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Le tre istanze fondamentali della psiche secondo la mia visione.

Una delle affermazioni più famose (se non la più famosa) di Sigmund Freud è senz’altro questa: “Wo Es war, soll Ich werden”; contenuta nel suo “Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni)”; 1980 Bollati Boringhieri, pag. 190; tradotta da Cesare Musatti con le parole “dov’era l’Es, deve subentrare l’Io”.

Cosa voleva dire il grande viennese con una tale affermazione?

A mio avviso, alcune cose molto semplici.

Innanzitutto questa: all’inizio, quando nasce e nei suoi primi mesi ed anni di vita, l’uomo è essenzialmente un fascio di impulsi o, come le chiama Freud, pulsioni, che in questa fase però assomigliano molto agli istinti animali.

In altre parole nei suoi primi anni di vita l’uomo è poco più di un animale, molto simile agli altri animali: è quindi Es (quasi) allo stato puro.

Poi, un poco alla volta, lentamente, in misura più o meno grande, a seconda delle sue caratteristiche innate (che potremmo anche considerare genetiche) e, soprattutto, delle condizioni ambientali (il contesto nel quale l’individuo nasce e cresce), sopravviene e si afferma in lui una seconda istanza psichica, che Freud definisce l’Io o l’Ego.

Che cos’è l’Io/Ego?

È la dimensione razionale della vita psichica, quella che fa prendere consapevolezza all’individuo, che non tutti i suoi impulsi istintuali, non tutte le sue pulsioni sono realizzabili, praticabili; o perlomeno non lo sono sempre e immediatamente.

Perché esiste una Realtà che spesso o alcune volte si oppone loro, con la quale il soggetto pulsionale deve fare i conti, che ne limita, frena i desideri, rimandando o negando del tutto (alcune volte) la loro realizzazione.

Per usare espressioni freudiane, sopravviene “il principio di realtà”, che si contrappone talvolta (potremmo anche dire: spesso) al puro “principio di piacere”.

In questo modo all’Es (le pulsioni iniziali, la libido allo stato puro, quasi del tutto animalesca) subentra l’Ego (la parte razionale, consapevole quindi dei limiti imposti alle pulsioni dall’impatto con la realtà).

Così il bambino cresce – passando per la fase turbinosa dell’adolescenza – e diventa uomo maturo.

Do per scontato (credo che anche Freud lo desse per scontato) che in alcuni individui questo processo di crescita e maturazione riesca di più, in altri di meno; alcuni individui rimangono sostanzialmente bambini, altri (pochi) diventano addirittura animali selvaggi, preda dei loro istinti più primitivi.

Io condivido sostanzialmente questa lettura che Freud fa della psiche umana, che egli integra poi, come è noto, con una terza dimensione, quella del Super-Ego (o Super-Io).

Che sarebbe – a suo avviso – una variante della coscienza, che impone all’uomo di limitare i suoi desideri, le sue pulsioni istintuali, ma diversa dal “principio di realtà”, che ha una sua consistenza intrinseca, oggettiva.

Il Super-Ego, invece, insorge – come fattore del tutto relativo e contingente – dal contesto ambientale, sociale, culturale, nel quale ciascun individuo nasce, cresce e sviluppa i suoi codici morali.

E’ diverso dall’Ego, perché questo si fonda su una norma intrinseca, il principio di realtà, che ha una sua valenza oggettiva, potremmo dire addirittura universale, uguale per tutti gli esseri umani, a prescindere dal contesto sociale e culturale nel quale nascono, crescono e vengono educati.

Il Super-Ego, invece, pone leggi, norme e regole estrinseche, imposte dal contesto sociale e culturale particolare nel quale l’individuo nasce e cresce, ha quindi una valenza per sua natura variabile e perciò relativa, niente affatto universale.

Ripeto, io in buona sostanza condivido questa topica, fondata sui tre pilastri dell’Es, dell’Io e del Super-Io, con la quale Freud dipinge, direi addirittura fotografa, la psiche umana.

E non ritengo che gli altri studiosi che sono venuti dopo di lui e si sono dedicati a ricerche analoghe siano stati in grado di contestarla sostanzialmente o efficacemente.

Ne hanno magari dato riletture un po’ diverse, modificate in parte, ma nella sostanza quella descritta da Freud è oramai universalmente riconosciuta, anche laddove vengono usati termini diversi o accentuata l’importanza ora dell’una ora dell’altra delle tre dimensioni della psiche umana individuate da Freud.

Per quanto mi riguarda, gli unici appunti che mi sento di muovere (si parva licet) alla teoria freudiana sono che 1) è forse un po’ troppo rigida e schematica, 2) non è del tutto chiara la distinzione tra Ego e Super-Ego; essa forse andrebbe precisata meglio.

1.Per quanto riguarda il primo punto, l’affermazione “dov’era l’Es, deve subentrare l’Io”, almeno per come è stata posta da Freud, lascia supporre una netta preferenza del fondatore della psicoanalisi per il secondo rispetto al primo.

Quasi che il primo (l’Es) fosse per lui solo o tutto negatività e il secondo (l’Io) solo o tutto positività.

In altre parole si coglie in Freud una netta simpatia per il concetto di necessità e quello di realtà rispetto a quelli di piacere e di desiderio.

Laddove io ritengo che tra i primi due concetti e i secondi due debba sussistere non una opposizione netta, come pare intenderla Freud, ma piuttosto una dialettica, una interrelazione feconda, positiva, fruttuosa, che a volte fa prevalere i primi a volte (perché no?) i secondi.

In altre parole, ancora: non ci sono dubbi che in molti casi la realtà oggettiva si opponga ai nostri impulsi istintivi e, quindi, ai nostri desideri; e, in questi casi, maturità vuole che l’Es si pieghi alla realtà diventando Io.

E’ immaturo, infantile, quindi insano, nevrotico, l’uomo che vuole forzare ostinatamente, direi capricciosamente, questa realtà.

Ma ci sono casi in cui può essere l’Es a modificare la (presunta) realtà, laddove questa non si mostri del tutto dura e insuperabile, ma plasmabile e riformabile.

In questo caso Es ed Io possono tranquillamente convivere, anzi coincidono, non sono necessariamente due realtà in antitesi, in conflitto, come a volte infondatamente siamo portati a ritenere.

In altre parole ancora: per me si tratta di essere senz’altro realisti (e in questo sono del tutto d’accordo col maestro viennese), ma non occorre essere più realisti del re (come talvolta a me pare Freud tendeva ad essere).

Sopravvalutando cioè l’ineluttabilità del “principio di realtà” (Ego) e svalutando (a mio avviso in modo esagerato) la forza creativa e generativa (e non sempre e solo dissipativa, dissolutiva e, quindi, distruttiva) delle pulsioni (Es).

In altre parole ancora: l’essere umano per mantenersi vivo deve indubbiamente prendere atto della Realtà, ma senza mai perdere contatto col suo mondo pulsionale, che talvolta lo spinge ad osare, a forzare la presunta realtà.

