Archivi Blog

Amare il sacrificio o sacrificarsi per amore?

Non vedo nulla di eroico nel cosiddetto “amore per la croce”.

Ci vedo anzi – ad essere sincero – solo del masochismo.

Come non vedo – addirittura! – nulla di cristiano nel desiderio di farsi (fosse anche solo metaforicamente) crocifiggere.

Tanto è vero che Gesù – quando venne l’ora – manifestò chiaramente al Padre il desiderio che Egli allontanasse da lui il “calice di dolore” che vedeva approssimarsi.

Poi si rassegnò – è vero – al suo destino (“… non sia fatta la mia, ma la tua volontà”), ma non lo “amò” affatto; lo sopportò con spirito di abbandono (“Padre, nelle tue mani affido il mio spirito”), ma non lo desiderò di certo.

Può essere eroico, invece, può arrivare ad essere eroico, l’amore.

Ma è (può giungere ad essere) eroico l’amore, non il desiderio del sacrificio in sé.

Valga un solo esempio: quello del giovane carabiniere casertano Salvo D’Acquisto, che sacrificò eroicamente la sua vita offrendola in cambio di quella di alcuni suoi concittadini, che i nazisti tedeschi avevano deciso di fucilare per rappresaglia.

In questo caso, però, fu l’amore generoso verso la sua comunità a portare Salvo D’Acquisto verso il sacrificio estremo; non certo il desiderio di morire; che in sé sarebbe stato pura necrofilia.

Dunque, imitiamo pure, prendiamo pure a modello la figura di Gesù Cristo!

Ma per la sua straordinaria testimonianza d’amore universale, che fu capace di giungere fino al sacrificio estremo, passando per la “notte oscura” del Getsemani.

Non per il suo “amor crucis”, che non trova alcun fondamento – anzi trova solo smentite – nei Vangeli che della sua vita ci hanno lasciato memoria.

© Giovanni Lamagna

Una straordinaria testimonianza di fraternità.

In giugno (1886) Vincent (Van Gogh) si trasferisce col fratello (Theo) in un appartamento di… Rue Lepic 54 (a Parigi).

(…)

La convivenza tra i due fratelli giova non poco all’umore di Vincent, ma crea… numerosi problemi a Theo, che in una lettera a Willemien la definisce “pressoché insopportabile…

Io gli chiedo soltanto di non farmi del male e invece la sua stessa presenza mi è terribilmente penosa…

È come se in lui ci fossero due persone distinte: la prima tenera, sensibile, straordinariamente dotata; la seconda egoista e di cuore duro.”.

Theo sopporta però ogni mortificazione, nutre la più grande fiducia nelle doti di Vincent.

È realmente un artista…

Un giorno i suoi dipinti potrebbero essere sublimi, e mi sentirei colpevole di averlo distolto da uno studio regolare.”.”

(da “Notizia sulla vita e le opere di Vincent Van Gogh”; in Vincent Van Gogh; “Lettere a Theo”; Ugo Guanda editore 2022)

Trovo in questa mezza paginetta una straordinaria, bellissima, testimonianza di cosa è, di cosa può arrivare ad essere la fraternità.

Theo non è un genio, non è posseduto dal demone dell’arte, come il fratello Vincent.

Però ama, ama Vincent di un amore puro (fraterno, appunto!), quindi disinteressato.

Perciò è disposto a sopportare “ogni mortificazione”, anche quando la convivenza col fratello gli risulta insopportabile.

Non solo; ma l’amore lo rende anche saggio, sapiente, acuto e preveggente critico d’arte; gli fa vedere quello che gli altri, i più, non vedevano, non riuscivano a vedere.

E cioè che Vincent era un genio, che prima o poi avrebbe dipinto quadri sublimi.

Cosa che fu; la Storia gli ha dato meritoriamente ragione.

A lui, pertanto, alla sua abnegazione, dobbiamo essere tutti immensamente grati.

In questo caso – ne traggo qui spunto per fare una ulteriore breve riflessione – la (apparente) mortificazione di un uomo ha avuto un senso; perché era sostenuta da una “fede”.

Una fede “oscura” perché smentita dai continui insuccessi del fratello: Vincent Van Gogh, fin quando è stato in vita, non è stato apprezzato quasi da nessuno, ha venduto pochissimo, quelli che riconoscevano il suo valore artistico si contavano sulle dita di una mano.

La mortificazione di Theo ha avuto un senso, perché era finalizzata ad uno scopo: prima o poi il genio di Vincent sarebbe stato finalmente riconosciuto.

