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Le religioni tradizionali e il bisogno di religiosità.

Stamattina, per caso, ho partecipato al rito della Messa domenicale: stavo con mio nipote che tra qualche mese “vuole” (tra virgolette, ovviamente) fare la Prima Comunione.

E pensavo: gli uomini (tutti gli uomini, di tutte le geografie e di tutte le storie) hanno avuto ed hanno bisogno tuttora di riti, come di miti, di simboli e, in fondo, perfino di sacro.

Anche in un mondo materialista e ateo come quello che si è venuto formando (gradualmente, molto gradualmente all’inizio, ma sempre più impetuosamente via, via) almeno a partire dal XV secolo in poi; almeno in questa parte del mondo che siamo soliti chiamare Occidente.

Tanto è vero che gli uomini non riempiono più le chiese, ma riempiono gli stadi, per eventi sportivi e spettacolari in genere, facendo dei campioni sportivi o delle star dello spettacolo i loro nuovi miti e divinità; il più delle volte del tutto inadeguati nel paragone con le antiche divinità, persino con quelle pagane.

C’è quindi, a mio avviso, e ci sarà sempre (a meno di una mutazione antropologica, che non è però da escludere e che forse è oramai alle viste: si pensi all’egemonia che potrebbe assumere in un prossimo futuro l’Intelligenza Artificiale) una domanda di riti, di miti, di simboli e persino di sacro; in altre parole di religiosità.

Alla quale però le religioni tradizionali sono oramai del tutto incapaci di dare risposte.

Stamattina, infatti, durante la Messa ascoltavo le letture del Vecchio e del Nuovo Testamento che sono state proposte; vi si parlava di un fattore, di un terreno, di una vigna, di contadini…

Si faceva, insomma, riferimento ad una società agricola, del tutto superata oramai dal mondo moderno addirittura post-industrializzato.

Il prete celebrante, inoltre, e i suoi assistenti vestivano abiti del tutto fuori moda, rispetto ai tempi attuali, e utilizzavano strumenti rituali (turibolo, incenso, candele…) del tutto inattuali.

Come è pensabile, allora, che una tale religione possa ancora seriamente parlare all’uomo moderno?

Infatti, la gente – che pure era abbastanza numerosa – partecipava al rito in maniera, a mio avviso, del tutto superficiale, se non proprio distratta.

Nessuna meraviglia, dunque, che la gran parte degli uomini moderni vadano a soddisfare il loro anelito di religiosità fuori dalle Chiese, ignorando (quasi) del tutto le religioni tradizionali.

Anche se (purtroppo!) le alternative nelle quali vanno poi a rifugiarsi sono del tutto surrogatorie e banali; in molti casi addirittura alienanti.

Ci sarebbe bisogno di ben altre risposte alla domanda di religiosità che – a mio avviso – rimane intatta, viva, pulsante anche nell’uomo contemporaneo.

Perché è una domanda eterna, è un archetipo dell’essere umano, di cui nessuno di noi potrà mai fare a meno.

Che ne sia cosciente o meno.

Ma questo è un altro paio di maniche.

© Giovanni Lamagna

Sul sapere conscio e inconscio dell’uomo e la metafora di Dio.

Jung, nel libro curato da Aniela Jaffé; “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023) tra pag. 201 e pag. 203, fa le seguenti affermazioni:

Se dico che nell’inconscio esiste un sapere assoluto (o, in termini religiosi, che Dio è onnisciente), ciò non è in contraddizione con quello che posso aggiungere, ossia che solo l’uomo o la sua coscienza possono disporre di tale sapere.

In quanto uomo, sono un essere che sa di sapere.

L’essere umano è consapevole del proprio sapere, mentre questo essere universale onnisciente non è consapevole del proprio sapere. *

Il sapere è semplicemente presente, esiste ed è insito probabilmente fin nelle più minuscole unità del cosmo e della natura.

Nella natura ci sono cose che si manifestano come se procedessero da un sapere e fossero da esso organizzato.

(…)

… per esempio… Esiste un tipo particolare di vespa che, per deporre le uova, necessita della carne di un bruco.

Che cosa fa dunque quest’insetto?

Punge un bruco in un ganglio del midollo spinale in cui è situato il centro motorio, riuscendo in tal modo a paralizzarlo.

Da dove gli viene tale conoscenza?

Le api possono persino esprimere il loro “sapere”: possono comunicarselo reciprocamente quando nelle loro danze indicano la direzione verso luoghi ricchi di nettare.

Queste sono decisioni, atti di giudizio.

Ma noi non sappiamo se gli animali stessi sappiano quello che fanno.

