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Freud: la varietà del mondo umano e della vita della psiche.
Freud introduce “Il disagio della civiltà” (1929) con queste parole: “Non ci si può sottrarre all’impressione che gli uomini di solito misurino con falsi metri, che aspirino al potere, al successo, alla ricchezza e ammirino queste cose negli altri, ma sottovalutino i veri valori della vita.
Pure, nel formulare un qualsiasi giudizio di questo tipo, si corre il rischio di dimenticare la varietà del mondo umano e della vita della psiche.
Vi sono taluni uomini a cui i contemporanei non negano l’ammirazione benché la loro grandezza poggi su doti e realizzazioni che sono completamente estranei agli scopi e agli ideali della massa.
Potremmo facilmente essere indotti a credere che solo una minoranza, alla fin fine, apprezza questi grandi uomini, mentre la gran maggioranza non se ne cura affatto.
Ma la cosa potrebbe non risultare così semplice, grazie alle discrepanze tra i pensieri e le azioni degli uomini e alla diversità dei desideri che li muovono.” (1)
In questo passo Freud fa delle affermazioni che potrebbero apparire scontate, ma che fatte da lui, senza alcun dubbio “uomo del disincanto”, tendente decisamente al pessimismo, se non proprio al relativismo etico, acquistano un peso particolare.
E per questo vorrei provare a metterle in evidenza, punto per punto, con parole mie.
Gli uomini tendono a dare valore a cose che non lo meritano (potere, successo, ricchezza…) ed a sottovalutare i veri valori della vita.
Se ne deve dedurre che anche per Freud non solo esistono valori veri e valori falsi, ma che i veri valori della vita per lui non sono certo il potere, il successo o la ricchezza.
Affermazione questa che, fatta da un campione del disincanto e del principio di realtà qual era indubitabilmente Freud, è per me di straordinaria (e addirittura sorprendente) importanza.
Di conseguenza, in base alla prima affermazione, gli uomini (o, meglio, la gran parte di essi) per Freud tendono a invidiare e ad emulare coloro che nella vita hanno ottenuto potere, successo, ricchezza, fama…
E, però, – Freud si premura di aggiungere – non tutti gli uomini hanno lo stesso sistema di valori e lo stesso metro di giudizio; il mondo umano è articolato, non può essere ridotto ad un ammasso informe, perché diverse e molto varie sono le storie psichiche dei diversi individui.
Succede allora che vi sono uomini i quali vengono ammirati e perfino esaltati, pur avendo e perseguendo valori che sono molto difformi da quelli della massa, cioè della gran parte degli uomini.
Qui il pensiero va spontaneamente a personaggi della storia quali Francesco d’Assisi, Gandhi, madre Teresa di Calcutta, per fare solo tre esempi; e non si può non dare ragione a Freud.
Si potrebbe, a questo punto, supporre che solo una minoranza apprezzi questo tipo di uomini, che sfuggono al modo di pensare e di vivere della maggioranza: la minoranza che si riconosce in un sistema di valori difforme da quello della maggioranza, della massa.
Ma anche questo non è del tutto vero, sembra dire Freud; perché ci sono moltissimi uomini che vivono secondo il modo di essere della massa, perseguono cioè potere, successo e ricchezza, eppure ammirano coloro che si distaccano da questo modo di vivere.
La gran parte degli uomini vivono una vita mediocre dal punto di vista dei valori etici, alcuni addirittura vivono nel vizio e nella degradazione morale, eppure ammirano coloro che vivono nella virtù e si distinguono dalla massa.
Ci sono, in altre parole, moltissimi uomini che apprezzano determinati valori – incarnati da determinati uomini eccezionali, nel senso che fanno eccezione, si distinguono dalla massa, non seguono il modo di pensare e di vivere comune – e però poi si comportano in maniera opposta ai valori che pur dicono di apprezzare, vivono cioè seguendo il gregge, la corrente.
Io sono completamente d’accordo con questa descrizione delle varie tipologie umane fatta da Freud.
Anzi ne sono grandemente ammirato, per l’articolazione, l’acutezza e la profonda capacità di leggere la realtà umana.
© Giovanni Lamagna
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- da “Freud; Il disagio della civiltà e altri saggi”; 2012, Bollati Boringhieri editore; pag.199
L’uomo animale razionale e quindi politico
Tra le definizioni che Aristotele dà dell’uomo – “zoon politikòn” (animale politico) e “zoon logon èchon” (animale razionale) quella che io ritengo prioritaria in ordine di importanza, nel senso che è la condizione dell’altra, è per me la seconda.
Anche gli altri animali, infatti, a loro modo sono esseri sociali, abituati come sono a vivere in gruppi, più o meno elementari o complessi, come lo sono, ad esempio, uno stormo di uccelli, un banco di pesci, una mandria di buoi, un gregge di pecore o un branco di lupi.
