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Non c’è alcun futuro per una visione religiosa dell’esistenza?

L’umanità (o, meglio, questa parte dell’umanità di cui faccio parte, l’umanità dell’Occidente “avanzato” e “progredito”, l’umanità del Primo Mondo, a evidenziare e sottolineare l’esistenza di una gerarchia tra diversi mondi, gerarchia stabilita ovviamente da chi si sente orgogliosamente, anzi presuntuosamente, diciamo pure narcisisticamente, parte del Primo Mondo) ha stabilito ad un certo punto (a partire decisamente dalla fine del 1800, ma il percorso che ha portato a questo esito era iniziato già tre o quattro secoli prima) che, tenuto conto dei progressi delle scienze e delle filosofie, che avevano evidenziato con un sufficiente grado di attendibilità l’inesistenza di Dio o, quantomeno, l’impossibilità di una dimostrazione razionale della sua esistenza, non solo le religioni storiche tradizionali non avevano più senso, che erano poco più che delle credenze mitologiche o, addirittura, superstiziose, ma che non aveva neanche più senso un qualsiasi atteggiamento religioso nei confronti del mondo e della vita.

Il mio pensiero, molto deciso e forte, è che un tale convincimento (almeno quello più radicale: il senso e lo spirito religioso non hanno oramai più alcuna prospettiva di sopravvivenza e nessun diritto di cittadinanza nelle nostre società “progredite”) non ha nessun serio fondamento, né teorico né, tantomeno, pratico.

A meno che l’umanità, perlomeno questa umanità, di questa epoca e di questa parte del mondo, questa umanità di cui anche io mi sento parte e che allo stesso tempo sento aliena, non voglia infilarsi non tanto in un vicolo cieco (cosa che ha già fatto, come dicevo, da tempo, cioè oramai da almeno un secolo e mezzo), ma in una via senza più ritorno, che la porterebbe all’annichilimento (qui il riferimento al “nichilismo” di tanta parte della filosofia contemporanea è consapevole e voluto), ovverossia all’autodistruzione insieme teorica e morale e, quindi, quasi sicuramente, come sua ovvia e tragica conseguenza, anche fisica e materiale.

La mia idea convinta è:

 1) che le scienze e le filosofie hanno indubbiamente dimostrato che non è possibile argomentare (al contrario di quanto riteneva la maggior parte dei filosofi nell’antichità e fino al Medioevo) razionalmente l’esistenza di Dio;

 2) che anzi non sia più possibile credere seriamente, sulla base cioè di convinzioni filosofiche aggiornate e non di vecchie filosofie oramai superate, nell’esistenza di un Dio personale, di un mondo ultraterreno e di una vita futura dopo la morte, come, invece, le religioni tradizionali vorrebbero ancora farci credere;

 3) ma che questo non comporti affatto il tramonto definitivo dell’idea stessa di “religione”; o, meglio, che questo dato di realtà non debba comportare affatto la rinuncia a, la dismissione di quell’atteggiamento spirituale di fronte al mondo e alla vita che per millenni abbiamo definito come “religioso”.

Questa mia idea forte e convinta si basa:

 1) sulla constatazione inoppugnabile che tutte le culture, almeno fino a due secoli fa, hanno elaborato e professato un credo religioso e praticato riti, cerimoniali e regole morali a quel credo collegati;

 2) sulla deduzione, semplice ed evidente, che da questa constatazione deriva: evidentemente le religioni non nascono a caso, non sorgono per un capriccio della storia, ma perché corrispondono a bisogni profondi dell’umanità.

Certo, al bisogno profondo di trovare conforto contro le paure e le angosce dell’esistenza, in primis contro le forze per lungo tempo misteriose della natura, di cercare quindi protezione in figure mitiche paterne o materne e, soprattutto, di esorcizzare l’idea angosciosa della morte con la speranza di una vita post mortem.

Ma anche al bisogno altrettanto profondo di trovare un senso alla propria esistenza individuale e di regolare la vita sociale, con delle norme il più possibile condivise, rese convincenti, persuasive, anche attraverso il ricorso a simbologie, mitologie, rituali e cerimoniali dal forte impatto emotivo-affettivo.