Laddove un eccesso di “realismo” castrerebbe inutilmente (mi verrebbe di dire sadicamente) i suoi desideri, mortificandone non solo il diritto al piacere, ma anche risorse e potenzialità.

2. Per quanto riguarda il secondo punto occorre a mio avviso fare una netta distinzione tra il “principio di realtà” (che fonda l’Io) e quello che io definirei il “pensiero comune” (oggi potremmo chiamarlo anche “mainstream”), che fonda il Super-Io.

Una corretta coscienza deve a mio avviso tener conto della realtà, non può prescinderne; in alcuni casi quindi deve sacrificare, in tutto o in parte, le proprie spinte e aspettative pulsionali.

L’alternativa è il godimento mortifero, di cui parlava Lacan, mortifero perché ha come esito fatale la dissipazione, se non la vera e propria dissoluzione, della psiche.

Una corretta coscienza individuale altresì non può non confrontarsi con il “pensiero comune”, quello prevalente in un determinato contesto antropologico, sociale, culturale e storico; l’alternativa sarebbe il delirio, la farneticazione e, in ultima istanza, l’ostracismo, se non il totale isolamento sociale.

Ma non ne può neanche essere acriticamente dipendente, con l’esito di diventare inautentica, nel senso heideggeriano del termine (“così si dice! così si pensa!); rinunciando alla propria autonomia e indipendenza di pensiero e di agire, in nome del confortevole conformismo del gregge.

Ci sono casi, situazioni, in cui la coscienza deve avere il coraggio di affermare il proprio desiderio (le proprie istanze pulsionali, quelle che affondano nell’Es) e non reprimerli: quando cioè essi non sono in (vero) contrasto col “principio di realtà” (Io); e anche a costo di andare contro il “pensiero comune”, prevalente (Super-Io).

In questi casi, forse, l’Io patirà un certo grado di sofferenza dovuta all’ostracismo e all’emarginazione sociali, ma ne guadagneranno la sua creatività e vitalità, il suo spirito di indipendenza e di autonomia, che sono e saranno sempre segni inequivocabili di una buona salute psichica, allo stesso livello del senso (necessario) di realtà.

© Giovanni Lamagna

Morte graduale… morte desiderata…

La morte, come dice Montaigne, tranne rari casi, non ci coglie mai d’improvviso, cioè nel pieno delle nostre forze.

In genere è l’atto finale, la conclusione di un più o meno graduale lento declino, di un progressivo logoramento del nostro fisico.

Per cui non uccide mai l’uomo intero che eravamo da giovani e, perfino, nella piena maturità (ovverossia tra i 40 e i 50 anni), ma solo “una metà o un quarto” dell’uomo che fummo da giovani o anche da anziani, prima di giungere cioè (semmai vi giungeremo) alla tarda età.

La morte – in certi casi – potrà giungere persino come consolazione, cioè come conclusione desiderata di una vita capace oramai di offrire solo pene e nessuna o ben poche gioie.

© Giovanni Lamagna

Maturità, abitudini e sano discernimento

Un uomo maturo dovrebbe sottoporre al vaglio del discernimento, cioè di un’analisi razionale e consapevole, le abitudini acquisite da bambino, trasmessegli dall’ambiente in cui è cresciuto.

Mantenendo solo quelle buone e sane, abbandonando quelle cattive e malsane.

Ma quanti sono gli uomini maturi (maturi psicologicamente, spiritualmente, e non solo anagraficamente) capaci di fare questo giusto discernimento e attuare le scelte che ne dovrebbero conseguire?

© Giovanni Lamagna

Si può essere non comunisti, non più giovani e vivere ugualmente ideali ed emozioni forti?

Nel suo bel libro “Soli eravamo…” (2014; editore: ad est dell’equatore)), Fabrizio Coscia nel capitolo intitolato “il giorno che diventai comunista” così scrive (pag. 162-163):

Ai tempi del liceo mi consideravo a tutti gli effetti un postsessantottino, benché nel ’68 avessi solo un anno. Ma tant’è. Erano sottigliezze anagrafiche a cui non badavo. Ho votato per Democrazia Proletaria e continuato a studiare Marx per qualche anno. Simpatizzavo per l’Olp e le Black Panthers, mi piaceva Dario Fo, ascoltavo “La locomotiva” di Guccini”, leggevo “Le ceneri di Gramsci” di Pasolini e divenni un fanatico di Bertolt Brecht.

Per poi proseguire con una domanda:

Oggi che non sono più comunista, mi chiedo come abbia fatto, in quegli anni, a sopportare tanta retorica ideologica, uscendone più o meno indenne.

E darsi la seguente risposta:

Sarà che ero giovane, e che forse comunisti davvero, con tutto l’ardore e la passione dell’idea comunista lo si può essere soltanto da giovani.

E subito dopo:

Però non capisco perché, oggi, nonostante non sia più comunista e non abbia più vent’anni, le immagini dei caccia che bombardano il Palacio de la Moneda, l’11 settembre 1973 a Santiago del Cile, e quelle di Salvador Allende assediato che si difende con l’elmetto e il fucile mitragliatore regalatogli da Fidel Castro suscitano in me una grande emozione. Così come il “sorriso aperto” di Victor Jara e il canto popolare di Violeta Parra. O come “El pueblo unido jamas serà vencido”, quando lo canto in macchina, ancora adesso, insieme a mia figlia.

E darsi la seguente spiegazione:

Magari sarà solo nostalgia dei tempi andati, oppure il rimpianto di qualcosa, in quell’idea meravigliosamente utopistica, che poteva andare in maniera molto diversa da come poi è andata.

Queste parole di Fabrizio Coscia mi hanno particolarmente colpito per almeno due motivi che vorrei qui di seguito illustrare.

Il primo motivo è che io (al contrario di Fabrizio Coscia) non sono mai diventato e stato comunista, perché non ho mai condiviso (manco da giovane) l’idea che per realizzare la piena eguaglianza sociale bisognasse instaurare una dittatura, fosse anche quella del proletariato.

Non sono mai diventato e stato comunista, pur avendo molto amato le canzoni degli Inti-illimani (tra le quali, ovviamente, “El pueblo unido…”) e quelle di Violeta Parra. Pur avendo conosciuto e apprezzato molto il pensiero di Carl Marx (che considero uno dei massimi pensatori economico-sociali della storia). Pur avendo votato sempre a sinistra (prima il PCI di Enrico Berlinguer, poi il Pdup di Lucio Magri, poi – a varie riprese – Rifondazione Comunista…). Pur avendo amato molto Dario Fo e Pier Paolo Pasolini, meno le canzoni di Guccini (che giudico deboli e noiose musicalmente per i miei gusti) e le opere di Brecht (che però – confesso la mia ignoranza– conosco ben poco).