Non aveva, quindi, nulla a che fare col masochismo, per il quale la mortificazione e il sacrifico sono fini a sé stessi, obbediscono solo ad un istinto di morte.

© Giovanni Lamagna

Sacrificio e godimento.

Il sacrificio (quando è fine a sé stesso e non mira ad un obiettivo altro da sé) non rinuncia affatto al godimento.

Mira solo a un’altra forma del godimento.

Non al godimento del piacere, ma al godimento del suo opposto: del dispiacere e, persino, del dolore.

Equivale al masochismo.

© Giovanni Lamagna

Due tipi di preghiera.

La preghiera (almeno una certa preghiera, ovverossia la preghiera come la si intende normalmente, di solito) poggia su una grande illusione: che esista “almeno Uno nell’universo (Dio) che non può perdermi, che ama incondizionatamente la mia vita, che rende la mia vita degna di essere amata, assolutamente e immensamente insacrificabile. Almeno Uno che non mi lascerà mai.” (Massimo Recalcati; “La luce delle stelle morte”; 2022 Feltrinelli).

Mentre tutti gli altri legami significativi per noi, tutte le altre relazioni amorose, sono a rischio: il rischio che l’Altro voglia porre termine al rapporto con noi, che non provi più il desiderio di stare con noi, che ad un certo punto non ci ami più.

Questa preghiera si poggia su una illusione, perché questo Uno non esiste, è una nostra proiezione, è la creazione fantasmatica di un nostro desiderio di amore illimitato e incondizionato, di protezione dal Male assoluto che è la solitudine.

Abbiamo visto oltretutto e lo vediamo ogni giorno che passa, non solo nella nostra esperienza ma anche nella lettura degli stessi libri “sacri”, che questa fede in questo Qualcuno, non ci garantisce per niente dal rischio dell’abbandono e dallo sprofondamento nella solitudine più cupa e tenebrosa (“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”: grida lo stesso Gesù, figlio di Dio, nel momento estremo del suo sacrificio sulla croce).

Diversa è la preghiera che da richiesta di protezione e rifugio diventa accettazione profonda della propria condizione di solitudine radicale, abbandono a questa situazione di contingenza assoluta dovuta alla nostra natura mortale, all’idea che prima o poi finiremo nel nulla dal quale siamo venuti, che ci trasformeremo in materia inerte, la stessa che ci circonda da tutte le parti e dalla quale ci siamo staccati nel momento in cui in noi si è formata la coscienza/consapevolezza di esistere.

La preghiera che trasforma la paura e il rifiuto della morte in accettazione, (o, meglio, rassegnazione) e preparazione (quanto più possibile serena, ma mai del tutto serena: diciamocelo francamente!) alla sua venuta, al suo evento.

La preghiera che ci fa sentire parte di un Universo che esisteva da sempre prima che nascessimo come individui e che continuerà ad esistere anche quando noi saremo morti come persone, cioè esseri coscienti e presenti a sé stessi.

Un Universo, quindi, nel quale in qualche modo continueremo a vivere, anche se in forme del tutto diverse (certamente non più esseri coscienti) da quelle nelle quali abbiamo vissuto per un breve arco di tempo, quando esistevamo come individui/persone.

Una preghiera, quindi, che in qualche modo ci fa sentire immortali, eterni, particelle infinitesimali di un ciclo infinito, che non si arresta con la nostra morte, anche se è e resta del tutto misterioso, perché non sappiamo spiegarcene il fine e, quindi, il senso.

© Giovanni Lamagna

Tendenza alla cooperazione e tendenza alla competizione.

Che nell’uomo prevalga la tendenza alla cooperazione costruttiva, che è in lui, anziché quella alla competizione distruttiva, che pure è in lui (e che forse filogeneticamente viene prima dell’altra), conviene alla crescita e alla evoluzione positiva dell’’Umanità.

E, quindi, anche ad ogni singolo membro della compagine umana.

Anche se questo comporterà, come ci insegna Freud ne “Il disagio della civiltà”, il pagamento di costi (a volte anche molto elevati) in termini di sacrificio della propria vita pulsionale individuale.

Ogni uomo, quindi, fa/farebbe bene a coltivare la prima (la tendenza alla cooperazione) e a tenere a bada – limitandola, controllandola – la seconda (la tendenza alla competizione).

© Giovanni Lamagna

Mistica e sacrificio.

Pur considerandomi un mistico (almeno nelle intenzioni, nelle aspirazioni, nei desideri, non so quanto nella realtà), non ho mai condiviso l’opzione di molti mistici (forse la maggioranza) di scegliere il dolore come ascesi, come via primaria e privilegiata di perfezionamento spirituale.