Ora è mia idea forte, salda, che il progresso scientifico e l’evoluzione del pensiero filosofico abbiano dato indubbiamente grosse picconate negli ultimi cinque secoli alle risposte che le religioni tradizionali (soprattutto quelle teiste; non tutte le religioni, come sappiamo sono teiste; ad esempio, il buddhismo non lo è) avevano fornito al primo bisogno di cui sopra.

E’ mia idea forte che la modernità abbia, in altre parole, demolito i miti su cui la maggior parte delle religioni storiche, tradizionali, si fondavano; e che quindi sia impossibile oggi continuare a dar credito a certe credenze religiose, a meno di non voler rimanere fermi (“fissati” direbbe Freud) ad uno stadio evolutivo primitivo, mi verrebbe di dire infantile, della storia dell’umanità.

Ma è mia idea altrettanto forte che il progresso scientifico e l’evoluzione del pensiero filosofico non abbiano affatto dato delle risposte migliori di quelle date, fino a quattro-cinque secoli fa, dalle religioni, al secondo bisogno da cui quelle religioni nascevano: il bisogno di senso, di significato, di una motivazione al vivere.

Con la conseguenza che, mentre il progresso scientifico ha almeno in parte rassicurato l’essere umano rispetto ad alcune sue paure ancestrali e fornito “farmaci” adeguati al riguardo, il pensiero filosofico (almeno quello prevalente ed egemone) lo ha deprivato dei fondamenti metafisici, su cui si basavano le sue antiche sicurezze, senza però offrirgliene altri; con esiti che sono stati fatalmente (e non potevano non esserlo) nichilisti.

Così che la tecnologia (figlia, anche se parecchio degenere, delle scienze) è diventata – come ci hanno fatto vedere benissimo due pensatori, tra molti altri, quali Martin Heidegger e Gunther Anders – la nuova religione del tempo contemporaneo, sottraendosi, sfuggendo – in maniera che, a mio avviso, ci porterà prima o poi al disastro – al controllo e alla guida del pensiero filosofico.

Un po’ come (sia detto per inciso) l’economia o, per meglio dire, i poteri economici forti sfuggono oramai al controllo e alla guida della politica; una politica che, senza una visione del mondo e quindi senza un pensiero filosofico alle spalle, diventa cieca e muta e, perciò, impotente nei confronti dell’economia.

Qual è allora la conclusione, dopo questa lunga premessa, della riflessione che ho fin qui svolto?

Lo dico con molta nettezza e chiarezza: bisogna recuperare sul piano filosofico le ragioni e i fondamenti (certo, quelli possibili, razionali, del tutto immanenti e non più metafisici) di una visione religiosa del mondo.

Senza dubbio, tenendo conto di alcune acquisizioni (anche per me irreversibili) del pensiero scientifico e filosofico moderno!

Ma senza buttare (come ha fatto invece una buona parte della filosofia moderna e contemporanea, senza grandi eccezioni, soprattutto a partire da Feuerbach e Marx per arrivare a Nietzsche e infine a Cioran) il bambino con tutta l’acqua sporca.

Occorre che la filosofia ridia in altre parole speranza e fiducia all’umanità; altrimenti ci sarà presto o tardi (più presto che tardi) la fine del pensiero filosofico e con esso la fine della stessa umanità.

© Giovanni Lamagna

Attorno al concetto di “scienza”

Ogni qualvolta una teoria ti sembra essere l’unica possibile, prendilo come un segno che non hai capito né la teoria né il problema che si intendeva risolvere” (Karl Popper, Conoscenza oggettiva: un punto di vista evoluzionistico).

Dobbiamo distinguere chiaramente tra verità e certezza. Aspiriamo alla verità, e spesso possiamo raggiungerla, anche se accade raramente, o mai, che possiamo essere del tutto certi di averla raggiunta. (…) La certezza non è un obiettivo degno di essere perseguito dalla scienza. La verità lo è.” (Karl R. Popper; Congetture e confutazioni; prefazione italiana, 1985).