Lo stesso vale anche per gli uccelli migratori: sappiamo altrettanto poco se essi sappiano del loro misterioso sapersi orientare.

Di noi sappiamo di sapere, oppure di sapere fino a un certo punto.

Dove però si va oltre il nostro sapere, possono manifestarsi fenomeni precognitivi…, come avvenne, per esempio, nel mio primo incontro con Freud, o con la mia futura moglie.

(…) entrambe le volte seppi che si sarebbe verificato un incontro decisivo per il mio destino e che in me c’era un sapere che appartiene al futuro, un sapere che – per così dire – è già presente in me, senza che io ne sia consapevole.

Il mio inconscio sa già certe cose.

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*Per Jung i concetti di “divinità” e di “inconscio” non erano identici, ma erano comunque sinonimi per designare una dimensione in ultima analisi inconoscibile. (nota di Aniela Jaffé)

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In questo testo Jung si avventura in considerazioni che sono di ordine squisitamente filosofico, sulla base delle proprie esperienze di psichiatra e psicoanalista.

Vorrei cercare di enuclearle in maniera sintetica e schematica per come le ho comprese io e provare a ragionare brevemente sulla loro fondatezza, almeno per me.

1.Per Jung il sapere è molto più vasto di quello di cui dispone l’uomo, in quanto individuo e in quanto Umanità, in un dato momento storico.

È un sapere che potremmo anche definire infinito, assoluto; la figura e l’idea di Dio (essere onnisciente) ne sono la metafora, la rappresentazione simbolica.

2. Si danno così due paradossi:

 a) questo sapere totale ed infinito si manifesta solo nell’uomo, che ha però un sapere cosciente limitato;

 b) il sapere totale, infinito, assoluto (rappresentato simbolicamente dall’idea di Dio) non è consapevole del proprio sapere, lo diventa solo attraverso il progredire del sapere umano.

3. C’è, dunque, un sapere che esiste in natura, che muove concretamente la natura in tutte le sue manifestazioni (minerali, piante, animali, uomini), e che è ancora (potremmo anche dire, in gran parte) inconscio.

Ciò spiegherebbe tra l’altro i fenomeni (non rari) di premonizione o, come li chiama Jung, “precognitivi”.

4. Attraverso questi fenomeni si manifesterebbe il sapere inconscio (potenzialmente infinito, quindi “divino”) che è in ognuno di noi umani e che è molto più vasto del nostro sapere conscio.

Ma questo sapere inconscio si manifesta, ad avviso di Jung, in tante altre manifestazioni della natura, ad esempio (macroscopicamente) nel comportamento delle api o in quello degli uccelli migratori.

Cosa penso di queste tesi di Jung?

Penso che esse non fanno teoricamente una piega.

Ne concludo però (e non so se su questo lui sarebbe d’accordo) che l’idea di Dio è un’idea solo simbolica, alla quale non può essere attribuita nessuna consistenza reale e dunque metafisica, trascendente.

Dio è solo il simbolo, la proiezione simbolica, la metafora, del sapere che l’uomo e la natura intera, in tutti i suoi aspetti, già possiedono.

Anche se in gran parte solo ad un livello inconscio, e che attende prima o poi di manifestarsi, in maniera graduale, anche ad un livello conscio.

© Giovanni Lamagna

Lo spirito religioso oggi.

Lo so di dare scandalo e di stupire anche molti dei miei amici e compagni di lunga data, facendo le affermazioni che seguiranno.

Ma devo dirlo e voglio dirlo con forza: più vado avanti e più mi convinco che, se le religioni non fossero state inventate alcuni millenni orsono, bisognerebbe inventarle oggi.

Pur con tutti i loro limiti, le loro contraddizioni, gli orrori che sono stati commessi in loro nome, esse hanno, infatti, contribuito enormemente a dare un senso all’uomo.

Che, forse, senza di esse non l’avrebbe trovato.

E, anche se oggi molte religioni storiche (forse tutte) hanno perso la funzione antropologica che le ha giustificate fino all’arrivo della modernità, questo non vuol dire che sia venuta meno la domanda originaria di senso, da cui esse erano nate.

La domanda di senso, infatti, permane, anche nell’uomo del XXI secolo.

E la domanda di senso produce inevitabilmente forme di religiosità.

Che non avranno più (e per fortuna, dico io!) le caratteristiche di quelle che sono appena (e, ritengo, per sempre) tramontate, ma sono pur sempre forme di religiosità.

Coi loro simboli, i loro riti, talvolta anche i loro sacerdoti, finanche le loro divinità.

Persino la sete di potere, la brama di ricchezza, il desiderio di fama e l’esasperato consumismo attuale corrispondono, se ci pensiamo bene, a questo bisogno di senso.

