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Oggi non basta dirsi a favore della pace.

Oggi non basta dirsi per la pace.

Anche perché tutti dicono di esserlo.

Anche quelli che poi inviano (o sono favorevoli a inviare) armi all’Ucraina, perché – dicono – è giusto, è necessario che l’Ucraina si difenda dall’invasore russo.

“Perché – dicono – anche noi vogliamo la pace, ma una pace giusta, non una pace che sia una resa al prepotente invasore.

Mentre voi pacifisti, che siete contrari all’invio delle armi affinché l’Ucraina possa difendersi, volete una pace ingiusta, che è in realtà una resa passiva e incondizionata all’invasore.”

Per questo oggi non basta dire: “vogliamo la pace!”.

Perché bisogna dare una risposta alle ovvie, scontate, direi addirittura naturali, obiezioni dei “pacifisti” che sono favorevoli all’invio delle armi affinché l’Ucraina possa difendersi dall’invasione russa.

Occorre allora dire che noi siamo non solo pacifisti, ma siamo soprattutto nonviolenti.

E’ questo che ci distingue e divide, in modo radicale, dai pacifisti armati.

Pensiamo, cioè, con molta fermezza e convinzione, che la difesa dal nemico aggressore non debba essere quella militare ed armata, ma una resistenza attiva e nonviolenta.

Fatta di scioperi, di boicottaggi, di manifestazioni pubbliche e private di dissenso e di ribellione; non certo – dunque – una resa passiva e rassegnata al nemico invasore.

Come i pacifisti armati ci accusano di volere ed auspicare.

Costoro potranno, allora, dirci (e contestarci) che questa forma di lotta è ingenua e senza nessuna efficacia; che equivale in realtà ad una resa.

E, certo, noi non potremmo convincerli del contrario, se in loro non è maturata o fino a quando non maturerà in loro un’intima convinzione (che è una specie di fede) del contrario.

Anche se nella storia, soprattutto in quella recente, non sono mancate importanti testimonianze (vedi Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela…) dell’efficacia di una tale forma di lotta, nonviolenta.

Potremmo solo obiettare loro che il ricorso alle armi e la conseguente, molto probabile, progressiva, escalation bellica, nell’attuale situazione storica, con il rischio incombente del ricorso alle armi nucleari, ci porterà quasi sicuramente dritti, dritti verso un’ecatombe mondiale e, dunque, la probabile estinzione della nostra specie.

Hanno presente i nostri pacifisti favorevoli all’uso delle armi (fossero anche solo di difesa) un tale rischio, che, a dire il vero, è molto più di un rischio, perché è invece una quasi assoluta certezza?

Chi è quindi più ingenuo e realista?

Chi, in nome del presunto realismo, si dice contrario all’utopia nonviolenta o chi azzarda questa utopia, come unica forma di realismo e non solo di idealismo, perché mai come oggi vede reale la possibilità che la specie umana si autodistrugga con le sue stesse mani?

C’è, in altre parole, oggi, nell’attuale situazione storica, una reale alternativa alla nonviolenza (attenzione: non il semplice e generico appello alla pace!), se si vuole salvaguardare il futuro dell’Umanità e non rimuovere il problema, come, invece, la maggior parte dei “pacifisti armati” fa?

© Giovanni Lamagna

Quale rapporto coi desideri?

Io non perseguo l’estinzione del desiderio.

E credo sia sbagliato, anzi insano, farlo.

Per questo non condivido per nulla la filosofia di fondo del Buddhismo.

Sono certamente per l’autocontrollo, anzi per il dominio dei desideri.

Ma penso anche che ai desideri, nei limiti del possibile, sia bene dare soddisfazione.

Ad un’unica condizione limitante: di non farsene travolgere.

Di non diventarne schiavi.

Occorre controllare i desideri, non estinguerli.

© Giovanni Lamagna

Eros e thanatos.

Freud (nel suo “Al di là del principio di piacere; 1920) dà per scontata l’aspirazione – che egli ritiene la più universale delle aspirazioni presenti in tutti gli esseri viventi – “a ritornare alla quiete del mondo inorganico”, in altre parole all’estinzione, cioè alla morte.

E aggiunge: “Abbiamo tutti sperimentato come il massimo piacere che possiamo attingere, il piacere dell’atto sessuale, sia legato con la momentanea estinzione di un eccitamento estremamente intenso.” (Biblioteca Boringhieri; 1975; pag. 99)

Vede, in altre parole, un’analogia tra la tendenza naturale degli esseri viventi ad estinguersi, cioè a passare dallo stato organico a quello inorganico, e l’esperienza del piacere, articolata nelle seguenti fasi, così disposte in sequenza: – stimolo, – eccitazione, – acme e scarica edonistica, – estinzione dell’eccitazione.

