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Insoddisfazione sessuale maschile, mercato della prostituzione e diffusione della pornografia.

A me pare evidente che ci sia – ancora oggi, nonostante la “rivoluzione sessuale” del ‘68 – una notevole discrasia, tra la natura del desiderio sessuale maschile, ciò di cui esso si alimenta, e la capacità femminile (media) di condividerlo e soddisfarlo.

Qui, ovviamente, io parlo da maschio e non ho alcuna remora a farlo; perché il fatto che analoga discrasia ci sia, senza alcun dubbio, tra il desiderio sessuale femminile e la capacità maschile di soddisfarlo non elimina il problema, semmai lo raddoppia.

Tanto è vero che questa doppia discrasia sembra confermare ai miei occhi la nota teoria lacaniana, per molti incomprensibile, ma a questo punto – a me pare – non poi così difficile da intuire, de “l’inesistenza del rapporto sessuale”.

E, di conseguenza, spiegare anche altri due fenomeni; uno antico quanto l’uomo: il mercato della prostituzione; l’altro più recente, almeno quanto a diffusione: quello della pornografia.

L’oggettiva e diffusa insoddisfazione sessuale maschile nei confronti delle loro abituali compagne non giustifica – sia chiaro – né l’uno né l’altro fenomeno (entrambi sono risposte surrogatorie e degradanti al problema) ma in qualche modo li spiegano.

Ovviamente – ne sono pienamente consapevole – lo stesso problema di insoddisfazione potrebbe essere esaminato dal punto di vista femminile; ma questo discorso è forse meglio che lo affrontino le donne; senz’altro lo faranno meglio di me.

© Giovanni Lamagna

La seduzione finalizzata a sé stessa, come potere, e non all’amore, come cedimento e dono di sé all’altro.

Ci sono donne che amano sedurre gli uomini, ma che non vogliono costruire realmente un rapporto con loro.

Dopo averli sedotti, li mollano.

A loro interessa sperimentare solamente il potere che dà la seduzione.

Non sono interessate al potere dell’amore, che implica il loro lasciarsi andare, il mollare ogni potere, compreso quello della seduzione.

Mi scuseranno le donne, se ho parlato esclusivamente di loro, come se questo fosse un problema solo loro.

Sono sicuro che esistono anche molti uomini che vivono il rapporto con le donne in questo modo.

Ma io ho esperienza della seduzione da parte delle donne, non da parte degli uomini.

E quindi solo di questa posso, sono capace di parlare.

Ma riconosco, sono sicuro, che molte donne potrebbero raccontare la stessa cosa di molti uomini.

© Giovanni Lamagna

Sulla felicità.

La felicità è una porta normalmente chiusa, ma che si può aprire.

Il problema è che bisogna avere o procurarsi la chiave per aprirla.

E pochissimi la ricevono in dotazione alla nascita.

Pochi, solo pochi, sono capaci di procurarsela, quando diventano adulti.

© Giovanni Lamagna

Poliamore, responsabilità e contesto sociale.

Il problema principale che si pone nelle cosiddette “relazioni poliamorose” è quello della “mancanza di responsabilità”.

I poliamoristi vengono criticati severamente, da autorevoli psicologi e sociologi, oltre che dal senso comune, perché non si assumerebbero la responsabilità delle loro molteplici relazioni, che vivrebbero in modo assolutamente caotico, anarchico, quindi egocentrico e narcisistico.

La loro idea dell’amore sarebbe quella – a voler utilizzare un linguaggio lacaniano – di un “godimento senza limiti”, perciò, per sua natura, – direbbe Massimo Recalcati – “mortifero”.

Ora io dico: se una persona si comporta, invece, in maniera pienamente responsabile e trasparente verso tutte le persone con le quali entra in rapporti intimi plurimi, non vedo perché il “poliamore” dovrebbe costituire un problema per le relazioni umane.

Il problema diventa semmai quello di riconoscere, da parte della società, pari dignità sia alle relazioni mono-amorose-tradizionali sia a quelle poli-amorose alternative.

Costruendo poi un sistema istituzionale e organizzativo che non solo le riconosca sul piano formale e quindi anche giuridico, ma ne favorisca la gestione dal punto di vista dei singoli individui e da quello dei loro legami con l’intero corpo sociale.