Trovo in questa scelta un che di insano, che sfiora il masochismo ed in molti casi lo tocca; talvolta, anzi, ne è del tutto permeata, impregnata.

Il mistico, infatti, per me non è chiamato affatto (almeno in prima battuta) a vivere il dolore e manco una vita fatta principalmente di rinunce, come molti immaginano.

Il mistico è chiamato innanzitutto a realizzare i suoi ideali, i suoi valori, religiosi o laici che siano, a vivere quindi una vita piena, felice, niente affatto cupa e sofferente, votata essenzialmente al sacrificio.

Su questa via, sul suo percorso, indubbiamente, può incontrare (e spesso incontra, prima o poi, come del resto accade a tutti i mortali) il dolore.

Ed allora, solo allora, non deve (o almeno non dovrebbe) deviare; solo allora dovrà scegliere il dolore e, perfino, in certi casi, l’estremo sacrificio della vita, perché l’alternativa, in questo caso, sarebbe tradire i suoi ideali.

Ma la sua scelta fondamentale, primaria, (ed è questo che vorrei qui affermare con forza) rimane innanzitutto quella di rispondere alla sua vocazione, quella di non tradire i suoi ideali.

Non è affatto quella del dolore in sé, non è quella di “abbracciare la croce” per amore della croce, come dicono, ad esempio, i cristiani o, perlomeno, molti di loro.

Gesù stesso, d’altra parte, che per me è il prototipo del mistico, non scelse affatto la croce come suo ideale; egli scelse di non tradire, di non rinnegare il “vangelo” che fino ad allora aveva predicato.

E per questo (e solo per questo) accettò anche di essere messo in croce.

Ma non ne fu affatto felice o contento, come alcuni mistici a lui successivi (con l’intenzione – a mio avviso, nata da un fraintendendolo – di imitarlo) hanno inteso fare, dando origine alla cosiddetta teologia del sacrificio e della croce.

Si ricordi, infatti, che più volte nell’orto degli ulivi, Gesù, prima di essere catturato per essere sottoposto a giudizio, supplicò il Padre di risparmiargli “l’amaro calice”.

E, quando fu messo in croce, non lodò affatto il Padre per non averlo salvato, ma gli lanciò quasi un’imprecazione: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”.

Come a voler sottolineare che il suo desiderio, la sua preferenza (come del resto a me pare del tutto naturale e, perfino, ovvio) erano del tutto diversi: egli avrebbe voluto salvarsi e non morire; meno che mai morire in un modo così crudele, come fu quello di morire in croce.

© Giovanni Lamagna

Mistica, eros e sessualità

E’ notorio che l’esperienza mistica, anche quella religiosa, soprattutto quella delle donne, ha mutuato spesso il linguaggio erotico.

Non a caso, alcune opere artistiche raffiguranti le estasi mistiche potrebbero essere confuse con quelle raffiguranti veri e propri orgasmi; una per tutte: la transverberazione di santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini in santa Maria della Vittoria a Roma.

Questo sta a dimostrare che tra mistica, erotismo e sessualità sussiste, è sempre esistito, un legame manco tanto sotterraneo, anzi in alcuni casi del tutto esplicito.

Anche se la teologia cattolica lo ha sempre visto – com’era ovvio – con sospetto.

Secondo Anselm Grun (teologo e monaco benedettino, autore di “Mistica”; 2011; Morcelliana) ci sono due strade per coniugare mistica ed eros (p. 149-154).

La prima è quella di prendere consapevolezza fino in fondo della propria energia sessuale e poi sublimarla, quasi trasfigurarla, al fine di vivere un amore totalitario ed esclusivo per Dio: è questa la strada di coloro che si votano al celibato.

Questa strada prevede un taglio, un sacrificio, una rinuncia alla sessualità carnale, materiale, corporea, per vivere una sessualità di natura tutta spirituale, nella consapevolezza che nessuna creatura umana potrà mai estinguere la propria sete d’amore (ogni amore umano è sempre limitato, finito) e che questa potrà essere soddisfatta solo dal rapporto con Dio, che è, al contrario di quello umano, amore infinito.

La spiritualità del mistico celibe si alimenta dunque paradossalmente del “bisogno umano di tenerezza e di amore”, succhia continuamente del sangue dalla ferita “di non essere sposato e di non avere rapporti sessuali”.