Il secondo è che ho vissuto le vicende del Cile di Allende quando ero un uomo già adulto, non più giovanissimo e meno che mai un ragazzino (come era invece in quegli anni Fabrizio Coscia). Le ho vissute, quindi, intensamente; e non solo con grande partecipazione emotiva ma anche con grande consapevolezza politica.

Ricordo benissimo, dunque, che Allende non era affatto comunista, bensì un socialista democratico e, tuttavia, pienamente conseguente con le sue idee: voleva cioè realizzare il socialismo in maniera pacifica e non violenta, attraverso riforme democraticamente approvate in Parlamento (a cominciare dalla sacrosanta nazionalizzazione delle miniere di rame, prima in mano alle multinazionali); e in questo modo scatenò la reazione dei “democraticissimi” Stati Uniti d’America.

Questi due dati di fatto (anagrafici, anzi biografici) hanno quindi stimolato in me le riflessioni che seguono:

1. Si può essere giovani senza per questo sentire il bisogno di diventare comunisti, senza dunque per forza di cose diventare vittime della “retorica ideologica” che il Coscia diventato adulto giudica oramai insopportabile.

2. Non è necessario essere giovani per coltivare degli ideali e, persino, delle utopie. Gli ideali senz’altro, ma forse anche le utopie, possono entrare a far parte a pieno titolo dei bagagli che una persona si può portare appresso anche in età adulta e perfino da anziano: non sta scritto da nessuna parte che la maturità e persino la vecchiaia debbano essere fatalmente le età del disincanto e delle amare disillusioni, madri e padri del cinismo, se non della disperazione.

3. Quelli che cadono in età adulta (ed è giusto sia così) sono i falsi ideali e le utopie senza nessun contatto con la realtà. Non è destino, invece, che debbano tramontare gli ideali e persino le utopie che hanno un fondamento nella realtà, cioè nella universale esigenza umana di libertà, uguaglianza, fratellanza, ideali che saranno pure utopici, ma che, come dice bene Galeano, hanno la funzione ben reale di aiutare gli uomini a camminare sulla strada del progresso sociale e civile.

4. Non c’è quindi alcuna contraddizione tra l’essere diventati oramai persone mature o (come nel mio caso) addirittura anziane e continuare a provare emozioni ancora molto forti al ricordo dei fatti cileni del 1973 o ascoltando le canzoni di Violeta Parra e degli Inti-illimani.

Anzi continuare a provarle in tarda età è segno di buona salute psicologica.

Queste emozioni (almeno nel mio caso) non possono essere ridotte dunque (come pensa di sé Fabrizio Coscia) alla nostalgia o al rimpianto per i bei tempi andati. Perché affondano le radici in ideali e convinzioni che sono ancora in me ben presenti, vive e vitali, niente affatto tramontate.

© Giovanni Lamagna

La mia testimonianza al convegno per i 50 anni di vita della Comunità cristiana di base del Cassano.

8 giugno 2019

Cari amici, compagni e fratelli,

mi sono domandato tempo fa come avrei potuto impostare questa testimonianza che mi avete chiesto in occasione dei 50 anni di vita della vostra/nostra comunità. E mi sono orientato a donarvela sotto forma di lettera, mi verrebbe di dire di epistola, per fare un esplicito riferimento ad un termine utilizzato nella tradizione biblica, neotestamentaria.

Ho pensato di farlo per almeno due motivi. Il primo è di ordine comunicativo: chi mi conosce bene sa che ho difficoltà a parlare a braccio (mi confondo, perdo il filo, non riesco a dire tutte le cose che vorrei…), mentre me la cavo un po’ meglio quando scrivo.

Il secondo motivo è che in questo modo potrò lasciare agli atti di questo convegno il testo della mia testimonianza, se (come prevedo) non riuscirò a leggerla tutta restando nei tempi che mi avete assegnato. E così chi di voi ne avrà voglia potrà continuare a leggersene la restante parte. Scripta manent!

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Come avrete notato, ho iniziato questa mia epistula con tre termini: amici, compagni e fratelli. E l’ho fatto non per retorica, ma perché essi mi sono molto cari, sono per me tutti e tre carichi di significato. E lo sono perché esprimono bene la mia storia umana, culturale e politica.

Ma l’ho fatto anche perché esprimono bene i valori fondamentali che mi hanno sempre unito e ancora oggi mi uniscono a voi.

Se ci pensate i tre termini – amici, compagni, fratelli – sono collegati (ciascuno in modo più specifico ad una di esse) alle tre culture fondamentali che hanno costituito l’architrave della mia (ma credo di poter dire anche nostra) storia umana, culturale e politica: quella liberale, quella socialista e quella cristiana, con i loro tre valori fondamentali di libertà, uguaglianza e fraternità.

Mi verrebbe di dire – senza tema, credo, di apparire troppo presuntuosi – che la nostra vita si è svolta all’insegna di quelli che, a mio modesto, ma fermo, avviso, dovrebbero essere i tre valori portanti di una nuova cultura politica, che io spero prima o poi – nonostante i segnali contraddittori che sembra oggi consegnarci l’attualità – possa caratterizzare la scena del XXI secolo: i valori della libertà, della uguaglianza e della fraternità, appunto!

Valori che nella storia finora sono apparsi sempre scissi, come se fossero inconciliabili tra di loro, e che noi, invece, abbiamo sempre considerati e vissuti come inscindibili, inseparabili l’uno dall’altro.

Non può esserci, infatti, per noi vera libertà separata dall’uguaglianza, come non ci può essere vera uguaglianza separata dalla libertà.

E, soprattutto, libertà e uguaglianza non bastano a garantire una società veramente e pienamente umana senza la fraternità.

Come la fraternità è ipocrita, puro sentimentalismo paternalistico, senza la sussistenza della libertà e dell’uguaglianza effettive e non solo formali (cioè non solo astrattamente giuridiche) tra gli uomini.

Ecco questa è la prima testimonianza che intendevo darvi quest’oggi: le nostre vite, al di là degli alti e bassi dei nostri rapporti concreti, hanno viaggiato mi sembra di poter dire sempre all’unisono durante tutti questi anni su questi tre binari valoriali, etici, ma io credo di poter dire soprattutto spirituali: il binario della libertà, quello della uguaglianza e quello della fraternità. Per cui sono stati veri rapporti di amicizia, di compagneria (se si può usare questo termine) e di fraternità.

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Certo, poi (come dicevo prima) nei nostri rapporti ci sono stati alti e bassi, nel senso che ci sono stati momenti in cui ci siamo frequentati di più e momenti in cui ci siamo frequentati di meno, momenti in cui abbiamo condiviso più cose e momenti in cui ne abbiamo condivise di meno.

Mi viene allora spontaneo fare una piccola storia di questi nostri rapporti, distinguendola in tre fasi principali, che corrispondono poi grosso modo alle tre stagioni principali della nostra (oramai abbastanza lunga) vita.

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La prima fase è quella che inizia addirittura con la nostra adolescenza e si prolunga fino alla nostra prima giovinezza. Per quanto mi riguarda va (più o meno) dall’anno 1962 all’anno 1973. Comprende quindi circa 11 anni.