Cosa sono, infatti, questi gruppi di animali se non una forma più elementare e rozza del vivere sociale rappresentato dalle comunità costituite degli uomini, prima sotto forma di tribù e poi nella forma più complessa e articolata della polis?
Ciò che, invece, distingue in maniera radicale l’uomo dagli altri animali è la estrema complessità delle sue funzioni cerebrali, la cosiddetta razionalità (la mens, l’intelletto), che è presente, beninteso, anche negli altri animali, ma in forme sicuramente ed enormemente più primitive ed elementari.
Ciò significa che l’uomo è in grado (almeno potenzialmente: non è detto che ci riesca sempre e comunque) di giungere a livelli di consapevolezza a cui nessun altro animale è capace di arrivare (è consapevole, ad esempio, del suo destino di morte) ed è capace di un linguaggio estremamente ricco e articolato, che gli permette di dialogare, comunicare con i suoi simili a livelli inimmaginabili per gli altri animali.
La sua vita sociale e politica è di conseguenza enormemente più ricca e complessa di quella degli altri animali; almeno in potenza, come dicevo prima a proposito della razionalità.
Perché, certo, non ci possiamo nascondere le grandi contraddizioni, da cui questa vita sociale è spesso lacerata, che esplodono frequentemente in conflitti, a volte persino sanguinosi, come lo sono ad esempio le guerre e gli stermini a cui le guerre talvolta danno luogo.
Ma è appunto la sua natura di “animal rationale” che consente all’uomo di essere pienamente “animal sociale e politicus”.
Tanto è vero che, quando viene meno la prima, l’uomo torna ad essere animale della giungla, “homo homini lupus”.
© Giovanni Lamagna
Cosa distingue il filosofo dal non filosofo
Il non filosofo è colui che non si fa venire nessun dubbio sul fatto che le cose debbano andare così come vanno.
E’ colui che segue la corrente, il gregge. Nel migliore dei casi il suo istinto e le sue emozioni: insomma, i suoi impulsi primari.
Il filosofo è, invece, colui che si pone domande su tutto, che non dà mai niente per scontato.
Non che sia indeciso – come si potrebbe pensare – su tutto e, meno che mai, bloccato, paralizzato nelle sue decisioni e azioni.
Il filosofo semplicemente (a differenza da chi filosofo non è) non si fa trascinare dalla folla né dai suoi impulsi primari.
Il filosofo è colui che sempre, prima di agire, si pone la domanda: faccio bene a sentire, pensare o fare così o sarebbe meglio che sentissi, pensassi e facessi in un altro modo?
E’ colui che sospetta dei suoi istinti e, persino, delle sue emozioni e dei suoi sentimenti.
Non che ne sia privo. Non che sia freddo come il marmo e compassato come colui che ha raggiunto lo stato dell’atarassia o quello del nirvana.
No, il filosofo è un uomo come tutti gli altri, con i loro stessi istinti primordiali e le loro stesse passioni.
Solo che, più della maggioranza degli altri uomini, sottopone istinti e passioni al setaccio, al filtro continui della ragione e della consapevolezza, prima di dare loro briglia sciolta.
Sta tutta qui la sua specificità.
Tutti gli uomini, come hanno già detto e scritto molti altri e ben più autorevoli di me, sono potenzialmente filosofi; non tutti però si educano ad esserlo effettivamente.
@ Giovanni Lamagna
Chi è il mistico per me?
L’immagine più comune e diffusa del mistico è indubbiamente quella di una persona anomala, un po’ strana, forse addirittura un po’ fuori di testa, dedita ad attività di tipo misterioso e iniziatico, un uomo in ogni caso diverso dalla maggioranza degli altri uomini, che si allontana dal mondo per andare a vivere nel deserto o in qualche grotta su in montagna o, nei casi meno estremi, in qualche monastero isolato e distante dai nostri abitati.
Mi chiedo , però, se questa idea molto diffusa (potremmo dire anche stereotipata) del mistico corrisponda alla vera essenza dell’esperienza mistica o non ne ritragga solo la sua immagine più superficiale: quella che più colpisce l’immaginario collettivo o forse quella che l’ha caratterizzata indubbiamente per molte epoche storiche passate e presso varie culture.
E, di conseguenza, mi chiedo: chi è veramente un mistico? Come lo possiamo definire? Che cosa caratterizza e qualifica l’essenza della sua esperienza? Senza fermarsi quindi alla sua sola immagine esteriore e superficiale o alle sole cose che fa.
Prima di rispondere a queste domande credo sia necessario però farsene un’altra che ne è premessa: si può ancora parlare nel ventunesimo secolo di esperienza mistica? Ha ancora un senso farlo?