Gli attacchi di Popper allo storicismo, all’olismo e alla scientificità della psicoanalisi e del marxismo hanno indotto i teorici della Scuola di Francoforte a considerare che le scienze sociali e umane, come la psicoanalisi, la sociologia e l’economia, su cui si fonda in parte il marxismo, hanno un loro rigore di metodo, per quanto caratterizzato da relativa incertezza rispetto alle scienze naturali. Anche in tali campi esistono criteri per stabilire cosa è frutto di una seria analisi scientifica e cosa è asserzione arbitraria. In quanto Karl Marx e Sigmund Freud utilizzarono metodi ritenuti rigorosi al loro tempo e cercarono di verificare empiricamente le loro teorie, in tanto i loro lavori possono essere considerati scientifici e suscettibili di errore e falsificazione.” (da Wikipedia)

Conosco la critica severa, anzi drastica, demolitoria, che Popper muove alla psicoanalisi Ma non la condivido.

Perché non sono d’accordo con la critica di Popper? Provo a rispondere a questa domanda.

Secondo Popper sono scienze solo quelle discipline le cui tesi sono falsificabili; e, siccome le tesi della psicoanalisi non sono falsificabili, la psicoanalisi non è dunque per lui una scienza.

In altre parole, secondo Popper, sono scienze solo le discipline sperimentali; tutte le altre (quindi anche la psicoanalisi) sono pseudo-scienze o, meglio, non-scienze.

Ora, se fosse vera una tale asserzione, tutte le cosiddette “scienze dello spirito” (che Wilhelm Dilthey opportunamente distingue dalle “scienze della natura”) – cioè la storia, la filosofia, la critica letteraria, la psicologia, la sociologia, l’antropologia… (per citarne solo alcune) – sarebbero non scienze.

In altre parole, almeno il 50/60% (a voler essere riduttivi) di quello che l’Umanità considera il suo patrimonio culturale avrebbe un ben scarso valore cognitivo e intellettuale.

Popper, a mio modesto avviso sbagliando, identifica le scienze tout court con le cosiddette “scienze esatte”.

Io, invece, ritengo (e per questo mi sento molto più vicino alle tesi della Scuola di Francoforte che a quelle di Popper) che ci siano anche scienze non esatte, che non vuol dire siano false, sono solo scienze che utilizzano un metodo diverso da quello che utilizzano quelle esatte: anziché procedere per sperimentazioni riproducibili e, quindi, falsificabili, procedono per osservazioni e, quindi, per approssimazioni alla “verità”.

D’altra parte, se per questo secondo tipo di scienze è impossibile ambire ad una verità assoluta e oggettiva, in parte questo vale anche per le scienze cosiddette esatte, come del resto riconosce lo stesso Popper (si rileggano le due citazioni da me riportate all’inizio).

Quante verità assodate da queste scienze in un dato periodo storico, sulla base di metodologie considerate ineccepibili dal punto di vista scientifico secondo il punto di vista di Popper, sono state poi smentite da successive sperimentazioni, da ulteriori ricerche scientifiche, avvenute in epoche successive!

Quindi manco esse possono essere considerate verità del tutto assolute ed oggettive.

© Giovanni Lamagna

Cosa caratterizza il femminile e cosa il maschile

Noi siamo come nani sulle spalle di giganti” (Bernardo di Chartres)

Francamente mi pare che Recalcati (pag. 182-185 del suo “Le nuove melanconie”) faccia una eccessiva (anche se a mio avviso solo apparente, come cercherò di argomentare tra poco) idealizzazione della “donna”, in contrapposizione all’ “uomo”.

Secondo Recalcati (e secondo Lacan, di cui Recalcati è allievo) la DONNA non esisterebbe; non esisterebbe insomma un universale della “donna”, ma solo la singola donna.

Mi chiedo: ma ciò che Lacan e Recalcati attribuiscono alla donna non vale anche per l’uomo? Esiste davvero un universale UOMO che non esisterebbe, invece, per la donna?

Oppure ogni uomo è l’incarnazione assolutamente singolare di una categoria generale ed astratta e perciò concretamente non esistente, allo stesso modo di come ogni donna è l’incarnazione del tutto singolare di una categoria generale ed astratta e, quindi, in realtà, concretamente non esistente?

Al contrario per Lacan (e per Recalcati) c’è un “significato universalmente valido” che definisce “l’essere uomo”; c’è un significante, il fallo, che gli dà un significato universale. Che, invece, mancherebbe nella donna.