L’amore per Dio – aggiunge Grun – non deve sostituire nel mistico-celibe l’amore per l’uomo, ma si ferma alla soglia del rapporto esplicitamente sessuale, che viene sublimato quasi per aumentare ed affinare la potenza dell’amore rivolto a Dio.

L’altra strada, di cui parla Anselm Grun, per coniugare mistica ed eros, è quella, più comune, di coloro che non rinunciano concretamente alla sessualità, ma la vivono nella consapevolezza che, se il loro amore (quindi anche l’amore sessuale) perde “il rapporto con l’ignoto, con il mistero dell’altro”, esso “è condannato all’insuccesso”.

“Perché l’amore umano possa riuscire, c’è bisogno del mistero che va oltre entrambi, c’è bisogno di questa diversità, di questo buio in mezzo alla luce” (p.151), come dice Dorothee Solle.

“Qui l’amore mistico per Dio non è in contrasto con l’amore tra uomo e donna, ma, anzi, è ciò che rende possibile l’amore autentico…

… Hans Jellouschek, un importante terapeuta della coppia, lo spiega affermando che nell’amore c’è un potenziale di trascendenza: l’amore tra due persone ha in sé sempre qualcosa che va oltre entrambe e rimanda all’amore infinito di Dio. L’amore tra uomo e donna riesce soltanto se essi diventano consapevoli del potenziale racchiuso nella loro sessualità. Allora l’uomo e la donna, nella unione sessuale, fanno al contempo l’esperienza di un andare oltre se stessi, entrando nell’amore infinito di Dio.

La mistica, perciò, non è fuori dal mondo, né qualcosa che allontana dal partner o dalla partner, bensì l’elemento di mistero che tiene vivo il nostro amore umano. La consapevolezza dell’esistenza del mistero di Dio tiene desto anche il mistero della persona amata. Quest’ultima resta la lontana-vicina, che siamo sempre capaci di amare perché continua a sottrarsi e, allo stesso temo, ci attrae. L’amore tra due persone, per riuscire, deve <costruire una sorta di reciprocità, nella quale si mantenga l’aspetto ignoto di quanto ci è noto, la diversità dell’altro. Soltanto così potrebbe far partecipare a un sacred power, a un potere condiviso dell’altro> (Dorothee Solle). In un mondo che non ha il senso del mistero di Dio muore anche il mistero dell’altro e, alla fine, anche l’amore muore e, come dice Dorothee Solle, si riduce ad un funzionalismo spietato.” (p.152-153)

In ogni caso, sia che si scelga la prima strada (quella della castità) sia che si scelga la seconda (quella della pratica fisica della sessualità), la via mistica non può essere surrogatoria della “incapacità di creare relazioni”. La via mistica non deve essere un rifugio per coloro che sono incapaci di risolvere “i loro problemi relazionali” (p.153).

Quali riflessioni mi ispirano le parole, che ho appena riportate, di Anselm Grun, Dorothee Solle e Hans Jellouschek?

La prima è che anche io, da mistico laico quale mi considero o, meglio, vorrei essere, vedo una profonda analogia, direi “simpatia”, vicinanza-assonanza tra mistica ed erotismo, tra mistica e sessualità. Entrambe le esperienze si alimentano e vivono dello stesso afflato, della stessa tensione, della stessa energia fisico-spirituale.

Se questo intreccio è vero per la mistica religiosa, lo è naturalmente in modo ancora più evidente e consapevole per la cosiddetta mistica laica, come la intendo io.

Naturalmente, da mistico laico, escludo la prima strada indicata da Anselm Grun: quella del celibato.

Non solo perché non la vedo necessaria e neanche funzionale ad una maggiore e più efficace elevazione spirituale di chi la sceglie e la pratica. Ma perché la vedo addirittura controproducente rispetto allo scopo che si propone.

Questa strada, infatti, si giustifica sulla base dell’antica dicotomia tra spirito e corpo, che è stata del tutto superata dalla scienza e dalla filosofia moderna.

Per le quali l’uomo non è un corpo + un’anima, realtà separate: la prima di natura inferiore, la seconda di natura superiore. Ma è un’unità psicofisica, nella quale il corpo influenza l’anima e l’anima il corpo.

Se cresce e sta bene l’anima cresce e sta bene anche il corpo, se all’incontrario si ammala il corpo si ammala anche l’anima e viceversa.

La sessualità, come tutte le manifestazioni della complessità umana, è una realtà psicofisica e come tale non solo non può e non deve essere esclusa da un percorso mistico-spirituale, ma ne deve far parte, lo deve accompagnare, anzi ne deve essere componente primaria ed essenziale.