Francamente e con tutto il rispetto per il grande pensatore viennese, trovo questa analogia alquanto indebita, anzi una vera e propria forzatura.

Come si faccia ad associare un’esperienza del tutto spiacevole e non desiderabile, come è la morte, ad un’esperienza estremamente piacevole e desiderabile, come è l’atto sessuale, a me risulta francamente incomprensibile.

Non è certo il fatto che entrambe le esperienze si concludano con uno stato di “quiete” che giustifica tale associazione.

L’associazione che fa Freud è simile a quella che farebbe chi volesse vedere un’analogia tra lo stato di sazietà di chi ha appena mangiato (per soddisfare un bisogno fisiologico, innanzitutto, quello della fame, ma in alcuni casi anche per soddisfare il piacere legato al gusto del mangiare) e lo stato di inappetenza di cui soffrono spesso coloro che non godono di buona salute o il rifiuto del cibo che è caratteristico dell’anoressia.

Si tratta di tre condizioni psicofisiche che hanno certamente un fattore che le accomuna (il rifiuto del cibo), ma sono del tutto incomparabili sotto gli altri aspetti.

A maggior ragione come si fa a paragonare lo stato di (indubbia) quiete (tra l’altro “eterna”) che raggiunge la persona che muore con lo stato di quiete (invece momentaneo) che raggiunge la persona che ha compiuto un atto sessuale ed ha ottenuto un orgasmo?

Lo stato di quiete post coitum o post orgasmo è benefico, vivificante, è funzionale ad una vita sia fisica che psichica piena, sana, soddisfacente, piacevole, gratificante.

Lo stato di quiete che si ottiene con la morte è tutt’altro, anzi è esattamente l’opposto: non solo conclude l’esistenza (altro che vivificarla!), ma quasi sempre (a meno di una morte improvvisa ed istantanea) sopravviene dopo una fase più o meno lunga e prolungata di sofferenze e di agonia.

Ecco perché l’associazione che fa Freud e dalla quale sono partito per fare questa piccola riflessione a commento – a me sembra – francamente infondata!

© Giovanni Lamagna

Per il Buddhismo il fine ultimo della vita è l’estinzione o il risveglio?

In ultima analisi e nonostante gli aggiornamenti che ne hanno fatto di recente personalità illustri, quali il Dalai Lama attualmente vivente e Thich Nhat Hanh, per citare solo due nomi molto noti anche in Occidente, a mio avviso il Buddhismo rimane nell’ambiguità su quale è/sarebbe il fine ultimo della vita: l’estinzione o il risveglio.

Da alcuni testi canonici sembrerebbe essere, senza ombra di dubbi, il primo: come dice Vito Mancuso ne “I quattro maestri” (pag. 209), per il buddhismo “il fine ultimo è il superamento dell’essere e quindi di quella particolare manifestazione dell’essere in noi che è l’umanità. A questo è finalizzata la non-rinascita (…): alla fuoriuscita dalla personalità, anche laddove questa si afferma come relazione armoniosa e come bene.”

Da altri testi canonici e, soprattutto, dall’interpretazione che ne danno oggi alcuni pensatori buddhisti, che si sono confrontati anche con le tradizioni di pensiero occidentali, sembrerebbe essere il secondo, cioè il risveglio: in altre parole le pratiche e la morale buddiste mirerebbero al risveglio, nell’uomo, della sua parte buona e compassionevole e al superamento della sua parte egoica, che si esprime soprattutto nelle forme dell’attaccamento e della bramosia.

Il superamento dell’essere andrebbe quindi inteso non come annullamento totale della personalità, ma solo come trascendimento dell’Io negativo, dell’Io egoista, prepotente, violento, bramoso, avido, di ricchezze e di potere.

Questa interpretazione dello spirito fondamentale del buddhismo si avvicinerebbe dunque molto alle pratiche ascetiche, spirituali e mistiche sviluppatesi anche in occidente nel corso della sua storia e ne sarebbero un completamento e una integrazione e non la loro negazione.

E’ appena il caso di dire che io delle due interpretazioni preferisco e di gran lunga la seconda.

E non solo perché, come è ovvio, è la più vicina alla mia sensibilità di uomo dell’Occidente, pienamente e profondamente impregnato della sua cultura.

Ma anche perché mi sembra sia quella che meno si espone a contraddizioni di carattere teorico-filosofico.

Devo sottolineare e ribadire, però, che essa (come abbiamo sinteticamente visto poco sopra) non è l’unica possibile.