Ci siamo conosciuti con alcuni di voi (Gennaro Sanges, Aldo Bifulco, Ezio Esposito, Corrado Maffia…) nell’oramai lontano 1962, al Centro Diocesano dell’Azione Cattolica napoletana in Largo Donnaregina. Io ero delegato aspiranti di una piccola parrocchia dalle parti di via Arenaccia: stavo ancora al ginnasio, al Garibaldi. Gennaro e Aldo erano i delegati della parrocchia del Vasto con padre Errico. Ezio e Corrado (che si occupava degli juniores) venivano dalla parrocchia di piazza Capodichino.

Un poco più tardi (ma solo un poco) ho conosciuto poi Mario Corbo, Rosario Sanges e Benedetto Musacchia, della parrocchia del Vasto, e quindi Nello Esposito, Donato Michini della parrocchia di Capodichino.

Importante tramite tra di noi in quel periodo fu Biagio Passaro, che era mio compagno al ginnasio-liceo Garibaldi, ma abitava a San Pietro a Patierno (zona limitrofa a Capodichino) e nella parrocchia di san Pietro faceva anche lui il delegato aspiranti.

Che anni sono stati quegli anni!

Anni in cui ognuno di noi era alla ricerca di un suo percorso di fede più autentica, più vera e personale, che andasse oltre la religiosità un po’ ritualistica, tradizionale e, diciamolo pure, anche un po’ bigotta, che ci avevano trasmessa i nostri genitori e i preti delle parrocchie che frequentavamo.

E questa ricerca, anche se forse non proprio in una forma esplicita e molto palese, ci accomunava, si sentiva che era qualcosa che ci metteva assieme.

In questo ci aiutava molto l’atmosfera del Concilio, indetto da papa Giovanni (guarda caso!) nel 1962 e durato fino all’8 dicembre del 1965, che segnò (come tutti sappiamo) una svolta nella storia della Chiesa, potremmo dire la fine della Chiesa tridentina, chiusa al mondo moderno, e l’inizio della Chiesa ecumenica, aperta alla modernità, anzi alla contemporaneità.

Sono stati questi gli anni, penso per ciascuno di noi, dell’incontro più intimo e personale col Vangelo e con la figura di Gesù (ricordo l’importanza fondamentale che ha avuto per me la lettura dei libri di Carlo Carretto, di Arturo Paoli, di Renè Voillaume, di Jacques Maritain) con la spiritualità dei Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld e con quella dei Focolarini, che pure nella loro grande diversità (l’una più contemplativa, l’altra più sociale ed attiva) hanno contribuito a fornirmi modelli di Cristianesimo nuovi, meno ritualistici e più autentici, proprio quelli che sia io che voi, per vie magari un po’ diverse tra di loro, andavamo già cercando da qualche anno, anche se ancora all’interno dell’alveo tradizionale e un po’ protettivo delle nostre parrocchie.

Poi è venuto il momento del distacco pure da questa dimensione. Io sono andato per due anni e mezzo a Loppiano, presso la cittadella internazionale dei Focolarini vicino Firenze e sono stato lì per due anni e mezzo (dagli inizi del 1967 fino alla metà del 1969).

Al ritorno da questa esperienza (a Loppiano avevo capito con chiarezza oramai che la strada dei focolarini non era propriamente la mia), dopo circa un anno e mezzo (credo dovesse essere il 1971) ci siamo incontrati di nuovo: la Comunità (non ancora del Cassano) si era appena avviata, frutto sostanzialmente dell’incrocio dei due gruppi di Azione Cattolica del Vasto e di Capodichino.

Ricordo di aver conosciuto allora Remigio Raimondi e la fidanzata Rita Esposito, Antonia Melino (fidanzata con Corrado), Marinella Filosa (fidanzata con Mario), Rosa Raimondi (fidanzata con Aldo), Elisa Palmieri (fidanzata con Gennaro).

Molte riunioni della Comunità in quell’anno tra il 1971 e il 1972 si svolsero proprio a casa mia o meglio presso la casa dei miei genitori, in via colonnello Lahalle, 24, dove io abitavo ancora in quanto studente universitario di filosofia.

In quella fase era forte tra di noi il desiderio di recuperare lo spirito dei primi cristiani e delle loro piccole comunità, al di fuori dei formalismi e delle liturgie delle parrocchie, all’interno delle quali tutti noi avevamo incontrato il cristianesimo.

Poi nel 1972 mi sono laureato e a settembre di quell’anno sono partito per il militare, che ho fatto a Roma, a Pietralata. Ricordo che all’epoca, per respirare aria di comunità, il sabato pomeriggio andavo alla basilica di san Paolo, dove si riuniva la comunità di Giovanni Franzoni e spesso vi tornavo anche la domenica mattina per la messa, in una basilica enorme eppure strapiena di gente, che veniva per ascoltare le bellissime omelie di Giovanni.

E’ stato quello l’anno in cui ho maturato il mio distacco finale dalla fede. Ricordo di aver ricevuto la mia ultima ostia eucaristica proprio dalle mani di Giovanni Franzoni nella basilica di san Paolo.

Ma il distacco era maturato gradualmente negli ultimi tre anni di Università, sotto gli stimoli dei libri di filosofia che andavo leggendo, ma soprattutto di un libro che ha segnato la mia vita, “L’arte di amare”, di Erich Fromm.

E’ stato quindi un distacco graduale, leggero, mi verrebbe di dire soft, che non ha avuto nulla di traumatico. Perché in realtà io non ho mai smesso di credere in Gesù Cristo, nel senso di amarlo come un mio Maestro fondamentale di vita.

Ho “solo” smesso di considerarlo “il figlio di Dio”, perché ho smesso di credere nell’esistenza di un Dio, separato da questo mondo; cosa che (più ci penso e più mi appare chiaro) non mi sembra l’essenza del messaggio che ha voluto lasciarci Gesù.

Che sta piuttosto in questo: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato!”. Nell’amore tra gli uomini, dunque, non nella fede in un Dio trascendente.

E qui, in questo anno, il 1973, io considero chiusa la prima fase della nostra storia, di noi come persone singole e di noi come amici e come fratelli, non ancora compagni: non avevamo, infatti, ancora scoperto la politica come impegno grosso, centrale, della nostra vita.

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E’ iniziata a questo punto una seconda fase della nostra vita: la fase della maturità. Quella del lavoro, del matrimonio, della famiglia, dei figli, per molti di noi dell’incontro con la politica, della scelta a sinistra, cioè dalla parte dei lavoratori, della lotta per un mondo più giusto, più equo, più solidale, oltre che più libero.

Qui le nostre strade si sono (almeno fisicamente) divaricate abbastanza e per un bel po’ di tempo. Io incontravo spesso Gennaro, Aldo, Benedetto, ma quasi sempre al sindacato o nei luoghi della politica.