Ciò che, tra l’altro, incentiverebbe l’assunzione delle proprie responsabilità da parte di coloro che propendono per questo tipo di relazioni, perché le farebbe emergere dalla irregolarità e, quindi, clandestinità, a cui esse il più delle volte sono costrette.

E, quindi, risolverebbe (o perlomeno, aiuterebbe a risolvere) la principale ragione delle critiche (non del tutto infondate) che di solito vengono mosse ai poli-amorosi.

© Giovanni Lamagna

Il problema riguarda SOLO gli uomini?

Nella rubrica che tiene quotidianamente sul “Corriere della Sera”, quella del 2 giugno 2023, Massimo Gramellini così scrive:

“La procuratrice della Repubblica Letizia Mannella esorta le donne a non recarsi all’ultimo appuntamento con il maschio violento. Saggia precauzione, ma più che sul comportamento delle vittime vorrei accendere l’attenzione su quello dei carnefici. Giulia Tramontano era perfettamente consapevole di quanto balordo fosse Alessandro Impagnatiello: ne aveva scoperto la doppia vita, al punto da accettare un incontro con l’altra ragazza a cui aveva ingarbugliato l’esistenza. Le due donne rimaste incinte dello stesso uomo si erano date appuntamento al bar dove Impagnatiello lavorava.

Il loro colloquio rappresenta una sorta di manifesto: mentre Giulia e l’altra ragazza parlavano, e parlando acquisivano ancora più coscienza della situazione, era colui che le aveva ingannate a rifiutare il confronto e a scappare dal locale per prepararsi a spezzare sul nascere quel patto di solidarietà femminile, assassinando una delle due «alleate» che ostacolavano il libero dipanarsi del suo egoismo. È verità mai abbastanza ribadita che la violenza sulle donne è un problema che riguarda anzitutto gli uomini. Quelli che crescono con una concezione distorta dell’amore, visto come possesso degli altri, anziché come cessione di sé. Se i genitori riuscissero a insegnare almeno questo ai figli maschi, darebbero un rinnovato senso al loro ruolo di educatori. Impresa molto difficile perché l’educazione sentimentale non si trasmette con i libri e tantomeno con le prediche. Funziona solo con l’esempio.”

Capisco quello che dice Gramellini e lo condivido in buona parte, ma non condivido del tutto il suo pensiero e l’analisi che vi sottende.

A mio sommesso avviso, (lo dico, con la voce flebile e con la coda in mezzo alle gambe, che dovremmo avere sempre noi maschi, quando parliamo di questi argomenti) il problema sicuramente “riguarda anzitutto gli uomini”, ma non riguarda SOLO gli uomini, riguarda ANCHE le donne.

Se, infatti, alcune donne, ancora oggi, si fanno abbindolare da uomini simili, vuol dire che hanno un problema pure loro: questo se vogliamo chiamare le cose col loro nome.

L’assassino di cui stiamo parlando (come tutti i maschi che compiono femminicidi) è indubbiamente un “mostro”, ma i mostri non sono del tutto altro da noi, come i pazzi non sono del tutto altro da noi; questo ci ha insegnato Basaglia.

I mostri stanno anche dentro ognuno di noi; quindi i mostri stanno anche dentro le povere donne che evidentemente se li vanno a cercare anche fuori di loro; non sembri oltraggioso tale giudizio, anche se mi rendo conto di primo acchito può sembrare tale.

Non si spiegano altrimenti l’infatuazione che le prende di fronte a certi uomini e l’accondiscendenza con cui soggiacciono alle loro angherie, a volte per moltissimo tempo, prima di finire come finiscono.

Ovviamente qui non intendo minimamente assolvere il maschio assassino e quasi rivoltare le responsabilità; anche se (come sempre) prima di emettere condanne sarebbe importante cercare di capire e analizzare.

Sto solo dicendo che (come da più di un secolo ha scoperto e dimostrato la psicoanalisi) c’è un filo di complicità che lega sempre vittima e carnefice.

Per cui bisogna curare (e in maniera possibilmente preventiva, anche se mi rendo conto la cosa non è semplice) sia la vittima che il carnefice.

