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I libri e la sapienza.

Dice Jung nel “Libro rosso” (p. 268): “Sai bene che un libro lo si può leggere molte volte… Magari lo conosci quasi a memoria, e tuttavia, se riguardi le righe che ti stanno davanti, certe cose ti appariranno nuove oppure ti verranno pensieri del tutto nuovi, che non avevi avuto prima. Ogni parola può fecondare il tuo spirito. E infine, se hai accantonato il libro per una settimana e torni a riprenderlo dopo che il tuo spirito ha sperimentato varie trasformazioni, avrai molte nuove illuminazioni.”.

È verissimo!

Questo, però, non succede con tutti i libri, ma solo con quelli che contengono parole di sapienza.

E non tutti i libri – diciamoci la verità – contengono parole di sapienza.

La parola sapiente si rinnova continuamente e, quindi, ha sempre nuove cose da dirci.

Questo non succede, invece, con la parola che è erudita, ma non sapiente.

E ciò non deve meravigliare.

Ci sono, infatti, parole sapienti che non sono erudite e parole erudite che non sono sapienti.

© Giovanni Lamagna

Amare il sacrificio o sacrificarsi per amore?

Non vedo nulla di eroico nel cosiddetto “amore per la croce”.

Ci vedo anzi – ad essere sincero – solo del masochismo.

Come non vedo – addirittura! – nulla di cristiano nel desiderio di farsi (fosse anche solo metaforicamente) crocifiggere.

Tanto è vero che Gesù – quando venne l’ora – manifestò chiaramente al Padre il desiderio che Egli allontanasse da lui il “calice di dolore” che vedeva approssimarsi.

Poi si rassegnò – è vero – al suo destino (“… non sia fatta la mia, ma la tua volontà”), ma non lo “amò” affatto; lo sopportò con spirito di abbandono (“Padre, nelle tue mani affido il mio spirito”), ma non lo desiderò di certo.

Può essere eroico, invece, può arrivare ad essere eroico, l’amore.

Ma è (può giungere ad essere) eroico l’amore, non il desiderio del sacrificio in sé.

Valga un solo esempio: quello del giovane carabiniere casertano Salvo D’Acquisto, che sacrificò eroicamente la sua vita offrendola in cambio di quella di alcuni suoi concittadini, che i nazisti tedeschi avevano deciso di fucilare per rappresaglia.

In questo caso, però, fu l’amore generoso verso la sua comunità a portare Salvo D’Acquisto verso il sacrificio estremo; non certo il desiderio di morire; che in sé sarebbe stato pura necrofilia.

Dunque, imitiamo pure, prendiamo pure a modello la figura di Gesù Cristo!

Ma per la sua straordinaria testimonianza d’amore universale, che fu capace di giungere fino al sacrificio estremo, passando per la “notte oscura” del Getsemani.

Non per il suo “amor crucis”, che non trova alcun fondamento – anzi trova solo smentite – nei Vangeli che della sua vita ci hanno lasciato memoria.

© Giovanni Lamagna

In memoria di Toni Negri.

Lo dico subito: a me Toni Negri non stava simpatico.

Ora che è morto provo ovviamente un sentimento di rispetto e di umana pietà, che è sempre giusto e naturale provare di fronte al fine vita di ogni essere umano.

Ma non posso esimermi dall’esprimere un mio giudizio franco sulla sua persona, anche, anzi proprio in nome del rispetto di cui prima.

Per me Toni Negri era il classico intellettuale, impegnato politicamente, che presumeva di parlare del popolo, anzi in nome del popolo, senza farne concretamente parte.

Il suo pensiero è stato, infatti, totalmente incapace di intercettare le masse a cui pure pretendeva di rivolgersi; è rimasto in buona sostanza un pensiero largamente minoritario.

Quindi – possiamo dire – del tutto fallimentare, anche alla luce dei suoi presupposti, degli obiettivi che autonomamente si era proposto.

Non posso poi perdonargli la deriva violenta che (direttamente o indirettamente) ha contribuito a promuovere.

Il movimento degli anni ’70, di cui Negri è stato un indubbio protagonista, anzi leader e “maestro”, ha rappresentato per me l’involuzione nettamente negativa di tutte le istanze (ovviamente già in sé ambivalenti, ma molte fortemente positive) maturate nel decennio precedente.

