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Etica della responsabilità ed etica della convinzione.
Anche a non voler considerare la menzogna una virtù o, quanto meno, una dote, un’abilità, dell’uomo politico (vedi ciò che ne pensavano Platone, Machiavelli, Hannah Harendt), non si può di certo negare che l’uomo politico sia tenuto spesso alla riservatezza, alla diplomazia, in altre parole a non poter dire sempre e comunque ciò che sa o che pensa (vedi ciò che afferma Gramsci in proposito: “Quaderni del carcere”; pp. 669-700).
L’intellettuale, invece, per definizione è tenuto a dire sempre ciò che pensa, a dire cioè la verità o, meglio, quello che egli ritiene sia la verità.
Sempre e comunque, a qualunque costo; pena tradire la sua funzione specifica.
L’intellettuale non ha interessi superiori di cui tener conto, se non la verità come valore assoluto.
Da questo punto di vista il “politico” e l’ “intellettuale” hanno deontologie molto diverse.
Gli intellettuali, quindi, possono, anzi devono, costituire la coscienza critica, il pungolo morale dei politici.
Perché essi hanno una libertà, un’assenza di vincoli sociali, che i politici non hanno, non possono permettersi.
Potremmo concludere – prendendo a prestito due espressioni oramai divenute classiche di Max Weber – che, mentre i politici sono tenuti ad agire prevalentemente secondo “l’etica della responsabilità”, gli intellettuali sono tenuti ad agire prevalentemente secondo “l’etica della convinzione”.
© Giovanni Lamagna
Desiderio e responsabilità.
La coscienza si muove (o dovrebbe muoversi) sempre al confine tra desiderio e responsabilità.
Se non abita questo confine semplicemente non è o non è ancora: è in-coscienza.
Il desiderio è, per sua natura, un’istanza potenzialmente illimitata.
Nasce nell’infanzia, anzi già al momento della nascita, all’insegna del “voglio tutto, subito e sempre”.
Quindi all’insegna dell’egocentrismo, del narcisismo, del sogno allucinatorio di onnipotenza.
Ovviamente ben presto e sempre di più, anche se gradualmente, questo tipo di desiderio (oggettivamente delirante, giustificato solo dall’età) deve confrontarsi con la realtà.
Innanzitutto con la realtà della natura, che gli pone (anzi impone) dei limiti: io vorrei volare, ma non posso farlo, perché la natura non mi ha dotato di ali come agli uccelli.
Ma anche con la realtà del desiderio degli altri, che quasi mai coincide col mio e talvolta (o spesso) addirittura confligge col mio.
Di qui il senso di responsabilità.
Che (attenzione!) non è, non deve essere, rinuncia totale, sic et simpliciter, al mio desiderio.
Anzi, la prima forma di responsabilità (proprio nel senso letterale del termine, che deriva dal verbo latino “respondere”) è quella di cor-rispondere al proprio desiderio.
Lacan diceva, non a caso, che “il peccato più grande è quello di cedere sul proprio desiderio”.
Ma il mio desiderio va realizzato compatibilmente con i limiti che mi impone la Realtà – la natura delle cose – e che mi pone il desiderio dell’Altro.
E, siccome non posso aggirare, evadere, la realtà e non posso fregarmene del desiderio dell’altro (perché una delle componenti principali del desiderio è proprio quella di incontrare il desiderio altrui) ecco che desiderio e responsabilità devono viaggiare di pari passo; l’uno non può fare a meno dell’altro.
Se il desiderio vuole trovare una risposta, una soddisfazione vera, buona e giusta, che fa crescere la vita, e non sfociare in un “godimento mortifero” (come lo definiva Lacan), che invece ammazza la vita.
© Giovanni Lamagna
Auguri di Natale 2023.
Confesso che quest’anno faccio molta fatica a fare gli auguri di Natale.