Non ha senso, quindi, dire (come fa Gramellini in maniera così perentoria e, a mio avviso, un po’ semplicistica, così noi maschi ci facciamo belli con le donne) che il problema è SOLO degli uomini; ovviamente degli ALTRI uomini, perché noi (che scriviamo) siamo diversi, non abbiamo nulla a che fare con i mostri.

Il problema, invece, come sempre in questi casi, è un problema che riguarda le relazioni e le relazioni spesso sono malate, anche quelle che non finiscono in maniera così tragica; occorre prenderne atto.

E, quando sono malate, non lo sono mai solo per responsabilità di uno/a.

Quando le relazioni sono malate le responsabilità sono sempre (in qualche misura; non sto dicendo certo che lo sono – sempre – al 50% e al 50%) di entrambe le persone coinvolte nella relazione.

In questo discorso (il mio può sembrare freddo e, quindi, cinico) non ci devono fare velo la (persino) ovvia, naturale, giusta, sacrosanta pietà che proviamo (e dobbiamo provare) per la vittima; e lo sdegno, il senso di rivolta morale che di conseguenza proviamo verso l’assassino.

Altrimenti rischiamo di cadere nella retorica, che è dannosa non solo perché non ci fa vedere le cose per quelle che sono, ma tende a rimuovere i mostri che sono in ognuno di noi; anche se l’intenzione vorrebbe essere tutt’altra.

© Giovanni Lamagna

Oggi non basta dirsi a favore della pace.

Oggi non basta dirsi per la pace.

Anche perché tutti dicono di esserlo.

Anche quelli che poi inviano (o sono favorevoli a inviare) armi all’Ucraina, perché – dicono – è giusto, è necessario che l’Ucraina si difenda dall’invasore russo.

“Perché – dicono – anche noi vogliamo la pace, ma una pace giusta, non una pace che sia una resa al prepotente invasore.

Mentre voi pacifisti, che siete contrari all’invio delle armi affinché l’Ucraina possa difendersi, volete una pace ingiusta, che è in realtà una resa passiva e incondizionata all’invasore.”

Per questo oggi non basta dire: “vogliamo la pace!”.

Perché bisogna dare una risposta alle ovvie, scontate, direi addirittura naturali, obiezioni dei “pacifisti” che sono favorevoli all’invio delle armi affinché l’Ucraina possa difendersi dall’invasione russa.

Occorre allora dire che noi siamo non solo pacifisti, ma siamo soprattutto nonviolenti.

E’ questo che ci distingue e divide, in modo radicale, dai pacifisti armati.

Pensiamo, cioè, con molta fermezza e convinzione, che la difesa dal nemico aggressore non debba essere quella militare ed armata, ma una resistenza attiva e nonviolenta.

Fatta di scioperi, di boicottaggi, di manifestazioni pubbliche e private di dissenso e di ribellione; non certo – dunque – una resa passiva e rassegnata al nemico invasore.

Come i pacifisti armati ci accusano di volere ed auspicare.

Costoro potranno, allora, dirci (e contestarci) che questa forma di lotta è ingenua e senza nessuna efficacia; che equivale in realtà ad una resa.

E, certo, noi non potremmo convincerli del contrario, se in loro non è maturata o fino a quando non maturerà in loro un’intima convinzione (che è una specie di fede) del contrario.

Anche se nella storia, soprattutto in quella recente, non sono mancate importanti testimonianze (vedi Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela…) dell’efficacia di una tale forma di lotta, nonviolenta.

Potremmo solo obiettare loro che il ricorso alle armi e la conseguente, molto probabile, progressiva, escalation bellica, nell’attuale situazione storica, con il rischio incombente del ricorso alle armi nucleari, ci porterà quasi sicuramente dritti, dritti verso un’ecatombe mondiale e, dunque, la probabile estinzione della nostra specie.

Hanno presente i nostri pacifisti favorevoli all’uso delle armi (fossero anche solo di difesa) un tale rischio, che, a dire il vero, è molto più di un rischio, perché è invece una quasi assoluta certezza?

Chi è quindi più ingenuo e realista?