Premetto subito (comincio quindi a rispondere a quest’ultima domanda) che io considero l’essenza dell’esperienza mistica ancora valida e praticabile oggi, oltre che un’esperienza universale, presente e vissuta in tutte le culture.
Anzi ritengo che l’esperienza mistica, lungi dall’essere superata e oramai inattuale, sarebbe auspicabile si diffondesse e fosse praticata dal più gran numero di persone anche oggi, anzi oggi più che in passato.
Spero di riuscire ad argomentare e a motivare adeguatamente, nel seguito di questa mia riflessione, una tale affermazione, che (ne sono consapevole) può apparire curiosa e paradossale.
E vengo alla domanda iniziale: chi è dunque il mistico per me? Che cosa definisce l’essenza della sua esperienza, al di là delle connotazioni storiche e di quelle culturali che essa ha assunto nel corso del tempo e nei diversi contesti geografici e antropologici?
Comincio col dire allora che il mistico per me è un uomo come tutti gli altri. Che, però, a differenza della maggioranza degli altri uomini, si pone il problema di entrare in connessione profonda e il più possibile costante con l’Altro da sé.
Ben inteso: tutti gli uomini (non solo il mistico) hanno un qualche rapporto con l’Altro da sé. Avvertono cioè (anche se magari in una maniera molto vaga e confusa) che entro di loro abita un’altra persona. Che è allo stesso tempo uguale a sé e altro da sé. Un’interfaccia di sé.
Questo rapporto ha a che fare con l’esperienza che in psicologia viene chiamata “consapevolezza” o “introspezione”. Quell’esperienza per la quale io posso dare del tu a me stesso e colloquiare con esso, quasi fosse un’altra persona.
Che è una caratteristica tipicamente umana, quella che differenzia in maniera netta e radicale la specie umana dalle altre specie del genere animale. Nessun animale, infatti, la possiede. Se non alcuni (pochissimi) animali ed in una misura assolutamente elementare e quasi impercettibile.
E tuttavia non tutti gli uomini hanno lo stesso livello di consapevolezza.
Anzi potremmo dire che ognuno di loro ne ha uno, diverso da quello di tutti gli altri. Ogni uomo possiede il suo specifico livello di consapevolezza.
L’Umanità presenta quindi una vastissima gamma di livelli di consapevolezza.
Si va dai livelli bassissimi dell’uomo bruto, che quasi non ne possiede alcuno. La cui esistenza è quindi paragonabile più a quella degli animali che a quella degli altri uomini.
Fino ad arrivare ai livelli altissimi del mistico, appunto. Che giunge ai livelli massimi di consapevolezza possibile agli esseri umani.
Il mistico non nasce mistico, quasi che il suo essere mistico gli fosse connaturato, congenito. Ma diventa mistico. Anzi decide di diventare mistico.
Lo diventa nel momento in cui fa la scelta di curare, coltivare, far crescere il suo rapporto con l’Altro da sé.
E, a partire da questa scelta, da questa decisione iniziali, che alcuni definiscono (a mio avviso efficacemente) col termine “illuminazione”, ogni giorno diventa un poco più consapevole di sé e del mondo che lo circonda, ogni giorno stringe un rapporto più forte e più stretto con l’Altro da sé.
Il mistico, dunque, non è (in primo luogo o necessariamente) l’uomo strano, stravagante, un po’ folle, che è diventato (e ancora è) nell’immaginario collettivo. Strutturalmente diverso cioè dagli altri uomini.
Il mistico, anzi, nella mia visione delle cose non è neanche necessariamente l’uomo religioso, che dotato della fede in un Dio trascendente, dedica la sua vita (o la gran parte di essa) alla contemplazione di questo Dio che lo trascende.
Il mistico è, invece, per me un uomo come tutti gli altri, che però decide di iniziare un cammino (quello della crescita interiore, cioè della crescita dei propri livelli di consapevolezza) che la maggior parte degli altri uomini evita di iniziare. Che anzi non si pone neanche il problema di iniziare e di compiere.
Il mistico, dunque, lungi dall’essere un uomo che rinuncia alla sua umanità, è l’uomo che realizza al massimo le sue potenzialità di essere umano, cioè di crescita dei suoi livelli di consapevolezza, ovverossia di quel quid che lo differenzia dagli altri animali.
Il mistico è, infatti, colui che diventa, che mette in atto, che realizza ciò che ogni uomo è in potenza, ciò che ogni uomo è chiamato a realizzare. Ma che il più delle volte trascura di realizzare.
Oppure avvia e poi lascia incompiuto. Per pigrizia, per ignavia o per insipienza. O, più spesso, per un intreccio di tutte e tre queste cose assieme.
