Archivi Blog

Freud, la psicoanalisi e il sentimento religioso.

Io condivido pienamente e sottoscrivo in buona sostanza “le tesi di Freud sulla religione e sull’antropologia dell’uomo religioso che appaiono prive di sfumature: la religione è una nevrosi dell’umanità, o, addirittura, un suo delirio

E’ un’illusione destinata fatalmente a dileguarsi con il progresso della scienza;l’uomo religioso è il prodotto di una regressione, il suo Dio non sarebbe altro se non il prolungamento dell’idealizzazione infantile del padre che non vuole estinguersi…

La credenza religiosa serve a sopportare questa vita e il suo dolore promettendone un’altra – una vita eterna – finalmente liberata dalla sofferenza e dalla mancanza che invece ci affliggono…

L’uomo religioso è dunque un uomo in fuga, incapace di assumere responsabilmente il carattere irrevocabilmente finito e precario della sua esistenza.”

Il virgolettato è una citazione di Massimo Recalcati tratta dal suo “La legge della parola”; Einaudi; 2022; pag. V dell’Introduzione.

Non condivido, invece, per niente il giudizio di Freud sull’inutilità totale del sentimento religioso e, quindi, sulla necessità che esso venga storicamente del tutto superato, se l’uomo vuole uscire dallo stato di “minorità” kantiana, di “nevrosi”, di “delirio”, di “illusione”, da cui pure il sentimento religioso indubbiamente, almeno in parte, nasce.

Credo, infatti, che questo sentimento, le ragioni da cui esso nasce ed è motivato, siano anche altre, oltre a quelle indicate così bene e così lucidamente dal padre della psicoanalisi.

C’è, infatti, nell’uomo – e ben radicata – una tensione a trascendersi, ad andare oltre sé stesso, che non possono ridursi soltanto alla paura della sofferenza (soprattutto alla suprema paura che è l’angoscia di morire) e al desiderio di sfuggire alla precarietà che affligge la sua vita.

C’è nell’uomo un desiderio di realizzare i doni (per usare un linguaggio evangelico, i “talenti”) che la vita gli ha messo a disposizione, una tensione a realizzare una comunione con il Tutto, in primo luogo con gli altri suoi simili, che non possono essere spiegati, a mio avviso, solo col sentimento della paura e della precarietà e, quindi, con la spinta a fuggire, a evadere, ad alienarsi in un altro “mondo dietro al mondo”, per usare un’espressione di Nietzsche, anche questa citata da Recalcati.

Tensione, desiderio, che certo non possono essere identificati sic et simpliciter col sentimento, spesso rozzo e primitivo, dal quale sono nate le religioni.

Rispetto al quale valgono, dunque, tutte le critiche e i giudizi drastici con i quali le bolla Freud.

Ma sicuramente hanno una qualche affinità, hanno (almeno in parte) una radice comune con i sentimenti e le aspirazioni da cui storicamente sono nate le religioni, non sono proprio del tutto un’altra cosa.

Per cui il mio giudizio sulla religione (o, meglio, su quello che io definisco come “sentimento religioso”) coincide solo in parte con quello di Freud.

Ne coglie e critica (come lui) la dimensione regressiva, che indubbiamente va superata, se l’uomo vuole andare avanti sul piano della evoluzione emotiva, psicologica, intellettuale, culturale in senso lato.

Ma allo stesso tempo ne recupera, invece, e sostiene come perennemente valida la dimensione progressiva, che consiste, a mio avviso, nella spinta continua alla ricerca, che spinge l’uomo a trascendere sé stesso.

E che, lungi dall’essere “destinata fatalmente a dileguarsi con il progresso della scienza”, è proprio ciò che, invece, sostiene e motiva il progresso delle scienze.

Ne recupera inoltre la spinta necessaria e fondamentale per la sublimazione delle pulsioni primarie, che da sempre caratterizza il sentimento religioso nelle sue varie forme ed espressioni, anche in quelle più primitive e per tanti altri aspetti deteriori.

In modo particolare ne recupera la spinta alla sublimazione della pulsione primaria più forte, che è quella aggressiva, spinta che, anche grazie alle religioni, è stata in passato in grado di unire (almeno in parte) gli uomini, di farli andare oltre le loro tendenze disgregative e quindi autodistruttive, di condurli insomma sulla via della civiltà.

Per cui io arrivo a sostenere che la costruzione della civiltà umana non possa proseguire ed ottenere ulteriori significativi risultati, se l’Uomo nella sua complessità di specie, non recupera e conserva il nucleo fondamentale e ancora vitale di “verità” da cui sono originate le religioni.