Chi, in nome del presunto realismo, si dice contrario all’utopia nonviolenta o chi azzarda questa utopia, come unica forma di realismo e non solo di idealismo, perché mai come oggi vede reale la possibilità che la specie umana si autodistrugga con le sue stesse mani?

C’è, in altre parole, oggi, nell’attuale situazione storica, una reale alternativa alla nonviolenza (attenzione: non il semplice e generico appello alla pace!), se si vuole salvaguardare il futuro dell’Umanità e non rimuovere il problema, come, invece, la maggior parte dei “pacifisti armati” fa?

© Giovanni Lamagna

L’importanza di avere un ideale dell’Io.

Sono fermamente convinto che, nella vita, sia molto importante avere un Ideale dell’Io.

Camminare avendo continuamente davanti agli occhi il nostro Ideale dell’Io, cioè quello che – tenuto conto delle nostre risorse (limitate e non infinite) e delle esperienze già fatte – vogliamo diventare, aspiriamo a diventare.

E’ molto importante, quindi, mettere a fuoco – appena la nostra crescita umana ce lo consente – il nostro Ideale dell’Io; per due ragioni principali.

La prima: perché nel momento in cui cominceremo a farlo non saremo più soli; avremo almeno in parte risolto quello che Erich Fromm (ed io sono pienamente d’accordo con lui) considera il problema fondamentale dell’uomo, quello della solitudine.

Perché saremo sempre in compagnia di una sorta di maestro che ci guida, quello che io sono solito chiamare “Maestro interiore”.

L’Ideale dell’Io sarà il nostro bastone, il nostro vincastro, la nostra bussola, l’ancora a cui tenere legata la nostra barca, specie quando il mare nel quale navighiamo viene agitato dalla tempesta.

La seconda ragione: perché, avendo davanti a noi questa sorta di guida, saremo stimolati a camminare, a non stare mai fermi per troppo tempo, se non il tempo necessario per riposare un po’.

E, quindi, saremo spinti ad evolvere, a realizzare così ciò che in noi è solo potenziale e non ancora in atto.

Cosa che non potrà fare, invece, chi rinuncia ad avere questa guida e ad affidarsi a lei; chi si accontenterà di una vita statica, routinaria, se non addirittura stagnante, incapace di proiettarsi verso il futuro, anzi spesso ripiegata nostalgicamente sul proprio passato.

Da queste poche riflessioni fin qui svolte, credo sia già sufficientemente chiaro che questa mia nozione di “Ideale dell’Io” sia da distinguere da (o da aggiungere a) quelle classiche freudiane di Es, Io e Super-io.

E, comunque, fosse anche solo per un eccesso di chiarezza, ne sottolineerò ancora meglio la distinzione.

L’Ideale dell’Io non è ovviamente l’Io (può essere persino pleonastico evidenziarlo) anche se non gli si contrappone e non è una sua antitesi.

L’Ideale dell’Io è il potenziale dell’Io, quello che l’Io è in potenza ma non è ancora in atto.

Potremmo anche dire, utilizzando una terminologia lacaniana, che è il desiderio dell’Io, la sua vocazione più profonda.

O, per usare un altro termine, più vicino alla psicologia junghiana, è il suo “daimon”.

L’Ideale dell’Io non è manco l’Es, ovviamente; anche se non gli si contrappone.

L’Ideale dell’Io è, infatti, un’istanza di cui siamo almeno in parte consapevoli, mentre, come tutti sappiamo, l’Es è l’altro nome dell’inconscio.

Allo stesso tempo, però, l’Ideale dell’Io non è del tutto altra cosa dall’Es, perché ci sono parti, componenti dell’Ideale dell’Io, che sono ancora inconsce.

Che, quindi, fanno parte dell’Es, e affiorano solo un poco alla volta alla coscienza, man mano che l’Io andrà ad occupare spazi sempre più consistenti dell’Es (secondo la famosa espressione freudiana che “laddove c’è l’Es ci sarà l’Io”).

Mentre invece, al contrario di quello che si potrebbe pensare, l’Ideale dell’Io è tutt’altra cosa dal Super-io.