Questa deriva ha avuto un tragico e decisivo ruolo – anche se naturalmente non è stata l’unico fattore a provocarla – nella sconfitta del (vero) movimento di massa dei lavoratori, che in quegli anni aveva raggiunto la sua massima forza, anzi imponenza.

Da allora sono cominciate le sconfitte, che oggi vedono il loro punto culminante; almeno così io spero; anche se non ne sono del tutto sicuro, perché ci sono tornanti della storia nei quali al peggio sussegue l’ancora peggio in una spirale (quasi) senza fine.

Negli ultimi anni – ho letto qualcosa in proposito: spero sia vero – mi è giunta notizia che sorrideva spesso e parlava di amore; sono contento per lui; questo potrebbe essere il segno che si è vissuta una vecchiaia più felice di quanto non sia stata (immagino) la sua travagliata vita precedente.

E questo – ripeto: se fosse vero – me lo rende anche, in questo momento, umanamente un po’ più simpatico e vicino di quanto non lo sia stato nei lunghi decenni trascorsi, in cui pure l’ho seguito, ma da posizioni molto, molto lontane dalle sue.

© Giovanni Lamagna

Le cose lette.

Ci sono cose lette, che, dopo un po’, vengono completamente rimosse dalla memoria, quasi come se non le avessimo mai lette.

Ma, se, a suo tempo, le abbiamo lette “bene” (cioè con interesse, attenzione, piacere, passione…), può anche darsi che le avremo cancellate dalla memoria coscia, non le avremo però cancellate dalla memoria inconscia.

Esse saranno entrate a far parte per sempre e in modo irreversibile del nostro patrimonio culturale.

Saranno diventate carne della nostra carne e sangue del nostro sangue.

Costituiranno oramai in maniera indelebile parte della nostra stessa identità.

© Giovanni Lamagna

Sulla elaborazione di un lutto.

Quando si vive un lutto (cioè il dolore profondo che ci colpisce per la perdita di qualcuno o qualcosa a cui eravamo legati da amore) il primo passo per elaborarlo (e, quindi, per uscirne, per superarlo) non è quello (come molti pensano) di rimuovere, dimenticare, allontanare il pensiero, l’immagine dell’oggetto amato che si è perduto.

Ma piuttosto il contrario: il primo passo dovrebbe essere quello di renderlo ancora più presente nella nostra memoria e nella nostra coscienza, fino a farlo diventare così parte di noi, da non sentire quasi più il bisogno della sua presenza fisica e, quindi, attutire, addolcire il dolore che la perdita di questa presenza causava.

Forse è questo il processo psichico a cui alludeva Gesù, quando, poco prima di esser preso prigioniero e sottoposto al martirio del Golgota (fatti che Gesù sapeva bene sarebbero avvenuti di lì a poco), disse ai suoi discepoli: “Ma io vi assicuro che per voi è meglio se io me ne vado” (Vangelo di Giovanni; 16, 7).

Evidentemente il suo “andare via”, quindi la perdita della sua presenza fisica, il lutto che questo avrebbe causato nei suoi discepoli, erano condizioni imprescindibili perché la sua presenza spirituale si radicasse ancora di più nei loro cuori; (“Perché, se non me ne vado, non verrà da voi lo Spirito che vi difende”; ibidem).

La sua morte, il suo allontanamento fisico, erano pertanto necessari, affinché potesse avvenire nei discepoli quello che di lì a poco Paolo di Tarso dirà essere avvenuto in lui: “Non sono più io che vivo: è Cristo che vive in me.” (Lettera ai Galati; 2, 20).

A mio avviso, secondo la mia esperienza e per concludere questa breve riflessione, chi non vive il lutto in questo modo, cioè chi lo supera in modo eccessivamente frettoloso o addirittura lo rimuove del tutto, è destinato a rimanere con una ferita sempre aperta, che non si rimarginerà mai.

Nonostante egli voglia convincersi (o si sia magari convinto) di aver completamente dimenticato, rimosso dalla propria coscienza, l’oggetto d’amore perduto e, quindi, superato del tutto e definitivamente il dolore della sua perdita.

Questa speranza/convinzione si rivela ancora più falsa ed illusoria, quando la perdita avviene in seguito a un “tradimento” da parte della persona che egli/ella amava, a cui era profondamente legato/a.