La sessualità, in altre parole, non è una dimensione inferiore della natura umana, che come tale deve essere riscattata e sublimata, meglio ancora esclusa, per una migliore dedizione a Dio e, quindi, alla vita spirituale.

Ma, essendo una dimensione pienamente umana (così l’ha voluta tra l’altro il Creatore, per chi ci crede), non si capisce perché dovrebbe essere sacrificata, fosse anche in nome di un amore totalitario per Dio.

Vedo nella sessualità del mistico celibe, che sublima totalmente la sua energia sessuale, un che di masochistico, di sacrificio inutile, non richiesto, di natura patibolare.

Meglio – a mio avviso – vivere concretamente la sessualità, sia pure senza fermarsi alla sua dimensione puramente fisico-istintuale, ma riconoscendola come via (non unica, ma importantissima!) per penetrare nel mistero infinito della vita.

Condivido, quindi, molto di più la seconda strada di cui parla Grun: quella che riesce a conciliare pienamente mistica e sessualità.

Condivido persino molti dei concetti e financo il modo di esprimerli a cui fa ricorso Grun per parlarne.

Ad esempio: “Perché l’amore umano possa riuscire, c’è bisogno del mistero che va oltre entrambi, c’è bisogno di questa diversità, di questo buio in mezzo alla luce”.

“… nell’amore c’è un potenziale di trascendenza: l’amore tra due persone ha in sé sempre qualcosa che va oltre entrambe… L’amore tra uomo e donna riesce soltanto se essi diventano consapevoli del potenziale racchiuso nella loro sessualità. Allora l’uomo e la donna, nella unione sessuale, fanno al contempo l’esperienza di un andare oltre se stessi.”

“La mistica, perciò, non è fuori dal mondo, né qualcosa che allontana dal partner o dalla partner, bensì l’elemento di mistero che tiene vivo il nostro amore umano. La consapevolezza dell’esistenza del mistero… tiene desto anche il mistero della persona amata. Quest’ultima resta la lontana-vicina, che siamo sempre capaci di amare perché continua a sottrarsi e, allo stesso temo, ci attrae. L’amore tra due persone, per riuscire, deve <costruire una sorta di reciprocità, nella quale si mantenga l’aspetto ignoto di quanto ci è noto, la diversità dell’altro. Soltanto così potrebbe far partecipare a un sacred power, a un potere condiviso dell’altro> (Dorothee Solle). In un mondo che non ha il senso del mistero… muore anche il mistero dell’altro e, alla fine, anche l’amore muore e, come dice Dorothee Solle, si riduce ad un funzionalismo spietato.”

Ho solo cancellato il riferimento a Dio e al mistero da Lui rappresentato. Perché per me il mistero sussiste anche senza Dio e per quanto mi riguarda questo tipo di mistero (che mi verrebbe di definire tutto terreno, quindi laico) basta e avanza per vivere delle esperienze mistiche, anzi una vita mistica.

Mistico è, infatti, tutto ciò che ha a che fare col mistero, con ciò che è ancora ignoto, non è ancora noto. E mistica è ogni esperienza umana che si sforza di disvelare il mistero, l’ignoto, il non ancora conosciuto.

E di questa ricerca fa parte a pieno titolo la sessualità. Se la sessualità non si riduce alla ripetizione monotona e stanca di gesti più o meno sempre uguali a se stessi. Se la sessualità diventa il luogo di una ricerca senza limiti e confini, espressione della creatività e della fantasia che (volendo) possono essere pozzi senza fondo.

Da questo punto di vista mistica e sessualità non solo non sono due esperienze contraddittorie o addirittura agli antipodi, ma possono essere due esperienze che si integrano e rafforzano, potenziano a vicenda.

© Giovanni Lamagna

Come mantenere vivo nel tempo l’eros nei rapporti di amore.

In ognuno di noi si nasconde un animale selvaggio, sotto le forme/apparenze dell’animale addomesticato, che necessariamente siamo dovuti diventare per farci accettare in società e che la società necessariamente deve chiederci di diventare per rendere tollerabile, sostenibile, senza eccessivi stress e conflitti la vita collettiva, per renderla in altri termini “economica”, cioè la casa di tutti, la casa dove è possibile raggiungere il massimo degli obiettivi individuali con il minimo sforzo.

E, però, oltre un certo limite, l’addomesticamento dell’animale selvaggio che è in noi diventa un’esperienza che ha degli effetti indesiderati collaterali, una sorta di amputazione, lobotomia, se non di vera e propria mutazione genetica.