Se, in altre parole, non conserva in sé ciò che ancora oggi non esito a definire, perché non trovo un’espressione migliore, il “sentimento religioso”, da cui le religioni storiche, pur con tutte le loro infinite contraddizioni – giustamente denunciate da Freud e dalla psicoanalisi – trassero origine.

Quel sentimento che può portare (e, in certi casi, porta) gli uomini, pur tra mille altre spinte contraddittorie, a sentirsi figli di un’unica Madre (la Natura, la Terra che tutti ci accomuna), se non proprio di un unico padre (quel Dio, che nella Storia ha assunto molti nomi diversi, spesso in conflitto tra di loro).

E li fa (o può farli sentire) quindi (come conseguenza naturale dell’avere una Madre – se non un Padre – in comune) fratelli tra di loro.

Arrivo anzi a dire, con parole ancora più radicali, che o l’Umanità recupera il nocciolo duro del “sentimento religioso” così inteso (depurato cioè delle incrostazioni con cui lo hanno rivestito storicamente le religioni tradizionali) o sarà destinato fatalmente all’autodistruzione.

Come del resto le vicende di questi ultimi mesi (vedi la guerra in corso in Ucraina, cioè nel cuore stesso del continente europeo) sembrano prefigurare drammaticamente; anche se la gran parte dell’Umanità pare non rendersene adeguatamente conto.

© Giovanni Lamagna

Attorno al concetto di “scienza”

Ogni qualvolta una teoria ti sembra essere l’unica possibile, prendilo come un segno che non hai capito né la teoria né il problema che si intendeva risolvere” (Karl Popper, Conoscenza oggettiva: un punto di vista evoluzionistico).

Dobbiamo distinguere chiaramente tra verità e certezza. Aspiriamo alla verità, e spesso possiamo raggiungerla, anche se accade raramente, o mai, che possiamo essere del tutto certi di averla raggiunta. (…) La certezza non è un obiettivo degno di essere perseguito dalla scienza. La verità lo è.” (Karl R. Popper; Congetture e confutazioni; prefazione italiana, 1985).

Gli attacchi di Popper allo storicismo, all’olismo e alla scientificità della psicoanalisi e del marxismo hanno indotto i teorici della Scuola di Francoforte a considerare che le scienze sociali e umane, come la psicoanalisi, la sociologia e l’economia, su cui si fonda in parte il marxismo, hanno un loro rigore di metodo, per quanto caratterizzato da relativa incertezza rispetto alle scienze naturali. Anche in tali campi esistono criteri per stabilire cosa è frutto di una seria analisi scientifica e cosa è asserzione arbitraria. In quanto Karl Marx e Sigmund Freud utilizzarono metodi ritenuti rigorosi al loro tempo e cercarono di verificare empiricamente le loro teorie, in tanto i loro lavori possono essere considerati scientifici e suscettibili di errore e falsificazione.” (da Wikipedia)

Conosco la critica severa, anzi drastica, demolitoria, che Popper muove alla psicoanalisi Ma non la condivido.

Perché non sono d’accordo con la critica di Popper? Provo a rispondere a questa domanda.

Secondo Popper sono scienze solo quelle discipline le cui tesi sono falsificabili; e, siccome le tesi della psicoanalisi non sono falsificabili, la psicoanalisi non è dunque per lui una scienza.

In altre parole, secondo Popper, sono scienze solo le discipline sperimentali; tutte le altre (quindi anche la psicoanalisi) sono pseudo-scienze o, meglio, non-scienze.

Ora, se fosse vera una tale asserzione, tutte le cosiddette “scienze dello spirito” (che Wilhelm Dilthey opportunamente distingue dalle “scienze della natura”) – cioè la storia, la filosofia, la critica letteraria, la psicologia, la sociologia, l’antropologia… (per citarne solo alcune) – sarebbero non scienze.

In altre parole, almeno il 50/60% (a voler essere riduttivi) di quello che l’Umanità considera il suo patrimonio culturale avrebbe un ben scarso valore cognitivo e intellettuale.

Popper, a mio modesto avviso sbagliando, identifica le scienze tout court con le cosiddette “scienze esatte”.

Io, invece, ritengo (e per questo mi sento molto più vicino alle tesi della Scuola di Francoforte che a quelle di Popper) che ci siano anche scienze non esatte, che non vuol dire siano false, sono solo scienze che utilizzano un metodo diverso da quello che utilizzano quelle esatte: anziché procedere per sperimentazioni riproducibili e, quindi, falsificabili, procedono per osservazioni e, quindi, per approssimazioni alla “verità”.

