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Sul sapere conscio e inconscio dell’uomo e la metafora di Dio.

Jung, nel libro curato da Aniela Jaffé; “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023) tra pag. 201 e pag. 203, fa le seguenti affermazioni:

Se dico che nell’inconscio esiste un sapere assoluto (o, in termini religiosi, che Dio è onnisciente), ciò non è in contraddizione con quello che posso aggiungere, ossia che solo l’uomo o la sua coscienza possono disporre di tale sapere.

In quanto uomo, sono un essere che sa di sapere.

L’essere umano è consapevole del proprio sapere, mentre questo essere universale onnisciente non è consapevole del proprio sapere. *

Il sapere è semplicemente presente, esiste ed è insito probabilmente fin nelle più minuscole unità del cosmo e della natura.

Nella natura ci sono cose che si manifestano come se procedessero da un sapere e fossero da esso organizzato.

(…)

… per esempio… Esiste un tipo particolare di vespa che, per deporre le uova, necessita della carne di un bruco.

Che cosa fa dunque quest’insetto?

Punge un bruco in un ganglio del midollo spinale in cui è situato il centro motorio, riuscendo in tal modo a paralizzarlo.

Da dove gli viene tale conoscenza?

Le api possono persino esprimere il loro “sapere”: possono comunicarselo reciprocamente quando nelle loro danze indicano la direzione verso luoghi ricchi di nettare.

Queste sono decisioni, atti di giudizio.

Ma noi non sappiamo se gli animali stessi sappiano quello che fanno.

Lo stesso vale anche per gli uccelli migratori: sappiamo altrettanto poco se essi sappiano del loro misterioso sapersi orientare.

Di noi sappiamo di sapere, oppure di sapere fino a un certo punto.

Dove però si va oltre il nostro sapere, possono manifestarsi fenomeni precognitivi…, come avvenne, per esempio, nel mio primo incontro con Freud, o con la mia futura moglie.

(…) entrambe le volte seppi che si sarebbe verificato un incontro decisivo per il mio destino e che in me c’era un sapere che appartiene al futuro, un sapere che – per così dire – è già presente in me, senza che io ne sia consapevole.

Il mio inconscio sa già certe cose.

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*Per Jung i concetti di “divinità” e di “inconscio” non erano identici, ma erano comunque sinonimi per designare una dimensione in ultima analisi inconoscibile. (nota di Aniela Jaffé)

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In questo testo Jung si avventura in considerazioni che sono di ordine squisitamente filosofico, sulla base delle proprie esperienze di psichiatra e psicoanalista.

Vorrei cercare di enuclearle in maniera sintetica e schematica per come le ho comprese io e provare a ragionare brevemente sulla loro fondatezza, almeno per me.

1.Per Jung il sapere è molto più vasto di quello di cui dispone l’uomo, in quanto individuo e in quanto Umanità, in un dato momento storico.

È un sapere che potremmo anche definire infinito, assoluto; la figura e l’idea di Dio (essere onnisciente) ne sono la metafora, la rappresentazione simbolica.

2. Si danno così due paradossi:

 a) questo sapere totale ed infinito si manifesta solo nell’uomo, che ha però un sapere cosciente limitato;

 b) il sapere totale, infinito, assoluto (rappresentato simbolicamente dall’idea di Dio) non è consapevole del proprio sapere, lo diventa solo attraverso il progredire del sapere umano.

3. C’è, dunque, un sapere che esiste in natura, che muove concretamente la natura in tutte le sue manifestazioni (minerali, piante, animali, uomini), e che è ancora (potremmo anche dire, in gran parte) inconscio.

Ciò spiegherebbe tra l’altro i fenomeni (non rari) di premonizione o, come li chiama Jung, “precognitivi”.

4. Attraverso questi fenomeni si manifesterebbe il sapere inconscio (potenzialmente infinito, quindi “divino”) che è in ognuno di noi umani e che è molto più vasto del nostro sapere conscio.

Ma questo sapere inconscio si manifesta, ad avviso di Jung, in tante altre manifestazioni della natura, ad esempio (macroscopicamente) nel comportamento delle api o in quello degli uccelli migratori.

Cosa penso di queste tesi di Jung?

Penso che esse non fanno teoricamente una piega.

Ne concludo però (e non so se su questo lui sarebbe d’accordo) che l’idea di Dio è un’idea solo simbolica, alla quale non può essere attribuita nessuna consistenza reale e dunque metafisica, trascendente.