In altre parole per Lacan e Recalcati (ma prima di loro, come tutti sappiamo, per il padre della psicoanalisi, Sigmund Freud) “l’essere uomo” si definisce in senso universale per il suo avere un determinato organo: il fallo.

“L’essere donna” si definirebbe, invece, stranamente e secondo una concezione alquanto singolare (e, per dirla tutta, decisamente maschilista), allo stesso modo, anche se opposto e speculare: il non avere il fallo.

Da questo punto di vista il destino della donna (non solo quello della donna isterica, come pure sembra dire Recalcati a pag. 183 del suo saggio) apparirebbe segnato: la donna deve tendere a identificarsi con il fallo dell’uomo, a desiderare di essere il suo fallo.

Che sarebbe poi il desiderio profondo dell’uomo, di ogni uomo: “l’uomo ricerca il fallo nella donna”.

Senonché Recalcati, con una torsione improvvisa, che non mi appare giustificata – almeno per quello che ne ho capito io – da quanto fino a poco prima sostenuto, a pagina 184 se ne esce con la seguente affermazione, che riprende sempre da Lacan: “…se la donna nel fantasma del desiderio maschile incarna il fallo, ella non vuole essere semplicemente un oggetto del desiderio dell’Altro, ma esige il suo amore, vuole essere insostituibile nel desiderio dell’Altro”.

In altre parole la donna vuole “essere una singolarità irriducibile all’oggetto feticizzato, un oggetto insostituibile appunto”.

Che vorrebbe confermare la tesi secondo la quale la donna non si iscrive in una categoria universale, ma deve “essere pensata… come un campo privo di identità solide, metamorfico, aperto”.

In altre parole la donna, ogni donna sarebbe la “realizzazione di una singolarità incomparabile, senza divisa, eccezione assoluta della serie.”.

E in quanto tale, quindi, vuole (vorrebbe), per sua conformazione genetica, essere considerata dal “suo” uomo come “insostituibile”.

Devo dire, in tutta franchezza, che queste tesi di Lacan, che sono riportate e sposate – a quanto mi appare – integralmente da Recalcati, non mi convincono.

Come, del resto, (e ancora di più) non mi ha mai convinto la tesi freudiana dell’ “invidia del pene”, cioè della concezione della donna come creatura deficitaria di qualcosa, definibile, quindi, solo in termini di “minorazione”.

Non mi convince, innanzitutto, la tesi secondo la quale il “femminile” non sarebbe una categoria universale come il “maschile”, in quanto la donna (ogni donna) si definirebbe per la sua assoluta singolarità.

Se non altro perché nel momento in cui si fa una simile affermazione di carattere generale si sta nei fatti definendo una categoria. Un po’ come quando si afferma “non esiste nessuna verità assoluta”: questa affermazione o è falsa (esiste, invece, una verità assoluta) o è vera, però smentisce ipso facto se stessa.

In secondo luogo a me pare che le tesi di Lacan solo apparentemente sono meno maschiliste di quelle di Freud; in realtà risentono anch’esse di un angolo di visuale tipicamente maschile.

Su che cosa si fonderebbe, infatti, il desiderio tipico della donna di essere considerata insostituibile nel desiderio del maschio, se non sulla volontà di possedere il maschio, di volerlo tutto per sé e di considerarlo, quindi, una sua proprietà?

E su cosa si fonderebbe questo desiderio proprietario di possesso se non sul sentimento di debolezza, di precarietà radicale, della donna, sulla sua “mancanza ad essere”; quindi, in ultima istanza, (anche a voler considerare quella di Freud una semplice metafora) sulla “invidia del pene”?

Inoltre, perché il desiderio di essere considerati insostituibili nel rapporto uomo/donna, sarebbe tipicamente femminile, esclusivo della donna?

Una tale affermazione è contraddetta dai fatti. Basti vedere le reazioni che hanno gli uomini, quando le loro donne li “tradiscono”: sono, in genere, di una violenza incredibile, possono arrivare fino all’omicidio. Cosa che, invece, si verifica molto meno spesso, anzi rarissimamente, nel caso delle donne “tradite”.

Sono portato allora a pensare che gli uomini (l’Uomo) e le donne (la Donna) sono molto più simili nella loro struttura psicologica di fondo di quanto non ce li abbiano voluti far vedere Freud e, in fondo, lo stesso Lacan.

