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Morte graduale… morte desiderata…
La morte, come dice Montaigne, tranne rari casi, non ci coglie mai d’improvviso, cioè nel pieno delle nostre forze.
In genere è l’atto finale, la conclusione di un più o meno graduale lento declino, di un progressivo logoramento del nostro fisico.
Per cui non uccide mai l’uomo intero che eravamo da giovani e, perfino, nella piena maturità (ovverossia tra i 40 e i 50 anni), ma solo “una metà o un quarto” dell’uomo che fummo da giovani o anche da anziani, prima di giungere cioè (semmai vi giungeremo) alla tarda età.
La morte – in certi casi – potrà giungere persino come consolazione, cioè come conclusione desiderata di una vita capace oramai di offrire solo pene e nessuna o ben poche gioie.
© Giovanni Lamagna
Maturità, abitudini e sano discernimento
Un uomo maturo dovrebbe sottoporre al vaglio del discernimento, cioè di un’analisi razionale e consapevole, le abitudini acquisite da bambino, trasmessegli dall’ambiente in cui è cresciuto.
Mantenendo solo quelle buone e sane, abbandonando quelle cattive e malsane.
Ma quanti sono gli uomini maturi (maturi psicologicamente, spiritualmente, e non solo anagraficamente) capaci di fare questo giusto discernimento e attuare le scelte che ne dovrebbero conseguire?
© Giovanni Lamagna
Evoluzione o involuzione?
28 novembre 2016
Evoluzione o involuzione?
Ogni uomo avverte dentro di sé un bisogno (per alcuni molto impellente, per altri meno) di unificarsi, di dare cioè una direzione precisa e decisa al suo cammino.
Di superare cioè le oscillazioni, i tentennamenti, le molte contraddizioni e incoerenze che ne caratterizzano, in genere, la prima parte.
Di solito ci si riesce (quando ci si riesce) al termine della giovinezza, quando entriamo in quella fase della vita che si è soliti definire della maturità.
Prima di essa la nostra identità era in genere piena di conflitti, sottoposta a spinte contrapposte, spesso contraddittorie.
Alcune che andavano nella direzione della nostra espansione ed evoluzione. Che miravano alla nostra crescita e vitalità spirituale.
Altre che andavano nella direzione opposta, quella della conservazione e involuzione: vere e proprie spinte verso la morte spirituale.
L’unificazione di cui parlavo all’inizio può avvenire allora o sotto il segno prevalente delle prime o sotto quello prevalente delle seconde.
Niente è scontato. Tutto, invece, dipende da noi.
Viene un momento in cui ognuno di noi è chiamato a scegliere. E da questa scelta dipenderà se la sua vita prenderà la prima o la seconda delle direzioni di marcia.
Giovanni Lamagna
Conclusioni (Genesi 2,7 – 3,24).
9 novembre 2014
Conclusioni (Genesi 2,7 – 3,24).
Sono giunto al termine del mio viaggio all’interno di Genesi 2,7 – 3,24. Tiro quindi qualche conclusione.
E’ del tutto evidente che il racconto biblico non è un racconto storico. Ma non è neanche una semplice favoletta. Rientra piuttosto nella categoria dei miti, cioè di quei racconti che, pur se sotto forma di “favola” (ci sono aspetti favolistici nel mito), tendono a dire cose che hanno a che fare con “i misteri del mondo, le sue origini, i suoi valori, il suo senso”, con la natura profonda dell’uomo, addirittura con i suoi archetipi, direbbero gli junghiani.
Come tutti i miti, quindi, esso non va preso alla lettera, ma interpretato. Anche alla luce della propria cultura, quindi al di fuori del contesto storico e/o geografico nel quale esso è nato ed è stato trascritto.
Quattro sono le figure principali che animano il mito di Genesi e due i contesti spaziali nei quali esse si muovono ed agiscono. Ogni figura interpreta un ruolo ed ha un significato. Anche i due contesti spaziali lo hanno.