In questo caso l’orgoglio ferito blocca un’adeguata interiorizzazione dell’oggetto perduto, addirittura provoca il suo rifiuto, la sua espulsione, il suo rigetto rancoroso dal proprio spazio interiore ed affettivo.

E ciò impedisce, per conseguenza, una soddisfacente elaborazione della perdita vissuta.

© Giovanni Lamagna

La psicoterapia è solo un lavoro di ricostruzione storica?

Massimo Recalcati ci ricorda che “Lacan parla dell’analisi come di una ricostruzione storica” (da “La luce delle stelle morte; Feltrinelli 2022; pag. 115).

E, indubbiamente, certamente è così: l’analisi è uno sguardo a ritroso sul nostro passato, un ripercorrere la trama della nostra vita.

Non è però – come lo stesso Recalcati ci fa notare – un semplice “ricordare”, un mettere insieme, un ricomporre frammenti del passato.

Che avrebbe poco senso e soprattutto non avrebbe alcun effetto terapeutico.

Bensì è il tentativo di ritrovare in questo lavoro di memoria un filo rosso tra i fatti ricordati e quindi un senso, un significato, una direzione di marcia.

Per verificare dove si sono annidati gli intoppi, gli ostacoli che hanno intralciato e, in qualche caso, bloccato, ostruito del tutto, il fluire sereno, se non proprio felice, della nostra esistenza.

Per provare a sbloccare, a disostruire questi grumi di cupezza e infelicità e dare alla nostra vita una nuova direzione, un nuovo slancio.

Senza questo lavoro di “ricostruzione storica” non sarebbe possibile alcun rilancio, nessuna ripartenza.

Ma senza rilancio e senza ripartenza la ricostruzione storica resterebbe fine a sé stessa, non avrebbe alcuna utilità terapeutica per la nostra vita.

Qui mi sovviene la profonda saggezza di un motto che ha segnato la mia adolescenza, quando frequentavo la Parrocchia e l’Azione cattolica: “Vedere, giudicare e agire”.

E mi vien voglia di applicarlo a quello che considero il percorso tipo, ideale di una psicoterapia.

“Vedere” in psicoterapia significa fare memoria storica della propria vita; andare a recuperare anche i ricordi rimossi, laddove evidentemente si annidavano sofferenze che ancora oggi possono rappresentare ferite non rimarginate.

“Giudicare” equivale a capire, comprendere (io non userei più oggi il termine “giudicare”), le ragioni di quelle sofferenze, i fattori che le hanno determinate e che evidentemente ancora perdurano, se continuano a farci star male.

“Agire” equivale a prendere una decisione, fare una scelta tra due alternative.

Rimanere impantanati nelle sabbie mobili dei ricordi e della sofferenza vissuta un tempo.

Oppure prendere atto del passato, accettarlo con tutte le sue ombre; per poi uscirne prendendo una strada diversa, dando una direzione nuova alla propria vita.

Vedere e capire aiuta, ma da soli non bastano; occorre poi agire, decidere, convertirsi (per dirla in un linguaggio cristiano), riconvertirsi (per dirla con un linguaggio più laico).

Se non si ha la forza, se non si trovano le energie, per compiere questo terzo passo, il lavoro dell’analisi rimane del tutto incompiuto, si riduce a vuota chiacchiera, ad uno sterile, addirittura masochistico, rimuginare fine a sé stesso.

© Giovanni Lamagna

E’ possibile il lavoro di elaborazione di un lutto?

Secondo Massimo Recalcati il lavoro di elaborazione di un lutto, al contrario di quello che pensa Freud, non si completerebbe mai definitivamente e del tutto.

Per Freud il compimento del “lavoro del lutto” porterebbe all’oblio (uno “strano oblio”) dell’oggetto perduto e al ristabilimento, ripristino, delle funzioni della libido.

Che, dopo un lutto, resta attaccata all’oggetto perduto e quindi bloccata, per un tempo fisiologico: e questo è del tutto normale.

Ma, una volta elaborato il lutto, riprenderebbe a fluire di nuovo e a poter essere investita su nuovi oggetti.

Secondo Recalcati, invece, questa visione di Freud è troppo idilliaca e sarebbe smentita dall’esperienza psicoanalitica.

Secondo Recalcati il lutto non può mai essere elaborato del tutto; una parte di libido resterebbe quindi attaccata per sempre all’oggetto perduto.