Non più negli spazi della Ecclesia tradizionale, nei quali ci eravamo conosciuti, o della comunità di base, nei quali ci eravamo incontrati un poco più tardi, dopo un breve e provvisorio distacco.

Voi, invece, avete continuato fedeli, tenaci, direi perfino testardi e quasi imperterriti, nel vostro cammino di comunità. Io me ne sono fisicamente allontanato.

E non perché fosse venuta meno in me analoga esigenza, ma perché sentivo, avvertivo, che l’esperienza di una comunità di fede (quale fede poi, se non ce l’avevo più?) mi stava stretta.

Continuavo a sentire ancora (come sento del resto ancora tuttora) l’esigenza della comunità, ma di una comunità che uscisse dai confini ristretti della Chiesa e si aprisse all’universo mondo.

Avvertivo, in altre parole, l’esigenza di una comunità radicalmente laica, fondata certamente sull’amore: da questo punto di vista il valore della libertà e quello dell’uguaglianza non mi sono mai bastati come valori ispiratori fondanti del mio impegno politico.

Ma un amore totalmente profano, nel senso letterale del termine: un amore cioè vissuto “fuori dal tempio”. Il “tempio mi era divenuto inutile”, aspiravo ad abitare “la città planetaria”, per usare termini che ho ritrovato poi, qualche anno più tardi, nelle parole di un nostro comune maestro.

Non a caso questi sono stati gli anni in cui per me hanno acquistato sempre più importanza l’incontro (in questa fase solo teorico e conoscitivo) con la psicoanalisi e l’esperienza (questa, per fortuna, soprattutto pratica e vissuta) della sessualità.

Che io avevo visto (ed esperito) sempre come un po’ castigata (per non dire decisamente repressa) all’interno dell’esperienza religiosa, per quanto aperta, avanzata, rivisitata, modernizzata essa fosse.

E qui ci sarebbe molto da dire ed approfondire. Ma non lo faccio, perché il discorso mi prenderebbe la mano e sforerei di troppo i tempi del mio intervento.

Dico solo che in questi anni al mio primo Maestro, quello della mia (nostra) adolescenza e della mia (nostra) prima giovinezza, che è stato Gesù, se ne sono aggiunti (almeno) altri due, che io considero di (quasi) uguale importanza, Marx e Freud.

Che hanno rappresentato sul piano simbolico i due binari fondamentali lungo i quali ha camminato poi in seguito la mia vita: – quella di una ricerca interiore, introspettiva, intrapsichica, quasi di autoanalisi continua, – e quella dell’impegno sociale e politico, di attenzione, altrettanto continua, alla realtà esterna che ci circonda.

E in questi anni (purtroppo!) i nostri rispettivi percorsi hanno camminato un po’ distanti. Mai del tutto divaricati e però quasi sempre paralleli: solo di tanto in tanto, infatti, solo raramente si incontravano, sia sul piano materiale, dell’incontro fisico, sia sul piano spirituale, del confronto di anime.

Di questi anni – diciamoci la verità – io so poco di voi: quel poco che so l’ho appresso dal libro che avete pubblicato in occasione dei primi 25 anni di vita della Comunità. Ma anche voi sapete poco di me.

Oggi in parte, ma ovviamente solo in piccolissima parte, ho riempito questo vuoto: questo era il senso e la motivazione del mio breve racconto di questa fase.

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Passo, quindi, rapidamente alla illustrazione di quella che ritengo la terza fase dei nostri rapporti, che incomincia con quello che per me e per la maggior parte di noi è stato l’inizio della terza età. L’inizio di questa fase io lo situo anagraficamente per me attorno ai 54/55 anni, quindi attorno agli anni 2001/2002.

Attorno a questi anni incomincia una nuova fase della mia vita non solo fisica e anagrafica, ma soprattutto psicologica. Perché recupero, gradualmente, ma sempre più distintamente, con sempre maggiore energia e consapevolezza, quella che era stata una dimensione che (a dire il vero) non mi aveva mai abbandonato del tutto, ma che negli anni della maturità, negli anni di mezzo della mia vita, avevo messo un po’ in secondo piano: la dimensione della spiritualità, della contemplazione, in altre parole potrei definirla pure della ricerca della Sapienza (Sapienza con la S maiuscola): la dimensione che oggi non esiterei a definire perfino religiosa della mia vita.

Anche se una dimensione del tutto laica, fondata su nessuna fede cieca e su nessun libro sacro. Religiosa nel senso semplice ma letterale del verbo “religo”, ovverossia del sentirmi membro dell’intera famiglia umana, quindi legato essenzialmente, strutturalmente a ciascun componente di questa famiglia, anzi (di più) frammento dell’intero universo, quindi legato al Cosmo intero e non solo all’Umanità in quanto specie.

E, infatti e non a caso, il “sentimento cosmico” (come lo ha spesso descritto  Einstein) o il “sentimento oceanico” (come lo hanno definito Romain Rolland e Sigmund Freud in un loro celebre scambio epistolare) è ciò che caratterizza specificamente la mia religiosità attuale e ritrovata, che è poi null’altro che la mia spiritualità rinsaldata e maggiormente consapevolizzata.

Sulla base di una convinzione forte che mi ha accompagnato sempre in questi ultimi anni: “la spiegazione razionale del mondo divulgata dalla scienza ha inesorabilmente corroso lo spazio sacro, che è il (….) naturale dominio” (delle religioni), ma non ha rese superate le domande da cui sono nate le religioni. Che sono poi “domande di senso”: le stesse a cui cerca di rispondere la filosofia.

Ora quali ricadute ha avuto questo mio percorso spirituale sui nostri rapporti? E’ successo (e per me mai niente succede a caso) che abbiamo ripreso a vederci più spesso, non solo in ambiti politici, ma anche alla Scuola di pace e anche qui, in alcuni omenti di incontro della comunità.

Dove alcuni miei interventi di riflessione politica ma anche filosofica (filosofica, proprio nel senso letterale di cui dicevo prima, di amore e ricerca della Sapienza) sono stati riconosciuti e (perfino) utilizzati in alcune vostre “liturgie” (se posso ancora continuare a chiamarle così) o momenti di riunione.

Fino all’ultima scoperta (per me molto piacevole) che per voi si era aperto un cammino di riflessione e ricerca che dalla dimensione religiosa si spostava nettamente (se non proprio esclusivamente) sulla dimensione spirituale, attraverso il superamento della stessa religione.

Quindi non più o non tanto l’esperienza di una “religiosità altra” e, per conseguenza, di una “Chiesa altra”, ma il superamento della stessa religiosità e, quindi, dei confini stessi della Chiesa.

Dell’abbattimento perciò di tutti gli steccati che separano una comunità cristiana (per quanto di base) dall’universale e (mi verrebbe di dire: scusate il gioco di parole) comune comunità degli uomini.