L’addomesticamento dell’animale selvaggio corre il rischio, infatti, di sedare, anestetizzare la nostra libido e di sottrarci, per conseguenza, energie vitali. Il segreto, quindi, della nostra riuscita sta nel tenere sotto controllo l’animale selvaggio, ma senza mai addomesticarlo fino in fondo e del tutto, conservando dunque di esso una buona dose di caratteristiche primitive, “selvagge”, e lasciandola di tanto in tanto (almeno di tanto in tanto) a briglia sciolta.

In questo modo riusciremo a vivere in società, a non essere e non apparire dei pericolosi e radicali sovversivi, a farci accettare dunque dagli altri, dalla maggioranza degli altri, e nello stesso tempo a non tradire la nostra natura profonda, che non ci vuole totalmente integrati e addomesticati nel corpo sociale, ma spiriti liberi e in qualche modo anche un po’ sovversivi e ribelli, se ci teniamo a restare creativi nelle cose che facciamo, specie nelle relazioni che creiamo con gli altri.

In amore ad esempio, dopo essere diventati amanti, mariti o mogli e padri o madri, si tratta, prima o poi, dopo lo svezzamento dei figli o anche prima, di ritornare nuovamente e pienamente amanti, riscoprendo la nostra natura animale (e quindi poligama) di maschi e di femmine.

Questo, lungi dallo spezzare fatalmente e inevitabilmente il legame di fedeltà che ci lega ad una donna o ad un uomo (come i più pensano e temono), lo rinforza, perché lo rivitalizza, gli dà di nuovo energia; energia che tende fatalmente a spegnersi, quando diventa scontato, perché troppo sicuro e del tutto prevedibile.

L’esistenza del terzo (o della terza) può indebolire e, al limite, far scoppiare la coppia, se questa viene vissuta come gabbia, come tana, come prigione comoda, rassicurante, confortevole, anche se, alla lunga, asfissiante.

Ma può anche invece vivacizzarla, darle pepe e nuova anima, se la coppia non è vissuta come rifugio e come riparo, ma come il luogo degli affetti consolidati e teneri, ma non per questo necessariamente esclusivi e possessivi.

L’amore, l’amore vero che si fida, che è sicuro dell’altro e che quindi non ha bisogno delle sue rinunce e del suo sacrificio, non solo è disposto a concedere all’altro/a che egli /ella abbia altri legami, altri amori, ma se ne avvantaggia, perché lo trova eccitante.

Il pensiero che la “mia” donna abbia rapporti con altri maschi, che sia desiderata da altri maschi, lungi dall’indurmi in gelosia, rinnova, rinfocola, eccita il mio desiderio per lei, lo ringiovanisce, lo fa ritornare agli albori dei nostri primi incontri.

E, quindi, è terapeutico, medicina, farmaco, contro il ristagno del sentimento erotico, che fatalmente tende ad appassire col tempo, quando nell’altra si afferma prima la moglie e poi la madre e si spegne la femmina, che originariamente mi aveva attirato a sé, sedotto.

La stessa cosa credo valga anche per la donna (o, meglio, per la femmina) nei confronti del maschio. Anche se purtroppo la donna tende a reprimere questa istanza e a impedire, il più delle volte, che essa affiori alla consapevolezza.

Per cui è più facile che una donna, una volta diventata moglie e, soprattutto, dopo essere diventata madre, tenda ad accucciarsi in questi due ruoli e a rinunciare alle sue istanze ed esigenze di femmina.

Convinta che in questo modo si conquisterà la devozione e la fedeltà del marito, che, nella maggioranza dei casi, effettivamente, a livello conscio, questo vuole e questo le fa credere, ma che, invece, a livello inconscio, desidera esattamente l’opposto.

Tanto è vero che in moltissimi casi si va a cercare la femmina altrove e si trova quindi l’amante, operando quella scissione che è tipica del matrimonio e delle coppie tradizionali: il matrimonio è il luogo della tenerezza e degli affetti, il rapporto extraconiugale è il luogo della eccitazione e dell’eros.

In questo modo l’esito del rapporto di coppia è la rinuncia all’eros, quasi questo fosse un esito scontato, il prezzo inevitabile da pagare alla sicurezza del legame matrimoniale e alla dolcezza della maternità.

Io penso, invece, che questo non sia affatto un esito inevitabile. A patto però di avere coraggio, di saper sperimentare nel proprio rapporto di coppia un’apertura ancora oggi inconsueta, a patto di saper vincere l’inevitabile e naturale istinto di possesso e il conseguente sentimento di gelosia.