Cosa penso io di questa piccola diatriba virtuale tra Recalcati e Freud?

Penso che abbiano ragione entrambi.

Penso che abbia ragione Recalcati a sostenere che dopo ogni morte di una persona che ci era cara, una parte di noi muore con lei; e che da questo punto di vista, quindi, nessuna ferita causata da una perdita luttuosa sia mai del tutto rimarginabile.

Ogni perdita causata da una morte accresce in noi la consapevolezza di dover morire, del nostro “essere per la morte”; consapevolezza che non è ovviamente solo intellettuale, ma è soprattutto emozionale ed affettiva.

Quindi ogni lutto fa venire fuori, rende manifesta, in noi una quota di melanconia latente, che è parte fondante del nostro essere mortali.

Penso, però, che abbia anche ragione Freud; che sia possibile cioè o, almeno, che sia possibile per una persona con una psiche mediamente sana, riuscire a convivere, in uno stato relativamente sereno, con questo fondo di melanconia, che lievita ogni volta in noi quando siamo colpiti da un lutto, specie quando muore una persona che ci era molto vicina e cara.

Che sia possibile non dico dimenticare prima o poi la persona che è morta, ma convivere abbastanza serenamente con il pensiero/memoria della sua perdita, della sua assenza, oramai irrecuperabile, nella nostra vita.

E che, quindi, la nostra vita possa riprendere non dico come prima ma quantomeno con la stessa voglia di vivere, di godere dei piccoli o grandi piaceri, delle piccole o grandi gioie, che la vita può continuare, nonostante tutto, a donarci.

Penso, in estrema sintesi, che la nostra libido, dopo una fase di annebbiamento, di occultamento, di appassimento, possa riprendersi, rinascere, tornare a rivivere, a trovare altri oggetti su cui investire e provarne gratificazione.

Senza farsi paralizzare dai sensi di colpa (quasi che la morte della persona a noi cara fosse in qualche modo colpa nostra) o dalla devastante, perversa, appercezione/associazione che alla persona defunta si legasse il senso stesso della nostra esistenza, per cui, venuta meno lei, sarebbe venuto meno anche il senso stesso del nostro vivere.

© Giovanni Lamagna

Eziologia delle nevrosi: metapsicologica o biologica?

Nel suo libro “I freudiani eretici” (Ponte alle grazie; 2020), Michel Onfray così scrive a pag. 118:

“Reich non comprende come si possa ignorare questa duplice lezione (del neurologo francese Charcot e del medico viennese Chrobak): le nevrosi sono causate da una sessualità insoddisfacente o inesistente.

La loro eziologia non ha nulla a che vedere con la metapsicologia freudiana, in altre parole: con l’eredità primitiva trasmessa per filogenesi, il complesso di Edipo, e altri dogmi che tirano in ballo l’angoscia di castrazione, la scena primordiale infantile, o la teoria della seduzione.

La sessualità non è questione di psichismo, ma di biologia inscritta in un mondo reale, concreto, vero – e non nel cielo delle idee freudiane.

Reich rifiuta il lettino nello studio prospero (qui allude allo studio per alto borghesi di Freud al 19 della Berggasse di Vienna) e scende per strada: la questione sessuale implica una risposta politica.

Vorrei commentare questo passaggio del libro di Onfray ed esprimere alcuni miei distinguo rispetto alle tesi che vi sono espresse, distinguo che in alcuni casi sono veri e propri dissensi. Il libro è per altri versi molto interessante.

1.E un po’ banale e semplicistico affermare che “le nevrosi sono causate da una sessualità insoddisfacente o inesistente.”

Sia chiaro, credo anche io che le nevrosi, tutti i tipi di nevrosi (quale più, quale meno), abbiano a che fare con la sessualità.

Non credo, però, affatto che una psicoterapia possa curare e guarire le nevrosi spingendo semplicemente il paziente a vivere una vita sessuale soddisfacente.

Perché, se fosse questa la soluzione (semplice) di tutti i suoi problemi, sono sicuro che il paziente ne porrebbe subito, immediatamente un altro di problema: come faccio a vivermi la mia sessualità, se non ne sono capace, se mi sento bloccato sessualmente?

Si innescherebbe a questo punto e con tutta evidenza un circolo vizioso irresolubile.