Con quale coraggio possiamo in questi giorni scambiarci gli auguri, quando sappiamo che a pochi passi qui da noi, addirittura nel luogo che vide la Nascita per antonomasia, quella che ogni anno festeggiamo il 25 dicembre, muoiono, stanno morendo proprio in questo momento, migliaia e migliaia di uomini come noi?
Altro che scambiarci gli auguri, dovremmo piuttosto provare vergogna!
Vergogna per il piccolo (o grande) pezzo di responsabilità che ognuno di noi, nessuno escluso, porta in quanto sta succedendo.
Pertanto l’unico augurio che oggi riesco a fare, a voi ed a me, è quello di convertirci, di convertirci ad una cultura di pace.
Ma – attenzione! – non ad una cultura di pace generica, che vorrebbe la pace, ma questa deve (dovrebbe) sempre dipendere dagli altri.
Una cultura di pace che cominci da sé stessi; in modo unilaterale e senza condizioni; quindi dalla cultura della nonviolenza.
Che la pace sia sinonimo – per ciascuno di noi – di nonviolenza, che bandisca dalla faccia della terra tutte le guerre, anche quelle che finora sono state considerate “giuste”.
In nome dell’Amore fraterno e universale, di quell’amore di cui l’Uomo, del quale oggi ricordiamo la nascita, si fece supremo profeta.
Giovanni
Il problema riguarda SOLO gli uomini?
Nella rubrica che tiene quotidianamente sul “Corriere della Sera”, quella del 2 giugno 2023, Massimo Gramellini così scrive:
“La procuratrice della Repubblica Letizia Mannella esorta le donne a non recarsi all’ultimo appuntamento con il maschio violento. Saggia precauzione, ma più che sul comportamento delle vittime vorrei accendere l’attenzione su quello dei carnefici. Giulia Tramontano era perfettamente consapevole di quanto balordo fosse Alessandro Impagnatiello: ne aveva scoperto la doppia vita, al punto da accettare un incontro con l’altra ragazza a cui aveva ingarbugliato l’esistenza. Le due donne rimaste incinte dello stesso uomo si erano date appuntamento al bar dove Impagnatiello lavorava.
Il loro colloquio rappresenta una sorta di manifesto: mentre Giulia e l’altra ragazza parlavano, e parlando acquisivano ancora più coscienza della situazione, era colui che le aveva ingannate a rifiutare il confronto e a scappare dal locale per prepararsi a spezzare sul nascere quel patto di solidarietà femminile, assassinando una delle due «alleate» che ostacolavano il libero dipanarsi del suo egoismo. È verità mai abbastanza ribadita che la violenza sulle donne è un problema che riguarda anzitutto gli uomini. Quelli che crescono con una concezione distorta dell’amore, visto come possesso degli altri, anziché come cessione di sé. Se i genitori riuscissero a insegnare almeno questo ai figli maschi, darebbero un rinnovato senso al loro ruolo di educatori. Impresa molto difficile perché l’educazione sentimentale non si trasmette con i libri e tantomeno con le prediche. Funziona solo con l’esempio.”
Capisco quello che dice Gramellini e lo condivido in buona parte, ma non condivido del tutto il suo pensiero e l’analisi che vi sottende.
A mio sommesso avviso, (lo dico, con la voce flebile e con la coda in mezzo alle gambe, che dovremmo avere sempre noi maschi, quando parliamo di questi argomenti) il problema sicuramente “riguarda anzitutto gli uomini”, ma non riguarda SOLO gli uomini, riguarda ANCHE le donne.
Se, infatti, alcune donne, ancora oggi, si fanno abbindolare da uomini simili, vuol dire che hanno un problema pure loro: questo se vogliamo chiamare le cose col loro nome.
L’assassino di cui stiamo parlando (come tutti i maschi che compiono femminicidi) è indubbiamente un “mostro”, ma i mostri non sono del tutto altro da noi, come i pazzi non sono del tutto altro da noi; questo ci ha insegnato Basaglia.