Qui, se questo vostro cammino dovesse andare avanti e arrivare alle sue estreme conseguenze, i nostri rispettivi percorsi potrebbero di nuovo incrociarsi e forse addirittura tornare a coincidere. Come in cuor mio mi auguro e vi auguro.

E non certo perché sia cosa importante che questo succeda: in fondo ci vogliamo già bene così e continueremmo a volercene anche se continuassimo a camminare su strade un po’ diverse.

Ma perché questo fatto sarebbe la realizzazione di quanto auspicato da un uomo che molti di noi qui presenti hanno sicuramente molto amato e molto stimato, un uomo che è stato uno dei profeti più importanti della Chiesa cattolica del ‘900: sto parlando di Ernesto Balducci.

Che in un suo libro bellissimo del 1985, “L’uomo planetario”, già profetizzava l’avvento di “una nuova epoca per la spiritualità umana”. E lo faceva più di 30 anni prima che John Shelby Spong, Maria Lopez Vigil, Roger Lenaers e Josè Maria Vigil scrivessero il loro “Oltre le religioni”, che so essere stato al centro della vostra riflessione/meditazione all’incirca un anno fa.

In questo libro, che sicuramente molti di voi avranno letto, Ernesto Balducci parlava dell’uomo planetario in questi termini (ne cito i paragrafi finali):

L’uomo planetario è l’uomo postcristiano, nel senso che non si adattano a lui determinazioni che lo separino dalla comune degli uomini.

Liberata dalle sue obiettivazioni ontologiche e restituita alla sua dinamica esistenziale, che cos’è l’Incarnazione se non un’immersione di Dio nell’umano, in virtù dell’amore che di Dio è la stessa essenza?…

… La qualifica di cristiano mi pesa. Mi dà soddisfazione sapere che i primi credenti in Cristo la ignoravano…

… Non sono che un uomo: ecco un’espressione neotestamentaria in cui la mia fede meglio si esprime. E’ vicino il giorno in cui si comprenderà che Gesù di Nazaret non intese aggiungere una nuova religione a quelle esistenti, ma, al contrario, volle abbattere tutte le barriere che impediscono all’uomo di essere fratello all’uomo e specialmente all’uomo più diverso, più disprezzato…

… E’ questa la mia professione di fede, sotto le forme della speranza. Chi ancora si professa ateo o marxista o laico e ha bisogno di un cristiano per completare la serie delle rappresentanze sul proscenio della cultura, non mi cerchi.

Io non sono che un uomo.”

E’ questa la mia stessa professione di fede. In essa mi riconosco pienamente. Ci tenevo a darvene testimonianza in questa occasione in cui festeggiamo i 50 anni della vostra/nostra Comunità.

Con i migliori auguri, il vostro affezionato amico, compagno e fratello!

Giovanni Lamagna

Evoluzione o involuzione?

28 novembre 2016

Evoluzione o involuzione?

Ogni uomo avverte dentro di sé un bisogno (per alcuni molto impellente, per altri meno) di unificarsi, di dare cioè una direzione precisa e decisa al suo cammino.

Di superare cioè le oscillazioni, i tentennamenti, le molte contraddizioni e incoerenze che ne caratterizzano, in genere, la prima parte.

Di solito ci si riesce (quando ci si riesce) al termine della giovinezza, quando entriamo in quella fase della vita che si è soliti definire della maturità.

Prima di essa la nostra identità era in genere piena di conflitti, sottoposta a spinte contrapposte, spesso contraddittorie.

Alcune che andavano nella direzione della nostra espansione ed evoluzione. Che miravano alla nostra crescita e vitalità spirituale.

Altre che andavano nella direzione opposta, quella della conservazione e involuzione: vere e proprie spinte verso la morte spirituale.

L’unificazione di cui parlavo all’inizio può avvenire allora o sotto il segno prevalente delle prime o sotto quello prevalente delle seconde.

Niente è scontato. Tutto, invece, dipende da noi.

Viene un momento in cui ognuno di noi è chiamato a scegliere. E da questa scelta dipenderà se la sua vita prenderà la prima o la seconda delle direzioni di marcia.

Giovanni Lamagna

Le stagioni della vita.

Le stagioni della vita.

 

La vita è fatta, come sappiamo bene tutti, di stagioni.

Per la maggioranza degli uomini ci sono stagioni più belle ed altre più brutte.

La loro bellezza o bruttezza sarebbe congenita, segnata dalla biologia e fisiologia, in altre parole dalla natura.

Sempre per la maggioranza degli uomini, le stagioni più belle sarebbero l’infanzia, la fanciullezza e la giovinezza.

Quella indubitabilmente (?) più brutta la vecchiaia.

Per me, invece, che oramai le ho attraversate tutte e sono all’ultima tappa del mio viaggio, non c’è una stagione più bella e una più brutta. Ogni stagione della vita ha le sue bellezze e le sue pene, le sue gioie e i suoi dolori, le sue allegrie e le sue tristezze.

L’infanzia è, infatti, la stagione della “beata” incoscienza.

Ma anche della dipendenza dagli altri, anzi della simbiosi con le figure genitoriali, specie con la figura materna. Quindi dell’assenza totale di autonomia e libertà.

La fanciullezza è essenzialmente l’età della spensieratezza e del gioco, delle prime scoperte, quindi della meraviglia.

Ma il fanciullo è ancora fondamentalmente dipendente dagli altri, specie dai suoi genitori. Quindi è poco o per niente libero. Non può ancora godere, pertanto, se non in misura molto limitata, di beni preziosi come l’autonomia e la libertà che ne consegue.

L’adolescenza è l’età del distacco dalle figure genitoriali, quindi dell’inizio dell’indipendenza.

Ma, spesso, anche della frustrazione dei desideri, cui si collegano ribellione e rabbia.

E’ l’età della scoperta del sesso e dell’eros.

Ma anche dei turbamenti che tale scoperta comporta. Oltre che dell’inadeguatezza tra desiderio erotico/sessuale e possibilità concrete, pratiche di soddisfarlo.

La giovinezza è l’età della massima vitalità sessuale ed erotica, della fine degli studi e della ricerca del lavoro e, quindi, della piena autonomia psicologica, oltre che economica. E’, forse, l’età del massimo edonismo.

Ma anche delle ansie dovute alla propria inesperienza del mondo e alle incertezze sul proprio futuro.

La maturità è (o dovrebbe essere) l’età del pieno esercizio del sesso e dell’eros, della procreazione, del lavoro avviato e consolidato, dei riconoscimenti professionali, dell’impegno sociale e politico.

Ma è anche l’età in cui bisogna faticare di più e sperimentare, praticare il senso di responsabilità (che comporta oneri e inquietudini oltre che onori e gioie) verso di sé e,( forse, soprattutto) verso gli altri.

La vecchiaia è l’età dei bilanci, a volte tristi, a volte allegri, ma sempre in qualche modo melanconici.

E’, infine, l’età del distacco e delle separazioni, in preparazione (si spera non troppo angosciosa) del distacco e della separazione ultimi, definitivi.