2. La metapsicologia di Freud, su cui Onfray ironizza spessissimo, considerandola campata puramente in aria, a questo punto recupera pienamente la sua funzione.

Il recupero nella memoria dei traumi subiti nell’infanzia (che hanno provocato complessi, angosce, ingannevoli seduzioni… e bloccato, quindi, in maniera più o meno grave, la sfera e le funzioni sessuali) mira proprio a sbloccare tali funzioni e a rendere possibile e soddisfacente una vita sessuale prima insoddisfacente o addirittura del tutto inesistente.

Che non sarebbe possibile senza la emersione, il passaggio dall’inconscio al conscio, dei ricordi legati ai traumi vissuti nell’infanzia e la conseguente presa di consapevolezza dei blocchi psichici venutisi a creare e da sciogliere, eliminare con il lavoro dell’analisi.

3. Questa seconda riflessione è la premessa per sostenere che la sessualità umana, pur avendo una indubbia e ovvia radice biologica, non si riduce però alla pura e semplice biologia, ma ha a che fare anche (e non poco, anzi moltissimo) con lo psichismo; contrariamente a quanto invece sostiene Onfray.

4. D’altra parte, se non fosse così, se la sessualità umana avesse a che fare semplicemente con la biologia (col mondo concreto, come dice Onfray, quasi che il mondo psichico fosse per lui da collocare nel “cielo delle idee”), non avrebbe senso neanche il richiamo di Reich a dare alla “questione sessuale… una risposta politica”.

Se la sessualità umana si risolvesse (come quella animale) tutta nella biologia, essa non soffrirebbe mai di blocchi nevrotici.

E, quindi, non solo non avrebbe bisogno (almeno in certi casi) di psicoterapie, ma ancora meno avrebbe bisogno di “una risposta politica”.

A quanto mi consta, infatti, gli animali (che hanno una vita puramente biologica) non soffrono di nevrosi e non fanno ricorso alla politica.

© Giovanni Lamagna

Identità

Agnes Heller afferma: “Le identità esistono…, noi non siamo esseri astratti, siamo il nostro passato, la nostra memoria.”.

Sono pienamente d’accordo con lei: chi non ha identità semplicemente non è.

Ma l’identità per me non deve essere solo memoria, cioè sguardo rivolto al passato.

Deve essere anche disponibilità, apertura al cambiamento, sguardo rivolto al futuro.

Altrimenti è un’identità ingessata, praticamente morta.

O moribonda.

© Giovanni Lamagna

Rapporti ineludibili

Ci sono rapporti che definirei ineludibili.

Nel senso di rapporti che non si possono evadere o anche solo rimuovere dalla nostra memoria.

Perché essi rappresentano (o hanno rappresentato) tappe miliari della nostra vita, si sono venuti a costituire in snodi decisivi della nostra esistenza.

Sono rapporti che, una volta impiantati, non si possono facilmente estirpare o allontanare senza conseguenze.

Sono rapporti, dunque, particolari, nel senso di rapporti diversi, radicalmente diversi dagli altri, dai tanti (o pochi) altri rapporti che ci capita di instaurare nella vita.

Sono rapporti che accadono di rado nell’arco di un’esistenza.

Difficile quantificare, ma io direi non più di cinque volte, al massimo dieci: propendo più per il primo numero che per il secondo.

Sono rapporti che corrispondono al nostro daimon, al nostro beruf particolari.

Non nascono, quindi, a caso, ma ci capita di incontrarli a causa di un destino.

Possiamo anche romperli, per carità.

Rimuoverli dalla nostra vita e, persino, dalla nostra memoria conscia.

Non possiamo, però, allontanarli dalla nostra memoria e, quindi, dalla nostra vita inconscia.

Disattenderli ci mette, perciò, in contraddizione con il nostro Io profondo.

Apre, quindi, in noi una scissione che ci perseguiterà per tutto il tempo che ci resterà da vivere.

Come quando ci mettiamo contro il nostro destino, contro la nostra vocazione, contro il nostro daimon.

Possiamo farlo, è in nostro potere: su questo non ci sono dubbi.

Ma ne pagheremo le conseguenze.

A volte anche gravi.

In termini non soltanto di piacere superficiale ed effimero.

Che pure ha la sua importanza.

Ma, soprattutto. in termini di soddisfazione e di realizzazione profonde, intime, spirituali.

© Giovanni Lamagna