Ammesso pure (e non concesso) con Freud che la donna desideri nell’uomo gli organi che a lei mancano, in primo luogo il pene, non potremmo dire allora la stessa cosa dell’uomo? Non ricerca egli nella donna gli organi che a lui mancano, ad esempio l’utero o il seno? Questo sul semplice piano fisico.

Ma tali desideri (ammesso che esistano) non hanno delle ricadute e dei risvolti che sono prettamente psicologici, di cui le rispettive mancanze di ordine fisico potrebbero essere solo delle metafore?

Non è più corrispondente al vero affermare che la donna ricerca nell’uomo le caratteristiche psichiche che nell’uomo sono più sviluppate e in lei più carenti? E che l’uomo fa la stessa cosa con la donna, ovviamente con caratteristiche opposte e speculari?

Infine il desiderio di essere ritenuti “insostituibili” nel rapporto non è, a mio avviso, un tratto genetico, costitutivo, di un sesso (quello femminile) e del tutto assente nell’altro (quello maschile).

Anzi, (a voler completare il mio ragionamento) esso non è manco un dato genetico; è piuttosto un dato storico, legato alla evoluzione dei costumi che sono stati prevalenti, egemoni, fino ad ora, ma che potrebbero essere prima o poi (ed io auspico che prima o poi lo siano) superati nel futuro storico (spero neanche poi tanto remoto).

Potrebbero venir meno nel momento in cui sia gli uomini che le donne smettessero di considerarsi reciprocamente come una proprietà privata.

Ma, forse, tali cambiamenti non riguardano solo il piano psicologico, individuale, dei rapporti privati; investono anche (e io direi soprattutto) un piano che è molto più strutturale ed ampio, ha a che fare con l’economia, l’organizzazione sociale e, quindi, la cultura, l’antropologia.

Solo in una società e in una cultura in cui la “proprietà privata” non sia più il dogma-feticcio e fondante delle relazioni economiche e sociali, i rapporti uomo/donna potranno assumere caratteristiche profondamente diverse da quelle attuali.

E, forse, arrivare perfino a contraddire, invalidare la famosa (anche se un po’ oscura, perfino astrusa, quasi oracolare) tesi lacaniana dell’ “inesistenza del rapporto sessuale”.

© Giovanni Lamagna

Monogamia, poligamia e poliamore

Per quello che ne so, la gran parte degli studi antropologici ci dice che la monogamia, come struttura organizzativa fondamentale e storicamente prevalente dei legami tra maschi e femmine, sia stata inventata dai maschi.

Perché essi potessero avere 1) la (quasi) certezza dell’appartenenza biologica della propria prole e 2) una figura che garantisse l’allevamento, la cura e la crescita dei propri figli, mentre egli era lontano per motivi di caccia o di pastorizia.

Se questa ricostruzione è attendibile, la monogamia sarebbe stata dunque imposta alle femmine, anche se queste ne hanno poi tratto dei vantaggi secondari: questo tipo di organizzazione, infatti, assicurava il cibo alla prole oltre che a loro.

Gli stessi maschi poi, presso alcune società, hanno inventato la poligamia; che significava per alcuni di essi la possibilità di realizzare appieno la propria libido (tendenzialmente poligamica e non certo monogamica) possedendo più femmine; e per le femmine la dipendenza (economica, affettiva, sessuale) da un solo uomo, con il conseguente sacrificio (almeno parziale) della propria libido (tendenzialmente poligamica come quella del maschio).

La poligamia ha dunque questo dato fondamentale che la caratterizza con tutta evidenza: vale per il maschio e non per la femmina; è dunque un’organizzazione dei rapporti maschi/femmine completamente e radicalmente asimmetrica.

Da qualche decennio, soprattutto nelle società ad economia più avanzata e, quindi, più aperte ed evolutive sul piano dei costumi, è affiorata l’idea di un modo nuovo di pensare e vivere i rapporti tra maschi e femmine: quello poliamoroso.

In linea teorica il poliamore nasce come opzione valida sia per i maschi che per le femmine; si basa quindi su un’idea (finalmente) paritaria (almeno sul piano teorico-ideale) dei rapporti tra maschi e femmine.