Ma può essere anche (almeno per alcuni fortunati) l’età della meditazione e della contemplazione.

La vecchiaia, dunque, non è destinata ad essere fatalmente la stagione più brutta della vita. Perché può essere l’età della serenità massima o della depressione massima.

Il suo esito non è predestinato: dipende molto da come si sono vissute le stagioni della vita che la precedono.

Ognuno dunque si ritrova (si potrebbe dire un po’ cinicamente) la vecchiaia che si è meritato. O, meglio, forse, quella che è stato capace (in base al suo patrimonio genetico e al contesto familiare, sociale, ambientale in cui è vissuto) di costruirsi con gli anni dell’intera sua vita.

 

Giovanni Lamagna

Conclusioni (Genesi 2,7 – 3,24).

9 novembre 2014

Conclusioni (Genesi 2,7 – 3,24).

Sono giunto al termine del mio viaggio all’interno di Genesi 2,7 – 3,24. Tiro quindi qualche conclusione.

E’ del tutto evidente che il racconto biblico non è un racconto storico. Ma non è neanche una semplice favoletta. Rientra piuttosto nella categoria dei miti, cioè di quei racconti che, pur se sotto forma di “favola” (ci sono aspetti favolistici nel mito), tendono a dire cose che hanno a che fare con “i misteri del mondo, le sue origini, i suoi valori, il suo senso”, con la natura profonda dell’uomo, addirittura con i suoi archetipi, direbbero gli junghiani.

Come tutti i miti, quindi, esso non va preso alla lettera, ma interpretato. Anche alla luce della propria cultura, quindi al di fuori del contesto storico e/o geografico nel quale esso è nato ed è stato trascritto.

Quattro sono le figure principali che animano il mito di Genesi e due i contesti spaziali nei quali esse si muovono ed agiscono. Ogni figura interpreta un ruolo ed ha un significato. Anche i due contesti spaziali lo hanno.

Il primo attore del mito è Dio il Signore, che nel mito della Genesi, a mio avviso, rappresenta la Legge o, meglio, la cattiva coscienza dell’uomo, il Super Ego, la segnalazione del Limite, oltre il quale si corre il rischio della “caduta”, della perdizione e, quindi, della condanna.

Il secondo attore è il serpente, il quale, secondo la mia interpretazione, in questo mito rappresenta il Desiderio, che è il motore di ogni azione dell’uomo.

Rappresenta, quindi, secondo il linguaggio psicoanalitico, l’Es. Che, lasciato allo sbando, cioè senza il confronto con la Realtà e quello con la Legge, condanna l’uomo alla perdizione.

L’uomo, a mio avviso, si trova ad agire, a navigare sempre tra le opposte rive di Scilla, cioè della Legge, e di Cariddi, cioè del Desiderio.

Se rinuncia del tutto al Desiderio si condanna all’inazione e alla passività.

Se vive solo in funzione della Legge e della repressione del Desiderio, diventa triste, malinconico.

Se si abbandona del tutto al Desiderio, si condanna alla dissipazione e alla disintegrazione interiore.

Se ignora del tutto la Legge, non è in grado neanche di godere pienamente del desiderio, perché l’esistenza della Legge, lungi dal deprimere il desiderio, lo esalta.

Adamo, in questo mito, rappresenta l’Uomo ad uno stadio ancora “bambino”.

E non certo perché cede alla tentazione del suo desiderio. Non sarebbe stata, infatti, una scelta saggia obbedire a una Legge che lo voleva “felice” ma, al contempo, non libero e non consapevole. Quanto perché non sa assumersi la responsabilità dell’azione commessa. Addirittura la scarica sulla sua compagna Eva.

Adamo è dunque l’Uomo ancora bambino, che deve ancora crescere. E molto!

Eva dimostra maggiore maturità rispetto al compagno Adamo. Se non altro è più coraggiosa e intraprendente. Ma anche lei, di fronte alla voce della sua coscienza che la rimprovera, non sa assumersi fino in fondo la sua responsabilità e la scarica puerilmente sul serpente.

Anche Eva è dunque una donna ancora bambina, ha bisogno di crescere. E molto!

Entrambi, Adamo ed Eva, nel mito di Genesi rappresentano dunque l’Umanità nella fase, nello stadio che potremmo definire della fanciullezza. Ci vorranno ancora alcuni millenni perché l’Umanità arrivi allo stadio della sua piena maturità, impari cioè a riconoscere fino in fondo il proprio desiderio, ad affermarlo anche di fronte alla Legge, senza farsene del tutto inibire, ma senza neanche farsi del tutto travolgere da un desiderio senza Legge.

Oggi, forse, l’Umanità (almeno quella del mondo occidentale industrializzato evoluto) si trova nella fase della sua adolescenza, in una fase in cui ha imparato a riconoscere e ad affermare il suo Desiderio, ma prescindendo totalmente dalla Legge, come se questa non avesse più nessun senso e nessuna funzione.

I due contesti spaziali del mito a cui accennavo all’inizio sono quello dell’Eden, cioè del Paradiso in terra, e quello del Mondo alla sua alba, cioè alla preistoria dell’Umanità.

L’Eden, più che il Paradiso perduto, come vorrebbe farci intendere il Mito, è il Mondo come l’Umanità lo sogna, è l’Utopia, il Mondo come l’Uomo vorrebbe che fosse o diventasse. E’ il Mondo del futuro (auspicato e sognato) e non del passato (di cui si ha nostalgia e rimpianto).

Il Mondo della preistoria, il mondo nel quale l’Uomo è stato gettato a vivere quando è comparso sulla terra, è un luogo infame, inospitale, dove l’uomo è costretto a un duro lavoro per procurarsi il cibo e la donna è costretta alle doglie tremende (talvolta mortali) del parto per assicurare continuità alla specie.

Non è il luogo a cui l’Uomo è stato condannato dopo aver commesso una colpa, ma è il luogo a cui lo ha destinato la Natura, che proprio così lo ha pensato e creato.

Sarà l’Uomo, se vorrà e se ne sarà capace, (e nessun Dio al suo posto) a renderlo un posto meno inospitale e più a dimensione dei suoi desideri.

Ma, per realizzare il suo desiderio, l’Uomo ha bisogno di coltivare un sogno, anzi un’utopia. L’utopia che nel mito della Genesi è rappresentato dall’Eden, dal Paradiso Terrestre originario.

Mai esistito nella realtà, ma della cui Idea l’uomo ha bisogno per provare a costruirlo, per farlo diventare davvero realtà.

Giovanni Lamagna

Innamoramento e amore.

giugno 2015

Innamoramento e amore.

Un altro equivoco che insorge spesso nelle cose dell’amore – dice Fromm – è quello di confondere l’amore con l’innamoramento.

Questa confusione è un’altra delle ragioni che induce l’idea, piuttosto diffusa tra gli umani, che nelle cose dell’amore non ci sia nulla da imparare, ma che l’amore sia un sentimento del tutto naturale, che sorge spontaneo, che è anzi del tutto connaturato all’animo umano.