I mostri stanno anche dentro ognuno di noi; quindi i mostri stanno anche dentro le povere donne che evidentemente se li vanno a cercare anche fuori di loro; non sembri oltraggioso tale giudizio, anche se mi rendo conto di primo acchito può sembrare tale.
Non si spiegano altrimenti l’infatuazione che le prende di fronte a certi uomini e l’accondiscendenza con cui soggiacciono alle loro angherie, a volte per moltissimo tempo, prima di finire come finiscono.
Ovviamente qui non intendo minimamente assolvere il maschio assassino e quasi rivoltare le responsabilità; anche se (come sempre) prima di emettere condanne sarebbe importante cercare di capire e analizzare.
Sto solo dicendo che (come da più di un secolo ha scoperto e dimostrato la psicoanalisi) c’è un filo di complicità che lega sempre vittima e carnefice.
Per cui bisogna curare (e in maniera possibilmente preventiva, anche se mi rendo conto la cosa non è semplice) sia la vittima che il carnefice.
Non ha senso, quindi, dire (come fa Gramellini in maniera così perentoria e, a mio avviso, un po’ semplicistica, così noi maschi ci facciamo belli con le donne) che il problema è SOLO degli uomini; ovviamente degli ALTRI uomini, perché noi (che scriviamo) siamo diversi, non abbiamo nulla a che fare con i mostri.
Il problema, invece, come sempre in questi casi, è un problema che riguarda le relazioni e le relazioni spesso sono malate, anche quelle che non finiscono in maniera così tragica; occorre prenderne atto.
E, quando sono malate, non lo sono mai solo per responsabilità di uno/a.
Quando le relazioni sono malate le responsabilità sono sempre (in qualche misura; non sto dicendo certo che lo sono – sempre – al 50% e al 50%) di entrambe le persone coinvolte nella relazione.
In questo discorso (il mio può sembrare freddo e, quindi, cinico) non ci devono fare velo la (persino) ovvia, naturale, giusta, sacrosanta pietà che proviamo (e dobbiamo provare) per la vittima; e lo sdegno, il senso di rivolta morale che di conseguenza proviamo verso l’assassino.
Altrimenti rischiamo di cadere nella retorica, che è dannosa non solo perché non ci fa vedere le cose per quelle che sono, ma tende a rimuovere i mostri che sono in ognuno di noi; anche se l’intenzione vorrebbe essere tutt’altra.
© Giovanni Lamagna
La psicoterapia non è un ballo di gala.
Lo confesso, mi danno su ai nervi quegli psicoterapeuti che ai loro pazienti, a prescindere dal tipo di problemi che questi presentano loro, dicono sempre: “Va tutto bene! Sei tutto ok!”
Alla Eric Berne, per intenderci; anche se Eric Berne con queste espressioni, francamente banali, forse non voleva intendere quello che poi molti (fraintendendolo) hanno inteso leggendo i suoi libri.
Questi psicoterapeuti, infatti, mi fanno pensare ad un oncologo che, di fronte ad un paziente con un carcinoma, gli dicesse: “Non ti preoccupare, stai bene, va tutto bene!”; e lo rimandasse a casa, tranquillo e sereno, senza prescrivergli alcuna terapia, né tantomeno prendere in considerazione un intervento chirurgico.
Sappiamo tutti a quale sorte crudele sarebbe fatalmente destinato un paziente che si rivolgesse ad un oncologo che si comportasse così.
D’altra parte, se io vado da uno psicoterapeuta, non sto certo bene, non sto certo ok! Altrimenti che ci andrei a fare?
Allora che senso ha che lo psicoterapeuta, al quale mi rivolgo, mi rassicuri dicendomi: “Stai bene! Va tutto ok!”?
Se non soffrissi di qualche disturbo psichico, più o meno grave, se non vivessi dei conflitti irrisolti, se quindi stessi realmente bene, mica andrei in psicoterapia?
