddisfatti, né tantomeno contenti.
Perfino dei rapporti che ci fanno male.
Perfino dei rapporti in cui siamo costretti a subire violenze.
Spesso “solo” morali e psicologiche. Talvolta anche (e perfino) fisiche.
La paura della solitudine ci rende poco esigenti nel selezionare le nostre relazioni.
Quindi esposti ai ricatti affettivi.
Ancora di più, esposti alla superficialità e alla banalità delle persone di cui ricerchiamo il sostegno affettivo.
Cosa che non ci aiuta certo a crescere, ad evolvere positivamente, ad affermare le nostre potenzialità.
Post scriptum.
Pier Paolo Pasolini un giorno ebbe a dire: “La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la mia solitudine, che è la mia debolezza.”
Cosa voleva dire? A mio avviso questo.
L’indipendenza è una forza, ma presuppone la capacità, il coraggio di affrontare la solitudine. E questa non è una situazione comoda, facile da reggere. Perché fa emergere tutte le nostre debolezze.
Esiste però una “forza” (non lo stare mai soli, lo stare sempre in compagnia, assieme agli altri) che è, in realtà, una debolezza, perché implica la schiavitù dell’incapacità di stare da soli.
Ed esiste una debolezza (essere costretti talvolta ad affrontare la solitudine) che è in realtà una forza, perché ci dona l’indipendenza dagli altri, la libertà, la capacità di stare in piedi da soli.
Giovanni Lamagna