Infatti, una delle caratteristiche tipiche dell’innamoramento è che esso sopraggiunge il più delle volte improvviso, quando meno te lo aspetti, come un colpo di fulmine.

E’ un sentimento che ci raggiunge (significativa l’immagine della freccia che ci trafigge il cuore) e non uno stato d’animo verso il quale siamo noi ad andare, a cui ci disponiamo e verso cui ci prepariamo.

E’ una situazione psicologica nella quale siamo sostanzialmente passivi e non attivi, trascinati come una barca dalla corrente di un fiume in piena e non nocchieri padroni del suo timone.

Un’altra caratteristica tipica dell’innamoramento è che esso è un sentimento più o meno di breve durata, destinato in ogni caso a non durare oltre un certo tempo più o meno prolungato.

E che spesso gli uomini lo confondano con l’amore stesso è dimostrato dal fatto che quasi sempre, quando si esaurisce la fase dell’innamoramento, essi usino dire “è finito l’amore”.

Un’altra caratteristica che contraddistingue l’innamoramento dall’amore è che l’innamoramento è un sentimento molto forte, in alcuni casi violento, che procura emozioni molto intense e tipiche, di grande eccitazione ed esaltazione. Mentre l’amore è un sentimento più pacato, più ordinario, a più bassa intensità emotiva.

Solo che, siccome gli uomini in genere sono innamorati dell’innamoramento, perché sono attirati dai sentimenti forti, violenti, intensi, essi non considerano l’amore un sentimento veramente degno, all’altezza dei loro bisogni e delle loro aspettative.

Preferiscono così chiamare amore quello che è semplice innamoramento e non considerare amore quello che non corrisponde all’innamoramento.

Di qui la confusione, l’equivoco, di cui abbiamo parlato finora.

E’ importante dissipare questa confusione, chiarire questo equivoco?

Sì, se non si vuole andare incontro a inevitabili e, magari, continue frustrazioni e delusioni.

L’innamoramento è, infatti, un sentimento molto piacevole e intenso (specie quando – come in genere avviene – si accompagna all’attrazione sessuale), ma destinato fatalmente a durare poco.

E’ un sentimento (forse) necessario per avviare un rapporto, per spingerci gli uni verso gli altri. Se non scattasse dentro di noi questo sentimento, quasi sempre violento e improvviso, forse nessuno di noi riuscirebbe a vincere la pigrizia o la diffidenza che ci inducono a restare chiusi in noi stessi piuttosto che ad aprirci agli altri.

Ma l’innamoramento è anche una forma di infatuazione, se non di vera e propria allucinazione, che (quasi sempre) ci fa vedere nell’altro/a cose che (magari) non ci sono (le qualità, i pregi) e che non ci fa vedere, invece, cose che ci sono (i limiti, i difetti).

E’ un sentimento di tipo proiettivo, che ci fa vedere l’altro/a come ci piacerebbe che fosse, in base alle nostre aspettative, bisogni e desideri, e non come, invece, effettivamente è.

E’ un sentimento la cui intensità, come dice Fromm, segnala più la gravità della nostra solitudine, il nostro bisogno di compagnia, di attaccamento, di dipendenza, che il desiderio (reale e non fantasioso, genuino e non immaginato) di donarsi, darsi, dedicarsi a qualcuno/a.

E’ importante, anzi è necessario, quindi, che dall’innamoramento (che ha una indubbia funzione all’inizio di un rapporto per avviarlo, farlo partire) si esca e si passi ad un’altra fase del rapporto: quella viene definita dell’amore.

Questa fase nuova è caratterizzata innanzitutto da una presa di consapevolezza maggiore di chi è l’altro/a, di chi sono io, coi miei bisogni e i miei desideri.

Con essa finisce la fase dell’infatuazione, in cui vediamo l’altro/a (e anche noi stessi) con occhi un po’ deformati, e inizia una fase in cui vediamo l’altro e noi stessi con occhi un po’ più obiettivi.

In questa nuova fase dell’altro vediamo non solo i pregi e le qualità, ma anche i difetti e i limiti.

E questa evoluzione (è a mio avviso importante segnalarlo) avviene in qualsiasi tipo di rapporto, non solo in quello che siamo solito definire di coppia, il cosiddetto legame erotico.

Accade, ad esempio, anche nel rapporto di amicizia, che, dopo una prima fase di entusiasmi e di attrazione reciproca, vede emergere anche i contrasti e a volte i dissapori, se non i veri e propri conflitti.

Accade, perfino, nel rapporto genitori/figli.

Cosa è, infatti, il sentimento che provano i bambini (in genere) nei confronti dei genitori per una lunga fase (quella dell’infanzia) se non una forma di infatuazione, di allucinazione, di distorsione ottica, dovute alla dipendenza fisica, materiale, oltre che affettiva?

E non accade lo stesso anche nei genitori alla nascita dei loro figli? Se questa fase nei genitori dura meno a lungo, ciò è forse dovuto solo al fatto che i genitori sono persone adulte, quindi non dipendenti materialmente dai figli e meno dipendenti di loro dal punto di vista affettivo.

La fase che segue alla fine dell’innamoramento non ci vede più passivi, cioè mossi da una passione, ma esige che diventiamo attivi, richiede quindi una scelta. Si sceglie, infatti, si decide di amare. Mentre non si sceglie, non si decide di innamorarsi. Si è piuttosto scelti dal sentimento dell’innamoramento.

Ecco perché l’amore è un sentimento (ammesso che sia solo un sentimento) molto più maturo e adulto dell’innamoramento.

Si sceglie, infatti, si decide, di amare l’altro/a, nonostante se ne vedano i difetti, nonostante se ne siano conosciuti i limiti, nonostante che molte sue qualità e molti suoi pregi, che all’inizio ci avevano fortemente attratti, si siano più o meno grandemente ridimensionati ai nostri occhi.

Si sceglie, si decide di amare, perché si prende consapevolezza che in natura, nelle cose umane non esiste la perfezione, che questa è un feticcio, un fantasma, e che la sua ricerca spasmodica e ossessiva ci condannerebbe alla solitudine, a un triste isolamento.

Si sceglie, decide di amare, perché si diventa consapevoli, che l’Altro rappresenta la nostra ombra, che insomma non è mai totalmente Altro, ma è anche una parte di noi. Che, attraverso l’Altro, possiamo entrare in contatto con la parte di noi che è in ombra e, quindi, crescere, evolvere, arricchirci di nuove dimensioni.

Cosa che ci sarebbe impedita, se restassimo prigionieri del nostro narcisismo. Narcisismo che non viene per nulla intaccato dalle esperienze (per quanto molteplici) di innamoramento. Anzi queste semmai lo rinforzano e gli danno alimento ulteriore. Ma può essere messo in crisi e vinto in maniera significativa solo da reali esperienze di amore.

Giovanni Lamagna