Se non altro per i costi che comporta: mi risparmierei volentieri il tempo e il denaro che essa mi richiede.
Ora con questo non sto dicendo affatto che uno psicoterapeuta dovrebbe intimorire e scoraggiare il suo paziente ancor prima che egli inizi un percorso terapeutico, prospettandogli un quadro disastroso e insanabile della sua situazione psichica.
Allo stesso modo che un oncologo non deve/non dovrebbe certo “tramortire” psicologicamente con una diagnosi senza speranze il suo paziente.
E, anche quando la diagnosi fosse tale, certo anche un oncologo deve/dovrebbe saperla comunicare al paziente coi modi e il tratto giusto, dimostrandogli empatia, vicinanza e calore umano.
Ma una cosa è non atterrire, anzi incoraggiare il proprio paziente, fargli sentire la propria vicinanza e il proprio sostegno, altra cosa è dargli un quadro falso, non realistico, delle sue condizioni (fisiche o psichiche, qui fa poca differenza) illudendolo.
In altre parole e per concludere, io penso che uno psicoterapeuta bravo e competente dovrebbe, come suo primo compito, aiutare il suo paziente a prendere consapevolezza dei suoi problemi e a metterli a fuoco, per poterli affrontare adeguatamente e provare a risolverli.
Non dovrebbe, quindi, banalizzarli, con la malintesa idea di dare in questo modo sostegno e conforto al paziente, che giunge da lui sofferente, disorientato e confuso; un sostegno e un conforto che ben presto si rivelerebbero inadeguati, se non addirittura controproducenti e dannosi.
Allo stesso tempo dovrebbe essere empatico e incoraggiante nella giusta misura, affinché il paziente trovi la forza e il coraggio, le risorse in sé stesso (se le ha), di assumersi le sue responsabilità di fronte alle scelte di cambiamento che inevitabilmente in un percorso terapeutico dovrà compiere.
Nessuna persona, infatti, “guarisce”, nel senso che riesce ad affrontare e in una qualche misura almeno a risolvere i suoi problemi, se non attua dei cambiamenti nella sua vita, se non imbocca strade nuove, abbandonando quelle vecchie che con tutta evidenza gli hanno causato problemi e quindi sofferenze.
Come diceva Albert Einstein, “non si può risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che l’ha generato”; qui Einstein si riferiva al pensiero matematico e scientifico.
Ma lo stesso paradigma – io penso – può essere applicato anche alla vita psichica: non si possono risolvere problemi di natura interiore e psicologica, se non si è disposti a modificare l’ottica, il punto di vista, i comportamenti e lo stile di vita che li hanno generati.
In altre parole, se non si è disposti a fare delle scelte di cambiamento, a volte anche molto profonde, persino radicali.
Questo, ad un certo punto del loro percorso a due, un bravo e competente terapeuta dovrebbe dirlo o, meglio, rappresentarlo, in maniera più o meno esplicita, al suo paziente per metterlo di fronte alle sue responsabilità.
Senza eccessive compiacenze e diplomatismi; senza addolcire inutilmente le pillole che il suo paziente dovrà necessariamente (anche se solo metaforicamente) ingurgitare.
© Giovanni Lamagna
La “donna sexy”.
La donna che si abbiglia, si muove, gesticola, parla in un certo modo, ovverossia la donna seducente, provocante, in altre parole la donna che, nel linguaggio oramai diventato comune, anche se decisamente frivolo e banale, viene definita “sexy”, è la donna che non si adatta semplicemente a recepire il desiderio dell’uomo e a corrispondervi.
Non si limita cioè (nel migliore dei casi) a condividere il desiderio del maschio, quando esso si manifesta; come se lei non ne potesse provare uno autonomo e goderne pienamente in quanto soggetto e non solo oggetto di desiderio.