Il Super-io, per come lo aveva immaginato Freud, è una istanza tutta sociale e ben poco personale, anche se viene pienamente introiettata dal soggetto, dalla persona, dall’individuo.

Il Super-io è dato dall’insieme di quelle norme che vengono imposte all’individuo, a ciascuno di noi, dal contesto familiare e sociale nel quale nasciamo, cresciamo e viviamo.

La maggioranza di noi tende ad assumere tali norme in maniera (quasi) del tutto acritica e passiva; e ciò spesso è causa di sofferenza, perché tali norme molte volte si pongono in conflitto stridente con le spinte che vengono dalle pulsioni.

L’Ideale dell’Io, invece, non nega per principio le pulsioni, non intende reprimerle e meno che mai rimuoverle; vuole anzi integrarle il più possibile nell’Io, compatibilmente coi limiti imposti dal principio di realtà.

Il Super-io per sua natura è repressivo, capriccioso e autoritario, l’Ideale dell’Io per sua natura è espressivo, razionale e liberatorio.

Il Super-io tende a deprimere le nostre potenzialità, in nome di una (presunta) morale superiore, quindi assoluta e vessatoria.

L’Ideale dell’Io, invece, tende ad esaltare e stimola a realizzare al massimo le nostre potenzialità.

La sua morale è frutto di scelte autonome, libere, razionali, spesso anticonvenzionali, anticonformiste, che tengono conto del principio di realtà, ma anche di quello primario del piacere.

Il Super-io, invece, è per sua natura e definizione, dipendente, suddito, conformista, routinario, convenzionale, succube del pensiero altrui, quasi sempre più realista del Re; e nemico del piacere.

© Giovanni Lamagna

La diversità dei caratteri rende impossibile il rapporto tra due persone?

Alla mia veneranda età sento di poter dire, con giustificata presunzione, che, quando il rapporto tra due persone non va bene o addirittura si rompe, ciò non è dovuto alla diversità dei loro caratteri.

La diversità dei caratteri non è mai il vero problema nei rapporti.

Anzi essa – in genere, quasi sempre – costituisce una fonte di ricchezza dei rapporti.

Nella diversità le persone si arricchiscono, completano: l’una dona all’altra quello che le manca e viceversa.

Il vero problema nei rapporti è dato piuttosto dalla differenza di interessi e, soprattutto, di valori, di stili di vita.

Tanto è vero che ci sono persone che hanno caratteri molto simili, ma che non vanno per niente d’accordo, perché troppo diversi sono i loro valori, i loro interessi e, per conseguenza, i loro stili di vita.

Mentre ci sono persone che hanno caratteri molto diversi (una più estroversa, l’altra più introversa, una più attiva e dinamica, l’altra più riflessiva e flemmatica, una più istintiva e impulsiva, l’altra più meditativa e contemplativa…), ma che vanno perfettamente d’accordo perché hanno un sistema di valori di riferimento che le fa tranquillamente camminare insieme, sulla stessa strada, sia pure con modalità e ritmi diversi.

© Giovanni Lamagna

Problema e mistero.

Per Gabriel Marcel – e Pierre Hadot lo chiarisce molto bene (“La filosofia come modo di vivere”; pag. 176) – una cosa è il “problema” altra cosa è il “mistero”.

Un problema è una questione, una domanda a cui è possibile, prima o poi, trovare una risposta.

Il mistero è una domanda a cui non potrà mai essere trovata una risposta, un problema la cui soluzione è al di là delle possibilità umane.

Il mistero è ciò che rimarrà per sempre avvolto nella nebbia della inconoscenza.

Potrà (forse, in certi momenti…) essere sfiorato, intuito, percepito emotivamente, emozionalmente, ma mai del tutto conosciuto dalla mente.

Il problema, invece, è qualcosa che, pure esso, all’inizio è avvolto nelle nebbie del non conosciuto, ma che poi ad un certo punto– in seguito ad una ricerca intellettuale – si illumina, diventa chiaro, noto, perfettamente risolto e conosciuto.

Anche dall’intelletto, dalla mente.

© Giovanni Lamagna

Problema.

Evitare, rimuovere il problema non ti fa certo risolvere il problema.

(c) Giovanni Lamagna