E alimentano, quindi, a loro modo, forme, per quanto perverse, di religiosità.

Non è dunque – lo dico ai miei amici e compagni – la religione o, meglio, lo spirito religioso in sé che bisogna combattere e rinnegare; perché questo è ineliminabile dall’animo umano.

Anzi, esso va riscoperto e coltivato, seppure in forme completamente nuove rispetto a quelle delle religioni storiche oramai tramontate.

Occorre, invece, combattere i contenuti e le forme di alcune “religioni” moderne, che spesso si mascherano come anti-religiose, come tentativi di superamento dell’idea stessa di religione.

Mentre, invece, molte volte ne sono solo un pessimo e nefasto surrogato, ancora peggiore e più negativo delle religioni storiche, tanto disprezzate dall’uomo moderno e ancora più da quello che si definisce postmoderno.

Per recuperare – come ho già detto – il senso più vero e autentico delle antiche esperienze religiose, inventandosi nuove forme di religiosità, fondate su valori, ideali e persino utopie, all’altezza dei tempi odierni, pienamente compatibili con essi.

Capaci di coniugare, pertanto, “principio della realtà” e “ideale dell’Io”, ovverossia il restare coi piedi ben piantati per terra con la tensione – tutta umana e perciò pienamente legittima- a trascendersi.

In grado di tenere insieme scienza, filosofia e arte, sano egoismo e fraternità universale, azione e contemplazione, socialità e solitudine, lavoro e tempo libero, sesso e spiritualità.

© Giovanni Lamagna

Il messaggio delle religioni

Bisogna, a mio avviso, riscoprire il messaggio autentico delle religioni.

Liberarlo dalle loro sovrastrutture mitiche e (in molti casi) dogmatiche.

Soprattutto dalla fede nella divinità o nelle divinità (in vario modo intese, ma comunque trascendenti) e in una vita ultraterrena, che ci aspetterebbe dopo la morte.

Per farle diventare quello che nel loro nucleo originario ed essenziale, pur con milioni di contraddizioni, sono sempre state: fede nell’Umanità, amore per l’Umanità, speranza nella costruzione di un futuro migliore del presente.

© Giovanni Lamagna

I gesti della preghiera

Ci sono certi gesti che in tutte le epoche hanno significato e in tutte le latitudini significano ancora una qualche forma di preghiera, se per preghiera intendiamo un atteggiamento universale, che accomuna (possiamo dirlo) tutti gli uomini (per certi aspetti anche i laici), di fronte al mistero e, in alcuni casi, al dramma della vita.

Ne indicherò alcuni (quelli che a me sembrano i principali, perché i più ricorrenti) e cercherò poi di decodificarne sinteticamente il significato, cioè il senso che essi possono avere nel linguaggio del corpo che è loro proprio, anche dal punto di vista di chi non crede in un’entità ultraterrena, ma ne coglie comunque il valore in qualche modo universale:

  1. congiungere le mani;
  2. piegare il capo;
  3. socchiudere gli occhi;
  4. elevare gli occhi al cielo;
  5. allargare le braccia;
  6. inginocchiarsi;
  7. piegare il busto in avanti all’altezza del bacino dopo essersi inginocchiati;
  8. stendersi a terra con tutto il corpo supino in avanti;
  9. camminare.

1.Il congiungere le mani ha per me il significato simbolico di congiungere, ricomporre in unità le diverse parti di sé; esprime fisicamente un bisogno di concentrazione, di unificazione interiore, spirituale. Che ha un valore e un significato anche per chi non si rivolge a nessuna divinità.

2. Piegare il capo è un gesto di umiltà, di predisposizione all’ascolto, specie della propria verità e del proprio daimon interiore, di accettazione e, in certi casi perfino di sottomissione, al proprio destino.

3. Socchiudere gli occhi esprime il bisogno di allontanarsi, almeno momentaneamente, dal mondo visibile che ci circonda per entrare meglio in contatto col mondo invisibile che è dentro di noi. Lo può fare e talvolta lo fa anche un laico, quando vuole concentrarsi e non essere oggetto di distrazioni.

4. Elevare gli occhi al cielo sta ad indicare il bisogno di guardare a un mondo e a un destino che ci sovrasta e di cui dobbiamo tener conto nel nostro sentire, pensare e agire; può esprimere anche la semplice tensione, connaturata a tutti gli umani, non necessariamente religiosi, a trascendersi, a superare se stessi.

5. Allargare le braccia esprime il desiderio di accogliere dentro di sé l’universo mondo e allo stesso tempo il desiderio di farsi accogliere, quasi abbracciare, dallo stesso; in altre parole un desiderio di unità e di comunione.