In altre parole e in estrema sintesi, il mistico non è, in primo luogo e nella sua essenza, il monaco che si chiude nel monastero e meno che mai l’eremita che va nella grotta in montagna.
Non lo è mai stato, ma ancora di più non lo è oggi, che queste scelte un po’stravaganti sono quasi del tutto cadute in disuso.
Il mistico è, invece, un uomo, un qualsiasi uomo, che immerso nella vita quotidiana di tutti gli altri suoi simili, decide di non lasciarsi stordire e confondere dai rumori, dal chiasso, dalla frenesia che lo circonda, per conservare ben custodito dentro di sé un foro interiore e coltivarlo dovunque e in ogni momento come il suo bene più prezioso.
Questo è il mistico per me: l’uomo realizzato, l’uomo sempre presente a se stesso, l’uomo che, pur immerso e confuso nella folla, non si lascia mai conformare dalla folla, l’uomo perfettamente inserito nella società, ma allo stesso tempo l’uomo libero, autonomo, indipendente nei suoi giudizi, mai pecora nel gregge.
Giovanni Lamagna
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Post scriptum
Etimologia dei termini “mistico”, “mistero” e “iniziato” (da Wikipedia).
Il termine italiano “mistico” deriva da quello latino mystĭcus; e questo dal greco antico μυστικός (mystikós), che in questa lingua indica ciò che è relativo ai misteri propri dei culti iniziatici.
In lingua italiana il termine “mistero” indica ciò che sfugge alle normali possibilità di conoscenza, quindi ciò è “enigmatico”, oppure ciò che è indicato come “segreto”. “Mistero” deriva dal termine latino mystērĭum, che deriva a sua volta dal greco antico mystḕrion (μυστήριον).
Ma sia il termine mystikós (μυστικός) che il termine mystḕrion (μυστήριον), derivano dal termine greco antico mýstēs (μύστης), che significa “iniziato”.
Per inquadrare correttamente l’origine greco antica di questi termini occorre, infatti, ricordare, con Walter Burkert (1989) la loro correlazione col termine latino initiatio. Dal momento che “… i misteri erano cerimonie di iniziazione, culti nei quali l’ammissione e la partecipazione dipendono da qualche rituale personale da celebrare sull’iniziando. La segretezza e, nella maggior parte dei casi, un’ambientazione notturna sono elementi concomitanti di questa esclusività.
Il termine mýstēs (μύστης) deriva da μύω (mýo; “celare”). E questo dall’atto di socchiudere gli occhi, che è tipico di chi prega, va in contemplazione e accede al mistero, al sacro. Quale entità che è allo stesso tempo la dimensione più profonda dell’essere e qualcosa di separato da esso; o, perlomeno, dalla sua manifestazione superficiale ed ordinaria. E perciò misteriosa, segreta, colta e sperimentata solo da pochi iniziati.
Viaggi
14 giugno 2015
Viaggi.
Ci sono persone che amano fare continuamente dei viaggi, girare in lungo e in largo, visitare luoghi sempre nuovi, spesso lontani, a volte molto lontani da quelli natii o di residenza abituale.
In questo dimostrano una certa audacia, talvolta addirittura coraggio. Amano cimentarsi in situazioni e contesti sempre nuovi, anche a costo, talvolta, di mettere a rischio la loro salute e, in casi estremi, perfino la vita.
Ma non di rado queste persone sono spiritualmente ferme, non hanno mai fatto un solo passo avanti dentro di loro, nella loro interiorità, da quando hanno acquisito l’uso della ragione, da quando cioè sono diventate capaci di intendere e di volere.
Sono, insomma, persone adulte, coraggiose, in movimento col corpo, ma sono rimaste bambine, paurose e ferme con l’anima.
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Ci sono altre persone che non amano molto andare in giro, muoversi, fare viaggi. Privilegiano una vita piuttosto statica dal punto di vista fisico e materiale.
Ma si muovono molto spiritualmente. Si interrogano di continuo sul senso della vita, meditano a lungo e su tutto, riflettono sulle proprie esperienze, analizzano le loro conoscenze, non danno mai niente per scontato, osano mettere in discussione i luoghi comuni e gli stereotipi, se occorre, sono disposti a cambiare se stessi, le loro abitudini, i loro stili di vita.
Rischiano e, talvolta, accettano la solitudine pur di non adattarsi al compromesso, alle ipocrisie, al conformismo del gregge.
Non si allontano quasi mai dalla loro casa e dal loro paese/città, ma vanno ogni giorno in territori nuovi dello spirito, che spesso non sono frequentati dai più, che anzi in alcuni casi non sono stati ancora esplorati da alcuno.
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Quale, tra questi due tipi di persone, viaggia di più?
Giovanni Lamagna