E questo dato lo distingue nettamente e profondamente dalla poligamia tradizionale, come l’abbiamo conosciuta storicamente, presso le varie società che l’hanno istituita e praticata per secoli, in alcuni casi per millenni.

E, infatti, ci sono poliamoristi maschi e poliamoriste femmine. Ma la mia impressione (non so se ci siano anche dati statistici che lo confermano) è che ci siano molti più poliamoristi maschi che poliamoriste femmine.

Se ne può dedurre che anche il fenomeno del poliamore sia partito dai maschi, credo per portare alla luce del sole e non essere costretti a vivere più in maniera clandestina quella che è stata sempre una loro tendenza tipica: quella di avere più legami (e non uno solo) con le femmine.

Mentre ho l’impressione che la gran parte delle femmine continui a prediligere ancora oggi la coppia rigidamente monogamica, continui cioè ad avere  una struttura psicologica saldamente orientata verso la monogamia, come espressione di un sogno/mito tipico della psicologia femminile: quello dell’amore romantico.

E’ del tutto evidente, quindi, che il fenomeno poliamoroso non avrà alcuna possibilità di affermarsi su una larga scala sociale, se nelle femmine non verrà meno questo mito, quasi archetipico, così fortemente radicato nel loro inconscio.

Se, in altre parole, le donne non supereranno una concezione che, nei fatti e sui grandi numeri (fatte quindi le dovute eccezioni), le rende (ancora oggi e per molti aspetti) subalterne alla figura maschile, orientate come sono (quasi come interesse prevalente) alla ricerca dell’uomo della loro vita, l’uomo dei loro sogni.

© Giovanni Lamagna

Struttura e sovrastruttura

Il rapporto tra struttura e sovrastruttura è, a mio avviso, uno dei punti più deboli della teoria marxiana.

La concezione della “sovrastruttura ideologico-culturale” condizionata (se, non, addirittura, determinata) dalla “struttura economico-sociale” è troppo rigida, anzi infondata.

Per me tra la struttura e la sovrastruttura sussiste un rapporto non unidirezionale, ma dialettico complementare, reciproco: l’una condiziona l’altra e viceversa.

© Giovanni Lamagna

Virus terrorismo

Quando la situazione economica, sociale, culturale, politica e istituzionale di un paese è bloccata, paralizzata da forze e spinte contrapposte, molto probabilmente sta incubando il virus terrorismo.

© Giovanni Lamagna

La prima risposta (o non risposta) alla domanda di senso.

29 giugno 2015

La prima risposta (o non risposta) alla domanda di senso.

In che modo si può rispondere alla domanda: che senso ha la vita, anzi che senso ha la mia vita?

Che per me è una delle due domande fondamentali (nel senso che sono a “fondamento” di tutte le altre) e che ho definito, in una precedente riflessione, la domanda “verticale”.

Per distinguerla da quella “orizzontale”, che più o meno si chiede: come posso rimediare alla sensazione di abbandono, di disunione, che vivo dal momento in cui, con la nascita, mi sono separato da mia madre?

Le soluzioni sono le più varie. Le ha indicate bene Fromm, in particolare nel suo libro “L’arte di amare” (1953; pg. 24 – 36), ed ha ragione a dire che esse fanno parte della storia delle religioni prima e delle filosofie dopo.

Provo a sintetizzarle e a darne una mia personale lettura. In questa riflessione mi soffermerò su quella che considero la prima risposta o (meglio) “non risposta”.

Infatti alla domanda “verticale”, da cui siamo partiti, si può anche non rispondere. Nel senso che la si può evadere, rimuovere, cancellare. E’ esattamente quello che fa la maggior parte degli esseri umani.

E campa lo stesso. Sopravvive. Almeno dal punto di vista organico, fisiologico.

D’altra parte manco gli altri animali, del cui genere noi facciamo parte (non lo dimentichiamo!), questa domanda se la pongono. E campano (bene) lo stesso. Con la differenza, però, che essi ne sono incapaci. Mentre gli uomini (almeno in potenza) ne sono capaci.

La domanda di cui stiamo parlando non fa parte della “storia” degli animali. Che, a dire il vero e a rigore di termini, non hanno nemmeno una “storia”, proprio perché sono incapaci di porsi questa domanda. La “storia” nasce, infatti, nel momento in cui l’uomo (e, per quanto ne sappiamo, solo l’uomo) comincia a porsi questa domanda.