Anzi che essa è il risultato – a mio modo di vedere – di una certa forzatura interpretativa dei testi fondamentali del Buddhismo, che quantomeno accreditano anche l’altra, se non soprattutto e principalmente l’altra.

© Giovanni Lamagna

Nirvana: estinzione o risveglio?

Il Buddhismo parla del nirvana “sia come estinzione sia come risveglio supremo”.

Giustamente allora Vito Mancuso (nel suo “I quattro maestri”, a pag. 188) si chiede: “Ma come tenere insieme queste due descrizioni? Come si può risvegliare chi si estingue? E, viceversa, come si può estinguere chi si risveglia?”

Le domande che si pone Mancuso sono per me molto giuste e opportune; non lo sono altrettanto – a mio avviso – le risposte che Mancuso si dà nel libro, alla cui utile e sapida lettura rinvio. Provo, quindi, a dare le mie.

Per me il “nirvana” è innanzitutto e senza dubbio uno stato di estinzione dell’uomo vecchio, l’uomo caratterizzato da una volontà egocentrica, autocentrata, quindi, inevitabilmente narcisista ed egoista.

Ma, allo stesso tempo, è anche uno stato di apertura (risveglio, appunto!) ad una condizione di vita nuova, nella quale i desideri non saranno affatto annullati, ma non saranno più quelli egocentrici, autocentrati e, quindi, narcisisti ed egoisti dell’uomo vecchio.

Saranno, bensì, desideri non in conflitto ma del tutto compatibili con quelli degli altri nostri simili e, quindi, fratelli; compatibili perfino, con le esigenze dell’Universo mondo di cui noi siamo parte.

Chi entra nel “nirvana”, infatti, muore al proprio Sé (si estingue pertanto come individualità separata), rompe il guscio nel quale è racchiuso, quasi prigioniero, il proprio Ego.

E nello stesso tempo (o appena subito dopo) si apre, risveglia, ad una nuova vita, dalle dimensioni potenzialmente infinite, in grado di arrivare a comprendere non solo la vita di tutti gli altri uomini, ma anche quella di tutte le altre creature (animali, vegetali, minerali) che formano l’Universo, di cui egli è infinitesima particella.

Quello nirvanico è insomma uno stato di estinzione del proprio particulare e di risveglio (apertura) all’universale, in altre parole di identificazione/fusione con il Tutto.

Ecco perché il concetto di estinzione e quello di risveglio, lungi dall’essere oppositivi e contraddittori, esprimono la stessa realtà, anche se da versanti diversi; per cui – in fondo, in fondo – coincidono.

Non sono convinto (anzi penso proprio il contrario) di aver espresso con questa mia interpretazione l’ortodossia (ammesso che ce ne sia una) del pensiero buddhista relativamente al concetto di “nirvana”.

Sono convinto però che la mia lettura del concetto sia quella migliore (se non l’unica) per risolvere l’aporia evidenziata da Vito Mancuso e dalla quale sono partito per questa mia breve e sintetica riflessione.

E, oltretutto, quella che rende il concetto di “nirvana” accettabile, anzi del tutto condivisibile, anche per noi uomini dell’Occidente, la cui cultura profonda è molto diversa da quella dell’Oriente, di cui si alimentò, com’era ovvio, il pensiero buddhista.

© Giovanni Lamagna

Alcune considerazioni sul Cristianesimo

Un amico mi scrive: “Secondo me, amare i propri nemici è una follia contro natura e uno dei motivi per cui il cristianesimo è in via di estinzione. Anzi il vero cristianesimo è già estinto da secoli. Quello che sopravvive è un cristianesimo fai-da-te e ipocrita.”

Qui di seguito la mia risposta.

Caro B., amare i propri nemici sarebbe contro natura, se nell’uomo ci fossero solo pulsioni che tendono alla competizione e alla sopraffazione, per cui all’invidia, all’aggressività, all’odio non si può che rispondere con altrettanto odio e aggressività; in altre parole se fosse vero che “occhio per occhio, dente per dente”.

Come forse ritieni tu. Ma – devo riconoscere – non sei certo il solo: nella storia ti hanno preceduto caterve di uomini di pensiero illustri, quali – per fare solo quattro nomi – Machiavelli, Hobbes e, per molti aspetti, Nietzsche e Freud.

Io, invece, penso (ma mi sento, a mia volta, in buona compagnia, con fior di altri illustri pensatori) che nell’uomo esistano indubbiamente le pulsioni (negative e distruttive) di cui sopra, ma esistano anche quelle (positive e costruttive) che tendono alla compassione, alla cooperazione e persino all’amore.