A patto che ci si apra ad una concezione dei rapporti uomo/donna (anzi maschio/femmina) del tutto inedita. Una concezione che preveda una pluralità di legami, nella fedeltà a ciascuno di essi.

Fedeltà, che può sembrare paradossale, ma in fondo non lo è, se pensiamo a cosa è l’amicizia. Nell’amicizia io mi sento profondamente legato e fedele al mio amico, ma questo non mi impedisce di essere altrettanto profondamente legato e fedele ad altri amici.

E questo sentimento plurimo in genere è vissuto senza particolari gelosie e pretese di possesso esclusivo. Anzi, quando tali sentimenti si manifestano, vengono di solito giudicati negativamente dal contesto sociale che ci circonda.

Viene allora da chiedersi: perché quello che viene considerato legittimo, anzi del tutto sano e auspicabile per l’amicizia (più amici ho e più ricca è la mia vita sociale ed affettiva) viene considerato invece illegittimo e addirittura immorale nel matrimonio o nei rapporti cosiddetti di amore, nei rapporti cioè nei quali, oltre all’affetto e alla stima reciproci (come nell’amicizia), c’è anche un’implicazione sessuale (che, di solito, nell’amicizia non c’è)?

© Giovanni Lamagna

Monogamia, poligamia e poliamore

Per quello che ne so, la gran parte degli studi antropologici ci dice che la monogamia, come struttura organizzativa fondamentale e storicamente prevalente dei legami tra maschi e femmine, sia stata inventata dai maschi.

Perché essi potessero avere 1) la (quasi) certezza dell’appartenenza biologica della propria prole e 2) una figura che garantisse l’allevamento, la cura e la crescita dei propri figli, mentre egli era lontano per motivi di caccia o di pastorizia.

Se questa ricostruzione è attendibile, la monogamia sarebbe stata dunque imposta alle femmine, anche se queste ne hanno poi tratto dei vantaggi secondari: questo tipo di organizzazione, infatti, assicurava il cibo alla prole oltre che a loro.

Gli stessi maschi poi, presso alcune società, hanno inventato la poligamia; che significava per alcuni di essi la possibilità di realizzare appieno la propria libido (tendenzialmente poligamica e non certo monogamica) possedendo più femmine; e per le femmine la dipendenza (economica, affettiva, sessuale) da un solo uomo, con il conseguente sacrificio (almeno parziale) della propria libido (tendenzialmente poligamica come quella del maschio).

La poligamia ha dunque questo dato fondamentale che la caratterizza con tutta evidenza: vale per il maschio e non per la femmina; è dunque un’organizzazione dei rapporti maschi/femmine completamente e radicalmente asimmetrica.

Da qualche decennio, soprattutto nelle società ad economia più avanzata e, quindi, più aperte ed evolutive sul piano dei costumi, è affiorata l’idea di un modo nuovo di pensare e vivere i rapporti tra maschi e femmine: quello poliamoroso.

In linea teorica il poliamore nasce come opzione valida sia per i maschi che per le femmine; si basa quindi su un’idea (finalmente) paritaria (almeno sul piano teorico-ideale) dei rapporti tra maschi e femmine.

E questo dato lo distingue nettamente e profondamente dalla poligamia tradizionale, come l’abbiamo conosciuta storicamente, presso le varie società che l’hanno istituita e praticata per secoli, in alcuni casi per millenni.

E, infatti, ci sono poliamoristi maschi e poliamoriste femmine. Ma la mia impressione (non so se ci siano anche dati statistici che lo confermano) è che ci siano molti più poliamoristi maschi che poliamoriste femmine.

Se ne può dedurre che anche il fenomeno del poliamore sia partito dai maschi, credo per portare alla luce del sole e non essere costretti a vivere più in maniera clandestina quella che è stata sempre una loro tendenza tipica: quella di avere più legami (e non uno solo) con le femmine.

Mentre ho l’impressione che la gran parte delle femmine continui a prediligere ancora oggi la coppia rigidamente monogamica, continui cioè ad avere  una struttura psicologica saldamente orientata verso la monogamia, come espressione di un sogno/mito tipico della psicologia femminile: quello dell’amore romantico.

E’ del tutto evidente, quindi, che il fenomeno poliamoroso non avrà alcuna possibilità di affermarsi su una larga scala sociale, se nelle femmine non verrà meno questo mito, quasi archetipico, così fortemente radicato nel loro inconscio.