Il primo attore del mito è Dio il Signore, che nel mito della Genesi, a mio avviso, rappresenta la Legge o, meglio, la cattiva coscienza dell’uomo, il Super Ego, la segnalazione del Limite, oltre il quale si corre il rischio della “caduta”, della perdizione e, quindi, della condanna.
Il secondo attore è il serpente, il quale, secondo la mia interpretazione, in questo mito rappresenta il Desiderio, che è il motore di ogni azione dell’uomo.
Rappresenta, quindi, secondo il linguaggio psicoanalitico, l’Es. Che, lasciato allo sbando, cioè senza il confronto con la Realtà e quello con la Legge, condanna l’uomo alla perdizione.
L’uomo, a mio avviso, si trova ad agire, a navigare sempre tra le opposte rive di Scilla, cioè della Legge, e di Cariddi, cioè del Desiderio.
Se rinuncia del tutto al Desiderio si condanna all’inazione e alla passività.
Se vive solo in funzione della Legge e della repressione del Desiderio, diventa triste, malinconico.
Se si abbandona del tutto al Desiderio, si condanna alla dissipazione e alla disintegrazione interiore.
Se ignora del tutto la Legge, non è in grado neanche di godere pienamente del desiderio, perché l’esistenza della Legge, lungi dal deprimere il desiderio, lo esalta.
Adamo, in questo mito, rappresenta l’Uomo ad uno stadio ancora “bambino”.
E non certo perché cede alla tentazione del suo desiderio. Non sarebbe stata, infatti, una scelta saggia obbedire a una Legge che lo voleva “felice” ma, al contempo, non libero e non consapevole. Quanto perché non sa assumersi la responsabilità dell’azione commessa. Addirittura la scarica sulla sua compagna Eva.
Adamo è dunque l’Uomo ancora bambino, che deve ancora crescere. E molto!
Eva dimostra maggiore maturità rispetto al compagno Adamo. Se non altro è più coraggiosa e intraprendente. Ma anche lei, di fronte alla voce della sua coscienza che la rimprovera, non sa assumersi fino in fondo la sua responsabilità e la scarica puerilmente sul serpente.
Anche Eva è dunque una donna ancora bambina, ha bisogno di crescere. E molto!
Entrambi, Adamo ed Eva, nel mito di Genesi rappresentano dunque l’Umanità nella fase, nello stadio che potremmo definire della fanciullezza. Ci vorranno ancora alcuni millenni perché l’Umanità arrivi allo stadio della sua piena maturità, impari cioè a riconoscere fino in fondo il proprio desiderio, ad affermarlo anche di fronte alla Legge, senza farsene del tutto inibire, ma senza neanche farsi del tutto travolgere da un desiderio senza Legge.
Oggi, forse, l’Umanità (almeno quella del mondo occidentale industrializzato evoluto) si trova nella fase della sua adolescenza, in una fase in cui ha imparato a riconoscere e ad affermare il suo Desiderio, ma prescindendo totalmente dalla Legge, come se questa non avesse più nessun senso e nessuna funzione.
I due contesti spaziali del mito a cui accennavo all’inizio sono quello dell’Eden, cioè del Paradiso in terra, e quello del Mondo alla sua alba, cioè alla preistoria dell’Umanità.
L’Eden, più che il Paradiso perduto, come vorrebbe farci intendere il Mito, è il Mondo come l’Umanità lo sogna, è l’Utopia, il Mondo come l’Uomo vorrebbe che fosse o diventasse. E’ il Mondo del futuro (auspicato e sognato) e non del passato (di cui si ha nostalgia e rimpianto).
Il Mondo della preistoria, il mondo nel quale l’Uomo è stato gettato a vivere quando è comparso sulla terra, è un luogo infame, inospitale, dove l’uomo è costretto a un duro lavoro per procurarsi il cibo e la donna è costretta alle doglie tremende (talvolta mortali) del parto per assicurare continuità alla specie.
Non è il luogo a cui l’Uomo è stato condannato dopo aver commesso una colpa, ma è il luogo a cui lo ha destinato la Natura, che proprio così lo ha pensato e creato.