Ma è la donna che non ha inibizioni nell’affermare autonomamente il proprio desiderio, anche prima che si manifesti quello del maschio; ovviamente dopo averlo in primo luogo riconosciuto dentro di sé e non averlo rimosso.
Come, invece, purtroppo avviene spesso nel caso delle donne (non solo delle donne, ma soprattutto nel caso delle donne), sotto il peso di antiche, anzi ataviche convenzioni, che le volevano (ma ancora oggi, in molte realtà sociali, continuano a volerle) non solo pudiche, ma anche, in molti casi, ritrose, reticenti, dunque, in qualche modo, respingenti (almeno in un primo momento) nei confronti del desiderio maschile.
E’, in altre parole, la donna adulta, matura, autonoma, culturalmente e psicologicamente evoluta, disinibita, che sa affermare sé stessa, che non abbisogna in prima istanza del desiderio del maschio e non si nasconde dietro di esso per manifestare il proprio, quasi a non volersene assumere la responsabilità piena, ovverossia in prima persona.
E’ la donna che cerca l’uomo, per soddisfare il proprio desiderio, come questi cerca la donna; su un piano, dunque, di assoluta parità e reciprocità, senza alcuna asimmetria; e non ha paura, né tantomeno vergogna, di comportarsi in questo modo; anzi mostra una spavalderia, che per alcuni è sfrontatezza, per alcuni altri (ancora oggi, perlomeno in alcune realtà geografiche e in alcuni ambienti culturali) è addirittura volgarità; per qualche altro ancora denota “facili costumi”.
E’ la donna che, ad esempio, non delega al maschio la conduzione (tempi, modi, luoghi, posizioni…) dell’atto sessuale – come avviene invece, ancora oggi, nella maggior parte dei rapporti sessuali – ma se ne fa pienamente attrice, anzi protagonista, allo stesso, identico, modo del maschio.
Per questo è una donna che attrae, che occupa indubitabilmente l’immaginario e provoca il desiderio (quantomeno quello inconscio) della maggioranza, se non della quasi totalità dei maschi, ma allo stesso tempo li intimidisce, anzi in molti casi li intimorisce e, in non poche situazioni, fa loro addirittura paura.
Mentre, al contrario, provoca l’invidia, la gelosia e, quindi, l’aggressività (latente e in molti casi del tutto manifesta) di molte donne, che non hanno (purtroppo per loro!) raggiunta la sua stessa libertà culturale e psicologica, ancora schiave di vecchi e arretrati modelli di femminilità.
© Giovanni Lamagna
Freud, la psicoanalisi e il sentimento religioso.
Io condivido pienamente e sottoscrivo in buona sostanza “le tesi di Freud sulla religione e sull’antropologia dell’uomo religioso che appaiono prive di sfumature: la religione è una nevrosi dell’umanità, o, addirittura, un suo delirio…
E’ un’illusione destinata fatalmente a dileguarsi con il progresso della scienza;l’uomo religioso è il prodotto di una regressione, il suo Dio non sarebbe altro se non il prolungamento dell’idealizzazione infantile del padre che non vuole estinguersi…
La credenza religiosa serve a sopportare questa vita e il suo dolore promettendone un’altra – una vita eterna – finalmente liberata dalla sofferenza e dalla mancanza che invece ci affliggono…
L’uomo religioso è dunque un uomo in fuga, incapace di assumere responsabilmente il carattere irrevocabilmente finito e precario della sua esistenza.”
Il virgolettato è una citazione di Massimo Recalcati tratta dal suo “La legge della parola”; Einaudi; 2022; pag. V dell’Introduzione.
Non condivido, invece, per niente il giudizio di Freud sull’inutilità totale del sentimento religioso e, quindi, sulla necessità che esso venga storicamente del tutto superato, se l’uomo vuole uscire dallo stato di “minorità” kantiana, di “nevrosi”, di “delirio”, di “illusione”, da cui pure il sentimento religioso indubbiamente, almeno in parte, nasce.