Dio è solo il simbolo, la proiezione simbolica, la metafora, del sapere che l’uomo e la natura intera, in tutti i suoi aspetti, già possiedono.

Anche se in gran parte solo ad un livello inconscio, e che attende prima o poi di manifestarsi, in maniera graduale, anche ad un livello conscio.

© Giovanni Lamagna

Il desiderio dei desideri

Qual è il cuore di tutti i nostri desideri, quello che potremmo chiamare “il desiderio dei desideri”?

A me sembra che il primo desiderio, la pulsione fondamentale (quella che vive, ad esempio, il bambino appena nato), siano quelli di ritornare nell’utero materno, di recuperare cioè la condizione di fusione totale (ed evidentemente di benessere e piacere assoluti) che era la vita intrauterina.

Questo desiderio naturalmente è del tutto impossibile da realizzare, innanzitutto per ovvie ragioni fisiche; e poi per ragioni di ordine psichico, di cui parlerò in seguito.

E allora il neonato lo soddisfa (anche se in maniera del tutto surrogatoria; o sublimatoria, per usare un aggettivo più vicino alla terminologia freudiana) ricercando un persistente contatto fisico con la mamma (vuole essere preso continuamente in braccio, carezzato, baciato…), ma soprattutto attraverso la suzione, l’atto cioè che continua a tenerlo legato alla madre, un po’ come il cordone ombelicale lo teneva legato alla madre durante i nove mesi di gravidanza.

Il desiderio fondamentale, quindi, è innanzitutto un desiderio di fusione; o, meglio, di recupero della primitiva fusione, quella intrauterina.

E’ un desiderio, perciò, destinato a rimanere definitivamente e, quindi, strutturalmente frustato: potrà essere soddisfatto solo attraverso atti e modalità surrogatori o di sublimazione pura.

La “Cosa” (per usare un termine lacaniano), cioè il ritorno nell’utero materno, sarà per sempre preclusa al bambino oramai nato; il suo godimento, quindi, non potrà mai più essere perfetto ed assoluto, soffrirà sempre, per una quota parte, di insoddisfazione, di frustrazione, di mancanza.

Qualche anno dopo (tra i tre e i sette anni) il bambino tornerà alla carica: il suo desiderio fondamentale questa volta si appunterà, focalizzerà sul genitore di sesso opposto, per conquistarlo come proprio partner privilegiato e toglierlo, strapparlo al genitore del suo stesso sesso.

Questo desiderio acquisterà connotazioni, sensazioni, vagamente sessuali, erotiche: il bambino comincerà ad avere una prima percezione di che cosa è il sesso.

Ovviamente molto vaga e generica, perché gli mancano ancora gli stimoli ormonali (che matureranno parecchio più tardi, durante la fase puberale) per poterlo sperimentare appieno, nella forma che Freud definirà “genitale”.

Ma anche in questa fase (la famosa “fase edipica”) tale desiderio sarà frustrato, gli sarà impedito, da quella che ancora Lacan chiama “la legge della castrazione”; ovviamente una castrazione del tutto simbolica, tanto è vero che coglie non solo il desiderio del bambino nei confronti della madre, ma anche il desiderio della bambina nei confronti del padre.

Il(la) bambino(a) sarà allora costretto(a) a comprendere (salvo insane eccezioni) che il suo desiderio è impossibile da realizzare, perché il genitore che egli (ella) desidera è già legato all’altro genitore e non ha nessuna intenzione di tradirlo per lui/lei.

Il genitore di sesso opposto diventerà, quindi, per lui/lei un vero e proprio rivale, verso il quale proverà (e spesso manifesterà) la tipica aggressività di chi si sente in competizione: una vera competizione erotica, per l’amore esclusivo dell’oggetto desiderato.

In entrambe le situazioni (quella immediatamente post natale e quella edipica), il(la) bambino(a) sperimenterà una frustrazione, cioè una limitazione, una impossibilità, che si porterà appresso (come una sorta di nostalgia e rimpianto) per tutto il resto della sua vita, anche da adulto.

Ma queste saranno anche le condizioni, i passaggi ineludibili, perché egli (ella) possa aprirsi al mondo, attraverso il contatto con altri oggetti di soddisfazione libidica (che non siano il corpo della madre) e attraverso l’incontro con altri soggetti d’amore (in questo caso altre persone, che non siano il genitore di sesso opposto).