Sarà l’Uomo, se vorrà e se ne sarà capace, (e nessun Dio al suo posto) a renderlo un posto meno inospitale e più a dimensione dei suoi desideri.
Ma, per realizzare il suo desiderio, l’Uomo ha bisogno di coltivare un sogno, anzi un’utopia. L’utopia che nel mito della Genesi è rappresentato dall’Eden, dal Paradiso Terrestre originario.
Mai esistito nella realtà, ma della cui Idea l’uomo ha bisogno per provare a costruirlo, per farlo diventare davvero realtà.
Giovanni Lamagna
Innamoramento e amore.
giugno 2015
Innamoramento e amore.
Un altro equivoco che insorge spesso nelle cose dell’amore – dice Fromm – è quello di confondere l’amore con l’innamoramento.
Questa confusione è un’altra delle ragioni che induce l’idea, piuttosto diffusa tra gli umani, che nelle cose dell’amore non ci sia nulla da imparare, ma che l’amore sia un sentimento del tutto naturale, che sorge spontaneo, che è anzi del tutto connaturato all’animo umano.
Infatti, una delle caratteristiche tipiche dell’innamoramento è che esso sopraggiunge il più delle volte improvviso, quando meno te lo aspetti, come un colpo di fulmine.
E’ un sentimento che ci raggiunge (significativa l’immagine della freccia che ci trafigge il cuore) e non uno stato d’animo verso il quale siamo noi ad andare, a cui ci disponiamo e verso cui ci prepariamo.
E’ una situazione psicologica nella quale siamo sostanzialmente passivi e non attivi, trascinati come una barca dalla corrente di un fiume in piena e non nocchieri padroni del suo timone.
Un’altra caratteristica tipica dell’innamoramento è che esso è un sentimento più o meno di breve durata, destinato in ogni caso a non durare oltre un certo tempo più o meno prolungato.
E che spesso gli uomini lo confondano con l’amore stesso è dimostrato dal fatto che quasi sempre, quando si esaurisce la fase dell’innamoramento, essi usino dire “è finito l’amore”.
Un’altra caratteristica che contraddistingue l’innamoramento dall’amore è che l’innamoramento è un sentimento molto forte, in alcuni casi violento, che procura emozioni molto intense e tipiche, di grande eccitazione ed esaltazione. Mentre l’amore è un sentimento più pacato, più ordinario, a più bassa intensità emotiva.
Solo che, siccome gli uomini in genere sono innamorati dell’innamoramento, perché sono attirati dai sentimenti forti, violenti, intensi, essi non considerano l’amore un sentimento veramente degno, all’altezza dei loro bisogni e delle loro aspettative.
Preferiscono così chiamare amore quello che è semplice innamoramento e non considerare amore quello che non corrisponde all’innamoramento.
Di qui la confusione, l’equivoco, di cui abbiamo parlato finora.
E’ importante dissipare questa confusione, chiarire questo equivoco?
Sì, se non si vuole andare incontro a inevitabili e, magari, continue frustrazioni e delusioni.
L’innamoramento è, infatti, un sentimento molto piacevole e intenso (specie quando – come in genere avviene – si accompagna all’attrazione sessuale), ma destinato fatalmente a durare poco.
E’ un sentimento (forse) necessario per avviare un rapporto, per spingerci gli uni verso gli altri. Se non scattasse dentro di noi questo sentimento, quasi sempre violento e improvviso, forse nessuno di noi riuscirebbe a vincere la pigrizia o la diffidenza che ci inducono a restare chiusi in noi stessi piuttosto che ad aprirci agli altri.
Ma l’innamoramento è anche una forma di infatuazione, se non di vera e propria allucinazione, che (quasi sempre) ci fa vedere nell’altro/a cose che (magari) non ci sono (le qualità, i pregi) e che non ci fa vedere, invece, cose che ci sono (i limiti, i difetti).
E’ un sentimento di tipo proiettivo, che ci fa vedere l’altro/a come ci piacerebbe che fosse, in base alle nostre aspettative, bisogni e desideri, e non come, invece, effettivamente è.