Se, in altre parole, le donne non supereranno una concezione che, nei fatti e sui grandi numeri (fatte quindi le dovute eccezioni), le rende (ancora oggi e per molti aspetti) subalterne alla figura maschile, orientate come sono (quasi come interesse prevalente) alla ricerca dell’uomo della loro vita, l’uomo dei loro sogni.

© Giovanni Lamagna

Dare e ricevere in amore: leggendo “Le mani della madre” di Massimo Recalcati

Amare non è solo dare, donare delle cose all’altro, ma anche (e, forse, soprattutto) manifestargli il nostro desiderio di ricevere; che sta a dire: “tu mi manchi, tu sei importante per me”.

L’ho capito molto bene – confesso che non l’avevo mai capito finora così bene – leggendo questo passaggio del libro di Massimo Recalcati “ Le mani della madre” a pag. 51.

Recalcati, citando il suo maestro Lacan, afferma: “… amare è dare all’Altro quello che non si ha. Questo significa che il dono dell’amore… non è mai dono di qualcosa che si possiede, ma dono di ciò che non abbiamo, di ciò che radicalmente manca a noi stessi.”.

Cosa vuol dire questa affermazione “il dono dell’amore… è… dono di ciò che non abbiamo”? A mio avviso, questo: che l’amore dice all’altro: io ho bisogno di te, tu mi manchi, io desidero il tuo amore, io ho bisogno del tuo amore.

Forse è esagerato affermare, come fa Recalcati,  che “il dono dell’amore… non è mai dono di qualcosa che si possiede”. Con questa affermazione Recalcati si è lasciato forse prendere un po’ la mano e dall’enfasi del pensiero opposto.

A mio avviso in amore donare è anche dare ciò che si possiede o, meglio, ciò che si è.

E però l’amore non è solo questo. E, forse, non è manco innanzitutto questo.

E qui sta la grande originalità del pensiero di Lacan, ribadita molto bene, anche se a mio avviso in maniera un po’ unilaterale, dal suo allievo Recalcati.

La caratteristica principale dell’amore (sembrano dire sia Lacan che Recalcati) sta nel far sentire all’Altro tutta la sua importanza per me, nel fargli sentire la mia mancanza di lui/lei, nel dirgli/le e soprattutto fargli/le sentire “ senza di te io non sono la stessa cosa, mi manca qualcosa, che è proprio quello che mi dai tu”.

Questo si capisce molto bene nel rapporto madre-figlio/a. Il figlio non ha bisogno solo delle cure della madre. Il figlio ha bisogno anche (se non soprattutto) del riconoscimento della madre.

La madre deve saper dire al figlio (ovviamente non solo e non tanto con le parole, che un bimbo piccolo manco capirebbe, ma soprattutto con i gesti, lo sguardo, il sorriso, il tono della voce, la postura…) “ tu sei importante per me, tu hai cambiato il mio mondo, la mia vita, lo/a hai arricchito/a, io ti ho desiderato, voluto e adesso non potrei fare a meno di te.”.

Il bambino, insomma, anche un neonato, deve sentire che egli non solo riceve dalla mamma, ma che sta dando alla propria mamma; le sta dando il suo stesso essere, il fatto di esserci, sta restituendo alla madre in un certo senso la vita che lei le ha dato.

Amare, dunque, non è solo capacità di dare ma anche capacità di ricevere. Persino di ricevere da un bambino piccolo.

Il buon samaritano che dona le sue cure all’uomo incontrato sul ciglio della strada non dona soltanto, in maniera unilaterale. Ma riceve anche.

Il samaritano a sua volta riceve dall’uomo che sta assistendo: sta ricevendo la sua umanità, che è parte di lui (del samaritano).

Per questo l’atto d’amore non è mai un atto di sacrificio: io nell’atto d’amore non tolgo a me per dare all’altro. Nell’atto d’amore io do (anche) a me stesso nel momento in cui do all’altro.

E qui sta il fondamento più solido, per niente utopico (come molti lo ritengono), del comandamento cristiano dell’amore universale (e allo stesso del tutto particolare e individualizzato, come dice Recalcati: l’amore non è mai amore per l’Umanità, ma è sempre amore per il singolo uomo).

Quello che dice Recalcati è molto vero: l’amore astratto, universale, non avrebbe senso, se non si rivolgesse poi nei fatti ad una singola persona.

Ma è un po’ unilaterale. Perché è anche vero che io posso amare il singolo uomo solo in quanto riconosco in lui la mia stessa umanità, l’Umanità che ci accomuna.

© Giovanni Lamagna