La storia è, infatti, evoluzione, cambiamento, progresso. E non c’è progresso, cambiamento, evoluzione laddove non c’è coscienza, una domanda su di sé e sulla propria direzione di marcia.

Non c’è marcia, vera marcia, laddove si è incapaci di darsi una rotta, una direzione consapevoli.

Cosa succede dunque agli uomini i quali non si pongono mai questa domanda o se la pongono di rado e molto superficialmente e subito la rimuovono, l’accantonano, come se fosse una domanda inutile, senza senso, che li distrae dalle vere incombenze, quelle pratiche, quelle legate al vivere quotidiano?

Apparentemente non succede nulla. In realtà succede molto.

Succede che l’uomo si condanna in questo modo a vivere una vita superficiale (nel senso letterale – e non solo morale – del termine), una vita tutta legata alle questioni cosiddette pratiche, di pura sussistenza.

In questo modo l’uomo sopra-vive, piuttosto che vivere. E’ trascinato dalla corrente del vivere, piuttosto che decidere (lui e non il caso o gli avvenimenti) quale direzione dare alla propria vita.

All’uomo che ha scelto di vivere così succede poi di avvertire una costante (a volte sottile e leggera, a volte grave e pesante) inquietudine, di cui egli non sa darsi ragione (visto che manco si pone certe domande) e che non lo rende non diciamo felice ma neanche veramente sereno.

Anche quando le condizioni esterne non sembrano giustificare il suo malessere (più o meno latente, più o meno avvertito). Perché, magari, ha una posizione sociale importante, una situazione economica di tutta tranquillità, delle persone che gli vogliono bene, sta bene in salute… E però non è contento, non è soddisfatto lo stesso.

Talvolta questa insoddisfazione arriva a tradursi in sintomi fisici ed allora anche la cosiddetta “salute” va in crisi: in questo caso il corpo si conforma alla mente. I medici chiamati a guarire la malattia organica spesso non la sanno spiegare. Per guarire, il soggetto in esame dovrebbe affrontare altri livelli di patologia. Ma il più delle volte i medici guardano solo al corpo, non considerano “l’anima”. Mentre è proprio qui il problema. E allora il “malato”, non certo aiutato dalla “medicina” ufficiale, si avvita in un circolo vizioso.

L’uomo, che non dà una risposta alla domanda di senso che riguarda la sua vita, si condanna, infine, a una vita a bassa intensità emotiva, affettiva, intellettuale e, quindi, spirituale.

Egli vive magari una vita esteriore estremamente frenetica, ad alta intensità dal punto di vista del movimento fisico, dell’agire pratico, delle azioni (molteplici e veloci) che compie. Ma dentro è sostanzialmente fermo.

E’ freddo emotivamente, incapace di stabilire relazioni autentiche e profonde (che non siano di puro possesso, attaccamento e dipendenza), è intellettualmente inattivo, poco o per nulla interessato alla cultura , scarsamente creativo, se non dal punto di vista della produzione della ricchezza materiale (talvolta e manco sempre).

E più inquieto è (perché evade certe domande) più è portato ad evaderle (perché esse lo rendono inquieto). In questo modo si attorciglia in un circolo vizioso.

Allora ha bisogno di stordirsi, di distrarsi, per evadere le domande scomode che ogni tanto affiorano alla sua sia pur assopita coscienza.

Ecco spiegati allora i rumori assordanti e la velocità estrema che caratterizzano la nostra epoca, almeno di noi uomini occidentali.

Perché questa evasione è sempre stata un modo di rispondere alla domanda di senso, in tutte le epoche storiche e in tutte le latitudini geografiche. Ma lo è in modo particolare oggi o, meglio, da un paio di secoli a questa parte e in questa zona del mondo, che siamo soliti definire “Occidente”. Da quando in questi territori ha avuto inizio e sviluppo la cosiddetta “rivoluzione industriale”.

Con tutti i progressi (in termini soprattutto tecnologici, scientifici e, quindi, economici), ma anche con tutti gli esiti nefasti (soprattutto in termini di distruzione dell’ambiente naturale e, per conseguenza, anche antropologici e psicologici), che essa ha comportato.

Giovanni Lamagna