E’ un sentimento la cui intensità, come dice Fromm, segnala più la gravità della nostra solitudine, il nostro bisogno di compagnia, di attaccamento, di dipendenza, che il desiderio (reale e non fantasioso, genuino e non immaginato) di donarsi, darsi, dedicarsi a qualcuno/a.
E’ importante, anzi è necessario, quindi, che dall’innamoramento (che ha una indubbia funzione all’inizio di un rapporto per avviarlo, farlo partire) si esca e si passi ad un’altra fase del rapporto: quella viene definita dell’amore.
Questa fase nuova è caratterizzata innanzitutto da una presa di consapevolezza maggiore di chi è l’altro/a, di chi sono io, coi miei bisogni e i miei desideri.
Con essa finisce la fase dell’infatuazione, in cui vediamo l’altro/a (e anche noi stessi) con occhi un po’ deformati, e inizia una fase in cui vediamo l’altro e noi stessi con occhi un po’ più obiettivi.
In questa nuova fase dell’altro vediamo non solo i pregi e le qualità, ma anche i difetti e i limiti.
E questa evoluzione (è a mio avviso importante segnalarlo) avviene in qualsiasi tipo di rapporto, non solo in quello che siamo solito definire di coppia, il cosiddetto legame erotico.
Accade, ad esempio, anche nel rapporto di amicizia, che, dopo una prima fase di entusiasmi e di attrazione reciproca, vede emergere anche i contrasti e a volte i dissapori, se non i veri e propri conflitti.
Accade, perfino, nel rapporto genitori/figli.
Cosa è, infatti, il sentimento che provano i bambini (in genere) nei confronti dei genitori per una lunga fase (quella dell’infanzia) se non una forma di infatuazione, di allucinazione, di distorsione ottica, dovute alla dipendenza fisica, materiale, oltre che affettiva?
E non accade lo stesso anche nei genitori alla nascita dei loro figli? Se questa fase nei genitori dura meno a lungo, ciò è forse dovuto solo al fatto che i genitori sono persone adulte, quindi non dipendenti materialmente dai figli e meno dipendenti di loro dal punto di vista affettivo.
La fase che segue alla fine dell’innamoramento non ci vede più passivi, cioè mossi da una passione, ma esige che diventiamo attivi, richiede quindi una scelta. Si sceglie, infatti, si decide di amare. Mentre non si sceglie, non si decide di innamorarsi. Si è piuttosto scelti dal sentimento dell’innamoramento.
Ecco perché l’amore è un sentimento (ammesso che sia solo un sentimento) molto più maturo e adulto dell’innamoramento.
Si sceglie, infatti, si decide, di amare l’altro/a, nonostante se ne vedano i difetti, nonostante se ne siano conosciuti i limiti, nonostante che molte sue qualità e molti suoi pregi, che all’inizio ci avevano fortemente attratti, si siano più o meno grandemente ridimensionati ai nostri occhi.
Si sceglie, si decide di amare, perché si prende consapevolezza che in natura, nelle cose umane non esiste la perfezione, che questa è un feticcio, un fantasma, e che la sua ricerca spasmodica e ossessiva ci condannerebbe alla solitudine, a un triste isolamento.
Si sceglie, decide di amare, perché si diventa consapevoli, che l’Altro rappresenta la nostra ombra, che insomma non è mai totalmente Altro, ma è anche una parte di noi. Che, attraverso l’Altro, possiamo entrare in contatto con la parte di noi che è in ombra e, quindi, crescere, evolvere, arricchirci di nuove dimensioni.
Cosa che ci sarebbe impedita, se restassimo prigionieri del nostro narcisismo. Narcisismo che non viene per nulla intaccato dalle esperienze (per quanto molteplici) di innamoramento. Anzi queste semmai lo rinforzano e gli danno alimento ulteriore. Ma può essere messo in crisi e vinto in maniera significativa solo da reali esperienze di amore.
Giovanni Lamagna