Il “vero cristianesimo” (come lo definisci tu) mirava a che le seconde superassero, annullassero o, quantomeno, integrassero le prime in ogni singolo uomo; perciò invitava, sollecitava, ad una vera e propria conversione del cuore.

E questo non è, certo, facile da realizzarsi, ma, almeno a mio avviso, non è neanche del tutto impossibile o, addirittura, una follia, perché radicalmente “contro natura”, come invece sostieni tu.

Il Cristianesimo, il vero Cristianesimo, si è estinto da tempo?

Questo è forse il tuo auspicio, ma a me (e, a dire il vero, non solo a me) non sembra affatto; del resto, quando sembra morto, il Cristianesimo rinasce dalle sue ceneri.

Intanto sono vive e ancora abbastanza vegete le Chiese, che, pur con tutte le loro infinite contraddizioni (e, in certi casi, persino misfatti; pensiamo agli ultimi, recenti, episodi venuti alla luce di pedofilia tra i preti), al Cristianesimo si richiamano.

Questo è, che ci piaccia o no, un dato storico inoppugnabile; ora, mi sai dire quali altre istituzioni, che abbiamo conosciuto nella Storia, sono state in grado di durare così a lungo nel tempo?

Ma soprattutto il Cristianesimo ha gettato un seme profondo, ritengo oramai indelebile, che vive nella coscienza morale di tanti, tantissimi, uomini di spirito, che ne hanno colto e si sforzano di praticare il suo messaggio essenziale.

Perfino uomini che non si sono riconosciuti ieri e non si riconoscono oggi nelle Chiese che al Cristianesimo facevano e fanno riferimento; perfino uomini (tra i quali metto immodestamente il sottoscritto) che si dichiarano non credenti, che non si riconoscono in nessuna fede religiosa.

Basti pensare a uno per tutti, a Benedetto Croce, che su questo argomento scrisse un piccolo saggio diventato poi famoso e spesso citato: “Non possiamo non dirci cristiani”; e lui non era certo un “uomo di fede”, almeno nel senso classico e tradizionale che ha assunto questa espressione.

© Giovanni Lamagna

Brama, desiderio, Nirvana

8 marzo 2015
Brama, desiderio, Nirvana.
Mi si potrebbe obiettare: ma quello di cui predica Buddha non è l’eliminazione del desiderio in sé, ma la liberazione dal dominio (potremmo anche dire dalla schiavitù) del desiderio.
Oppure, che la brama non è la stessa cosa del desiderio; non è un suo sinonimo; che la brama è un desiderio smodato, spasmodico, che implica schiavitù, attaccamento all’oggetto di cui si ha brama; mentre il desiderio è un sentimento in qualche modo guidato dalla ragione e dalla volontà del soggetto, che non implica attaccamento e quindi dipendenza dall’oggetto; e che il buddismo condanna la brama non il desiderio.
Della qual cosa prendo atto. E allora si può anche comprendere e condividere il pensiero di Buddha, che da questo punto di vista coinciderebbe in fondo, nella sostanza, con gran parte delle principali correnti di pensiero (filosofiche, etiche e spirituali) dell’Occidente. Compresa la psicoanalisi.
Ma una cosa, però, a questo punto mi viene di sottolineare: Buddha, quando ha parlato di desiderio o di brama, non è andato tanto per il sottile, non ha fatto tante distinzioni; si è espresso, dunque, quanto meno in una forma non del tutto chiara, per non dire del tutto infelice.
Egli, infatti, afferma testualmente: “Questa, o monaci, è la santa verità circa l’origine del dolore: essa è quella sete che è causa di rinascita, che è congiunta con la gioia e col desiderio, che trova godimento ora qui ora là; sete di piacere, sete di esistenza, sete di estinzione”.
E ancora: “Questa, o monaci, è la santa verità circa la soppressione del dolore: è la soppressione di questa sete, annientando completamente il desiderio, è il bandirla, il reprimerla, il liberarsi da essa, il distaccarsi”.
La soppressione completa della sofferenza, tramite la rinuncia al desiderio, consentirebbe – secondo l’insegnamento di Buddha – il raggiungimento di uno stato di pace assoluta: il Nirvana (o Nibbana).
Ma la parola nirvana, che deriva dal sanscrito, ha il significato sia di “estinzione” (da nir + √va: cessazione del soffio, estinzione, quindi venir meno della vita) che, secondo una diversa etimologia (nir + vana) proposta da un commentario buddhista di scuola Theravada, di “libertà dal desiderio”.
In entrambi i casi, non mi pare che il nirvana esprima una condizione umana molto auspicabile, né tanto meno felice; comunica, infatti, (almeno nel suo senso letterale) più l’idea (negativa) della morte che quella (positiva) della vita.
Giovanni Lamagna