Credo, infatti, che questo sentimento, le ragioni da cui esso nasce ed è motivato, siano anche altre, oltre a quelle indicate così bene e così lucidamente dal padre della psicoanalisi.
C’è, infatti, nell’uomo – e ben radicata – una tensione a trascendersi, ad andare oltre sé stesso, che non possono ridursi soltanto alla paura della sofferenza (soprattutto alla suprema paura che è l’angoscia di morire) e al desiderio di sfuggire alla precarietà che affligge la sua vita.
C’è nell’uomo un desiderio di realizzare i doni (per usare un linguaggio evangelico, i “talenti”) che la vita gli ha messo a disposizione, una tensione a realizzare una comunione con il Tutto, in primo luogo con gli altri suoi simili, che non possono essere spiegati, a mio avviso, solo col sentimento della paura e della precarietà e, quindi, con la spinta a fuggire, a evadere, ad alienarsi in un altro “mondo dietro al mondo”, per usare un’espressione di Nietzsche, anche questa citata da Recalcati.
Tensione, desiderio, che certo non possono essere identificati sic et simpliciter col sentimento, spesso rozzo e primitivo, dal quale sono nate le religioni.
Rispetto al quale valgono, dunque, tutte le critiche e i giudizi drastici con i quali le bolla Freud.
Ma sicuramente hanno una qualche affinità, hanno (almeno in parte) una radice comune con i sentimenti e le aspirazioni da cui storicamente sono nate le religioni, non sono proprio del tutto un’altra cosa.
Per cui il mio giudizio sulla religione (o, meglio, su quello che io definisco come “sentimento religioso”) coincide solo in parte con quello di Freud.
Ne coglie e critica (come lui) la dimensione regressiva, che indubbiamente va superata, se l’uomo vuole andare avanti sul piano della evoluzione emotiva, psicologica, intellettuale, culturale in senso lato.
Ma allo stesso tempo ne recupera, invece, e sostiene come perennemente valida la dimensione progressiva, che consiste, a mio avviso, nella spinta continua alla ricerca, che spinge l’uomo a trascendere sé stesso.
E che, lungi dall’essere “destinata fatalmente a dileguarsi con il progresso della scienza”, è proprio ciò che, invece, sostiene e motiva il progresso delle scienze.
Ne recupera inoltre la spinta necessaria e fondamentale per la sublimazione delle pulsioni primarie, che da sempre caratterizza il sentimento religioso nelle sue varie forme ed espressioni, anche in quelle più primitive e per tanti altri aspetti deteriori.
In modo particolare ne recupera la spinta alla sublimazione della pulsione primaria più forte, che è quella aggressiva, spinta che, anche grazie alle religioni, è stata in passato in grado di unire (almeno in parte) gli uomini, di farli andare oltre le loro tendenze disgregative e quindi autodistruttive, di condurli insomma sulla via della civiltà.
Per cui io arrivo a sostenere che la costruzione della civiltà umana non possa proseguire ed ottenere ulteriori significativi risultati, se l’Uomo nella sua complessità di specie, non recupera e conserva il nucleo fondamentale e ancora vitale di “verità” da cui sono originate le religioni.
Se, in altre parole, non conserva in sé ciò che ancora oggi non esito a definire, perché non trovo un’espressione migliore, il “sentimento religioso”, da cui le religioni storiche, pur con tutte le loro infinite contraddizioni – giustamente denunciate da Freud e dalla psicoanalisi – trassero origine.
Quel sentimento che può portare (e, in certi casi, porta) gli uomini, pur tra mille altre spinte contraddittorie, a sentirsi figli di un’unica Madre (la Natura, la Terra che tutti ci accomuna), se non proprio di un unico padre (quel Dio, che nella Storia ha assunto molti nomi diversi, spesso in conflitto tra di loro).