6. L’inginocchiarsi è un gesto ancora più potente dell’inchinare il capo. E’ il segno dell’affidamento profondo al mistero che ci sovrasta e che tutti ci contiene.

7. Il piegare il busto in avanti all’altezza del bacino, dopo essersi inginocchiati, esprime con ancora maggiore forza il senso di sottomissione che già denotava l’inginocchiamento.

8. Lo stendersi a terra con tutto il corpo supino in avanti è il gesto che esprime al massimo il sentimento dell’umiltà, termine che non a caso deriva dal latino  “humus”, cioè “terra”.

Sta a significare: io non sono altra cosa dalla terra su cui sono poggiato, anzi steso: mi affido e abbandono totalmente alla volontà del Dio o del destino che mi sovrasta.

9. Anche il camminare può essere un momento e un atteggiamento di preghiera: i monaci che si recano in processione in chiesa, col loro camminare solenne, lento e consapevole già stanno pregando, ancora prima di iniziare la loro preghiera formale.

Una volta nei nostri quartieri si svolgevano ed ancora oggi in alcuni paesi si svolgono delle processioni, soprattutto nel corso di alcune festività religiose, che erano e sono a pieno titolo una forma di preghiera, un modo di manifestare anche con il corpo la propria devozione o adorazione del mistero che viene celebrato nell’occasione specifica.

Il camminare lento, consapevole, meditativo, a volte addirittura contemplativo, magari in mezzo ad un bel paesaggio e a contatto con la natura, anche per un laico è la metafora fisica di una consapevolezza tutta spirituale: siamo di passaggio su questa terra e abbiamo un compito da realizzare, quello di mettere in atto le nostre potenzialità, di evolvere, di essere sempre in cammino, appunto.

© Giovanni Lamagna

Mistica e religione

L’essenza dell’esperienza mistica per me è del tutto laica: non ha affatto bisogno di un riferimento alla divinità e alla religione, se non in senso lato.

Anzi, per me, quanto più essa è un’esperienza laica, lontana dai templi e dai preti, tanto più è un’esperienza autentica e, quindi, credibile.

Giovanni Lamagna

Il bello, il vero, il buono e l’utile.

10 agosto 2016

Il bello, il vero, il buono e l’utile.

Da sempre (o, meglio da quando gli antichi Greci cominciarono a definirne i concetti) il bello, il vero, il buono e l’utile sono visti come realtà separate ed autonome. Talvolta addirittura contrapposte.

I Greci addirittura personalizzarono questi concetti, inventandosi delle divinità, ognuna delle quali era l’incarnazione quasi archetipa dell’uno o dell’altro.

Per la cultura contemporanea poi essi sono diventati realtà ed esperienze non solo separate ed autonome l’una dall’altra, ma anche del tutto relative, perché strutturalmente e radicalmente soggettive. Ciò che è bello per me non è detto che lo sia per te e viceversa. E questo vale anche per il vero, il buono e l’utile.

La cultura contemporanea è fondamentalmente relativista. Per non dire nichilista. Il passo dal relativismo al nichilismo è, infatti, breve. E molti pensatori contemporanei lo hanno compiuto fino in fondo, traendo quella che era, a mio avviso, solo l’estrema conseguenza già implicita nella premessa relativista.

Io, invece, non mi rassegno all’idea che non ci siano degli “universalia” e che tutto sia relativo.

Me lo dice, in fondo, un’esperienza (ma ne potrei portare anche altre) abbastanza semplice e tuttavia significativa: le reazioni che hanno quasi tutte (per non dire tutte) le persone di fronte allo spettacolo della natura.

Di fronte ad un’alba o a un tramonto dorati, di fronte all’immensità del mare o alla dolcezza di un lago, di fronte allo scorrere lento di un fiume o alla impetuosità selvaggia di una cascata, di fronte ad un cielo stellato o alle dune dorate del Sahara.

Dinanzi a questi spettacoli della natura le reazioni umane possono variare nell’intensità emotiva, ma non nella sostanza del sentimento provato. Tutti noi esclamiamo la fatidica frase: che bello!

Dico di più: io non mi rassegno neppure all’idea che non ci sia un qualche nesso, una qualche interconnessione, una potenziale unità tra ciò che apprezziamo come bello o come vero o come buono o come utile.

La mia percezione delle cose è che ciò che è bello è anche vero ed è anche buono ed è anche utile. E viceversa per ciascuno di questi concetti, che consideriamo (sia pure nelle forme e con le visioni più diverse) i nostri più importanti valori di riferimento.

Giovanni Lamagna