L’atto fisico della nascita con il taglio del cordone ombelicale e l’atto di castrazione simbolica della fase edipica costituiscono, dunque, come delle potature che consentono alla pianta di crescere.

Essi procurano vere e proprie ferite, da cui l’adulto non guarirà mai del tutto, ma sono ferite necessarie, potremmo dire chirurgiche, terapeutiche, perché il(la) bambino(a) non vada incontro ad un male peggiore: il ripiegamento narcisistico all’indietro verso l’utero materno, il sogno incestuoso e allucinatorio dell’amore esclusivo per la madre.

In questo modo quello che il(la) bambino(a) perde in intensità di sensazioni, emozioni e sentimenti (perché tutti concentrati su un’unica figura: quella materna) lo guadagna in estensione e varietà.

Il fanciullo – non più bambino – e poi l’adolescente e poi l’adulto diventeranno, via, via, sempre più capaci (se il loro processo di crescita affettiva e psicologica seguirà un iter naturale, normale) di stabilire una pluralità di relazioni: prima solo familiari, poi amicali, quindi anche erotiche e sessuali.

E, tuttavia, non possiamo dimenticare, non lo dobbiamo rimuovere, che questa pulsione socializzante è pur sempre nient’altro che la trasformazione/sublimazione della prima/primitiva/originaria pulsione.

Tutti i desideri, che ciascuno di noi proverà prima da fanciullo e poi da adolescente e poi da adulto, sono figli e frutti evoluti del primo desiderio: quello di ritornare nell’utero materno.

Da questo punto di vista Freud ebbe un’intuizione giusta quando paragonò la cosiddetta esperienza mistica all’esperienza che il bambino prova nell’utero materno.

Gli sfuggì però che l’esperienza mistica non è pura nostalgia di quella e, meno che mai, semplice (anche se solo metaforico) ritorno ad essa.

Perché tutte le esperienze di socializzazione, non solo l’esperienza mistica, anche quelle che non sfociano nella mistica, nascono in fondo pur sempre da quella nostalgia, sono sue figlie naturali.

Eppure Freud (giustamente) non solo non le critica, ma, anzi, le ritiene l’esito di un percorso del tutto naturale e, quindi, sano e, perciò, auspicabile.

L’esperienza mistica è un’esperienza di apertura al mondo e agli altri non molto diversa, in senso qualitativo e strutturale, dalle altre esperienze di socializzazione; le porta solo alle loro estreme conseguenze: ne è quindi diversa solo sotto l’aspetto quantitativo.

Porta alle estreme conseguenze quella che è una naturale e comune esigenza, presente in tutti gli esseri umani sani, non pervertiti da qualche insana tendenza regressiva: l’esigenza di conoscere ed esplorare il mondo e quella di fraternizzare, sperimentare cioè sentimenti di amicizia e di amore con i propri simili.

L’esperienza mistica nasce da un’esigenza di apertura al mondo, che arriva a diventare esigenza, desiderio di fusione con il “Tutto” (uomini e cose), di sperimentare il cosiddetto “sentimento panico” o il “sentimento oceanico” di cui lo stesso Freud ebbe modo di discutere in un interessantissimo scambio epistolare con lo scrittore francese, di cui divenne amico, Romain Rolland.

Sentimento panico (od oceanico), che avrà pure delle analogie (come del resto, lo ripeto ancora, tutte le esperienze di socializzazione) con il desiderio di ritornare nell’utero materno, ma ne differisce profondamente per un dato fondamentale e sostanziale.

Il desiderio di tornare nell’utero materno si rivolge all’indietro, il sentimento panico si proietta in avanti, il primo fa regredire, involvere, impigrire, rattrappire la personalità di colui (colei) che ne resti preda/vittima, il secondo, invece, la fa progredire, evolvere, la attivizza, la espande.

In altre parole l’esperienza mistica, lungi dall’essere (così come la vedeva Freud), un‘esperienza di regressione alla vita infantile, è (almeno a mio avviso) la possibilità estrema, massima che viene offerta agli esseri umani di realizzare pienamente se stessi, entrando il più possibile in sintonia con l’Universo mondo, nei suoi molteplici aspetti: fisico-materiali, emotivo-affettivi, intellettuali; spirituali, a voler usare un termine che per me li sintetizza tutti.

© Giovanni Lamagna