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Amare il sacrificio o sacrificarsi per amore?

Non vedo nulla di eroico nel cosiddetto “amore per la croce”.

Ci vedo anzi – ad essere sincero – solo del masochismo.

Come non vedo – addirittura! – nulla di cristiano nel desiderio di farsi (fosse anche solo metaforicamente) crocifiggere.

Tanto è vero che Gesù – quando venne l’ora – manifestò chiaramente al Padre il desiderio che Egli allontanasse da lui il “calice di dolore” che vedeva approssimarsi.

Poi si rassegnò – è vero – al suo destino (“… non sia fatta la mia, ma la tua volontà”), ma non lo “amò” affatto; lo sopportò con spirito di abbandono (“Padre, nelle tue mani affido il mio spirito”), ma non lo desiderò di certo.

Può essere eroico, invece, può arrivare ad essere eroico, l’amore.

Ma è (può giungere ad essere) eroico l’amore, non il desiderio del sacrificio in sé.

Valga un solo esempio: quello del giovane carabiniere casertano Salvo D’Acquisto, che sacrificò eroicamente la sua vita offrendola in cambio di quella di alcuni suoi concittadini, che i nazisti tedeschi avevano deciso di fucilare per rappresaglia.

In questo caso, però, fu l’amore generoso verso la sua comunità a portare Salvo D’Acquisto verso il sacrificio estremo; non certo il desiderio di morire; che in sé sarebbe stato pura necrofilia.

Dunque, imitiamo pure, prendiamo pure a modello la figura di Gesù Cristo!

Ma per la sua straordinaria testimonianza d’amore universale, che fu capace di giungere fino al sacrificio estremo, passando per la “notte oscura” del Getsemani.

Non per il suo “amor crucis”, che non trova alcun fondamento – anzi trova solo smentite – nei Vangeli che della sua vita ci hanno lasciato memoria.

© Giovanni Lamagna

Stagnazione melanconica del lutto versus elaborazione simbolica della perdita.

“Il dolore del lutto è sempre statico, esclude il movimento e la trasformazione proprio perché rifiuta di riconoscere pienamente la separazione dall’oggetto perduto.” (Massimo Recalcati; “La luce delle stelle morte”; 2022 Feltrinelli; pag. 46).

Aggiungo che quando il dolore del lutto si prolunga oltre un certo limite questo è il segno che è sopraggiunta una depressione; o, meglio, che il lutto ha “risvegliato” ed attivato una depressione che era già potenziale, latente.

Significa che il soggetto depresso è stato risucchiato in un gorgo mortifero, che è attratto più dalla presenza di chi e di ciò che è morto che da quella di chi e di ciò è ancora vivo; in altre parole è attirato più dalla morte che dalla vita.

Ma non è il prolungamento anomalo del lutto, la cronicizzazione del lutto, l’incapacità di elaborare simbolicamente la perdita della persona defunta, che attivano la melanconia, la depressione, quella che Recalcati definisce “la stagnazione melanconica del lutto” (ibidem; pag. 46).

E’ – a mio avviso – piuttosto il carattere (potenzialmente, latentemente o manifestamente) depresso del soggetto che vive un lutto a prolungare questo lutto oltre limiti anomali, a renderlo cronico, incapace di una sua elaborazione simbolica.

Nella persona sana il lutto, prima o poi, viene elaborato e superato; la persona sana prima o poi simbolizza la separazione e la supera; nella persona sana l’istinto di vita prevale prima o poi sull’istinto di morte.

La persona sana prima o poi riprende in mano la sua vita, ricomincia a guardare al futuro; la persona insana rimane, invece, bloccata sul passato, prigioniera della nostalgia, anzi del rimpianto, incapace di guardare in avanti, alle persone e alle cose che sono rimaste in vita.

A questo punto però mi chiedo: che vuol dire “simbolizzare una separazione”, “elaborare un lutto”?

A mio avviso, vuol dire fare un percorso interiore (Recalcati lo chiama un “lavoro”), tale che la persona perduta entri simbolicamente, cioè psicologicamente, (potrei dire anche spiritualmente, se non temessi il fraintendimento del termine) a far parte di noi.

Che non la viviamo più come separata, altro da noi (come in un certo senso – per certi aspetti addirittura paradossali – era quando stava con noi), ma l’abbiamo come interiorizzata, fatta diventare oramai una parte stabile di noi.

Quando la separazione e il lutto sono stati elaborati, il ricordo della persona perduta (e di tutto ciò che ad essa si riferisce) è dolce, ci fa teneramente compagnia, ci aiuta addirittura a vivere e a progettare il futuro, per certi aspetti ce la rende ancora più presente di quando stava fisicamente con noi.

Ricordo qui (quasi per inciso) una frase alquanto oscura di Gesù (riportata dal Vangelo di Giovanni 16,7-15), ma che, alla luce della riflessione che sto in questo momento svolgendo, può risultare meno oscura o addirittura trasparente: “E’ bene per voi che io me ne vada perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paràclito; se invece me ne vado, lo manderò a voi”.

Il Paràclito è qui da intendersi come lo Spirito Santo, cioè Gesù stesso in forma spirituale, interiorizzata.

Ricordo che Gesù rivolge queste parole ai suoi discepoli, poco prima del suo arresto e della sua crocifissione, per consolarli ed aiutarli ad accettare la sua morte, la sua perdita, il suo allontanamento fisico (ma non certo spirituale; anzi!) dalle loro vite.

Secondo questa profezia e questo auspicio di Gesù la sua morte avrebbe addirittura giovato ai suoi discepoli, nel senso che li avrebbe costretti – in mancanza della sua presenza fisica – ad interiorizzare la sua realtà spirituale, a farla diventare carne della loro carne, fino a poter dire (come dirà effettivamente un giorno Paolo di Tarso): “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Lettera ai Galati; 2, 20).

In questo caso la morte è vissuta come separazione fisica, indubbiamente dolorosa, perfino lacerante, straziante, almeno inizialmente, ma infine, prima o poi, come ricongiungimento spirituale, resurrezione in qualche modo della persona morta, addirittura più presente spiritualmente di quando essa era ancora fisicamente viva, generatrice di linfa ed energia vitale in chi le è sopravvissuta.

Al contrario nella “stagnazione melanconica del lutto” il morto prende il posto dei vivi, li sopravanza e quasi li oscura con la sua presenza fantasmatica, quasi li caccia fuori dalla scena dell’esistenza, il passato si sostituisce al presente e nientifica ogni prospettiva di futuro, la nostalgia e il rimpianto impediscono il godimento di chi (e anche di ciò che) è rimasto vivo.

Nella “stagnazione melanconica del lutto” il ricordo della persona perduta è ossessivo, amaro, persecutorio, colpevolizzante, onnipresente.

Lungi dall’aiutare la persona sopravvissuta (come nella profezia e nell’auspicio evangelici) a vivere, a continuare a vivere, anzi (in quel caso) a nascere addirittura a nuova vita, le rovina e intossica l’esistenza.

La morte – quando il lutto ristagna melanconicamente – attrae e risucchia nel suo gorgo depressivo e distruttivo la vita, il freudiano istinto di morte prevale sull’istinto di vita, la necrofilia (cito qui Erich Fromm) vince sulla biofilia.

© Giovanni Lamagna