E li fa (o può farli sentire) quindi (come conseguenza naturale dell’avere una Madre – se non un Padre – in comune) fratelli tra di loro.
Arrivo anzi a dire, con parole ancora più radicali, che o l’Umanità recupera il nocciolo duro del “sentimento religioso” così inteso (depurato cioè delle incrostazioni con cui lo hanno rivestito storicamente le religioni tradizionali) o sarà destinato fatalmente all’autodistruzione.
Come del resto le vicende di questi ultimi mesi (vedi la guerra in corso in Ucraina, cioè nel cuore stesso del continente europeo) sembrano prefigurare drammaticamente; anche se la gran parte dell’Umanità pare non rendersene adeguatamente conto.
© Giovanni Lamagna
Contenuto e forma della morale.
Nelle affermazioni di Sartre sulla morale c’è una contraddizione fondamentale, che egli stesso sembra riconoscere a pag. 105 del suo libro “L’esistenzialismo è un umanismo” (Armando Editore; 2014).
Infatti, da una parte afferma che il contenuto della morale è variabile (in quanto l’uomo è totalmente libero, è simile all’artista, è il creatore dei suoi valori…), dall’altra afferma che una certa forma della morale è universale (concorda quindi con Kant che “la libertà vuole se stessa e la libertà degli altri”).
Ora delle due l’una: o la forma della morale è universale o non lo è.
Per me, come per Kant (e come sembra ad un certo punto anche per Sartre), la forma della morale è universale.
Ma, se è universale, allora anche i suoi contenuti non possono essere variabili oltre un certo limite, non possono essere creati ad libitum, come sembra invece dire Sartre, contraddicendo la sua affermazione sulla forma universale della morale.
Concordo, invece, con Sartre che la morale non può che definire valori generali, universali, quindi astratti, e che l’uomo, quando si trova a fare scelte concrete, deve assumersi fino in fondo la responsabilità della propria decisione, che non trova prescritta su nessuna tavola della Legge.
La norma morale arriva a dirci che bisogna amare gli altri come se stessi; o che bisogna fare agli altri ciò che vorremmo gli altri facessero a noi e che non bisogna fare agli altri ciò che non vorremmo gli altri facessero a noi.
Ma non ci dice cosa vuol dire concretamente amare gli altri e se stessi o cosa bisogna fare o non fare nella singola situazione.
Ci sono, infatti, situazioni esistenziali nelle quali l’uomo è chiamato a decidere tra due (o, addirittura, più) scelte ragionevoli e, quindi, tutte legittime.
In questo caso, allora, (e qui Sartre ha per me ragione) egli è pienamente creatore (possiamo dire) del valore della sua scelta, che non trova da nessuna parte un fondamento universale ed assoluto.
Prendiamo il caso (per fare un solo esempio, che ho tra l’altro vissuto sulla mia pelle) di un uomo che si innamora di un’altra donna essendo sposato e con figli.
Che fa, che deve fare un uomo che si trova in una tale situazione?
Sacrificare l’amore nuovo per la donna di cui si è innamorato in nome dell’amore precedente per i figli?
O sacrificare l’amore primo per i figli in nome dell’amore sopravvenuto per la donna di cui si è innamorato?
In questa scelta l’uomo coinvolto è pienamente autore, creatore del valore della sua decisione.
Non esiste una norma universale ed assoluta che in qualche modo gliela imponga.
Entrambe le scelte sono legittime, in quanto hanno un loro fondamento razionale.
Entrambe comportano dei costi, delle sofferenze, sue e di altri.
Facendone una, l’uomo si assume pienamente la responsabilità della sua scelta, non la delega, non può delegarla ad altri.
Meno che mai la trova già bella e scritta da qualche parte.
In qualche modo deve “creare” la norma che poi applicherà nella situazione concreta in cui è chiamato ad agire, a fare la sua scelta.
© Giovanni Lamagna