D’altra parte, se per questo secondo tipo di scienze è impossibile ambire ad una verità assoluta e oggettiva, in parte questo vale anche per le scienze cosiddette esatte, come del resto riconosce lo stesso Popper (si rileggano le due citazioni da me riportate all’inizio).

Quante verità assodate da queste scienze in un dato periodo storico, sulla base di metodologie considerate ineccepibili dal punto di vista scientifico secondo il punto di vista di Popper, sono state poi smentite da successive sperimentazioni, da ulteriori ricerche scientifiche, avvenute in epoche successive!

Quindi manco esse possono essere considerate verità del tutto assolute ed oggettive.

© Giovanni Lamagna

Cosa caratterizza il femminile e cosa il maschile

Noi siamo come nani sulle spalle di giganti” (Bernardo di Chartres)

Francamente mi pare che Recalcati (pag. 182-185 del suo “Le nuove melanconie”) faccia una eccessiva (anche se a mio avviso solo apparente, come cercherò di argomentare tra poco) idealizzazione della “donna”, in contrapposizione all’ “uomo”.

Secondo Recalcati (e secondo Lacan, di cui Recalcati è allievo) la DONNA non esisterebbe; non esisterebbe insomma un universale della “donna”, ma solo la singola donna.

Mi chiedo: ma ciò che Lacan e Recalcati attribuiscono alla donna non vale anche per l’uomo? Esiste davvero un universale UOMO che non esisterebbe, invece, per la donna?

Oppure ogni uomo è l’incarnazione assolutamente singolare di una categoria generale ed astratta e perciò concretamente non esistente, allo stesso modo di come ogni donna è l’incarnazione del tutto singolare di una categoria generale ed astratta e, quindi, in realtà, concretamente non esistente?

Al contrario per Lacan (e per Recalcati) c’è un “significato universalmente valido” che definisce “l’essere uomo”; c’è un significante, il fallo, che gli dà un significato universale. Che, invece, mancherebbe nella donna.

In altre parole per Lacan e Recalcati (ma prima di loro, come tutti sappiamo, per il padre della psicoanalisi, Sigmund Freud) “l’essere uomo” si definisce in senso universale per il suo avere un determinato organo: il fallo.

“L’essere donna” si definirebbe, invece, stranamente e secondo una concezione alquanto singolare (e, per dirla tutta, decisamente maschilista), allo stesso modo, anche se opposto e speculare: il non avere il fallo.

Da questo punto di vista il destino della donna (non solo quello della donna isterica, come pure sembra dire Recalcati a pag. 183 del suo saggio) apparirebbe segnato: la donna deve tendere a identificarsi con il fallo dell’uomo, a desiderare di essere il suo fallo.

Che sarebbe poi il desiderio profondo dell’uomo, di ogni uomo: “l’uomo ricerca il fallo nella donna”.

Senonché Recalcati, con una torsione improvvisa, che non mi appare giustificata – almeno per quello che ne ho capito io – da quanto fino a poco prima sostenuto, a pagina 184 se ne esce con la seguente affermazione, che riprende sempre da Lacan: “…se la donna nel fantasma del desiderio maschile incarna il fallo, ella non vuole essere semplicemente un oggetto del desiderio dell’Altro, ma esige il suo amore, vuole essere insostituibile nel desiderio dell’Altro”.

In altre parole la donna vuole “essere una singolarità irriducibile all’oggetto feticizzato, un oggetto insostituibile appunto”.

Che vorrebbe confermare la tesi secondo la quale la donna non si iscrive in una categoria universale, ma deve “essere pensata… come un campo privo di identità solide, metamorfico, aperto”.

In altre parole la donna, ogni donna sarebbe la “realizzazione di una singolarità incomparabile, senza divisa, eccezione assoluta della serie.”.

E in quanto tale, quindi, vuole (vorrebbe), per sua conformazione genetica, essere considerata dal “suo” uomo come “insostituibile”.

Devo dire, in tutta franchezza, che queste tesi di Lacan, che sono riportate e sposate – a quanto mi appare – integralmente da Recalcati, non mi convincono.

Come, del resto, (e ancora di più) non mi ha mai convinto la tesi freudiana dell’ “invidia del pene”, cioè della concezione della donna come creatura deficitaria di qualcosa, definibile, quindi, solo in termini di “minorazione”.

Non mi convince, innanzitutto, la tesi secondo la quale il “femminile” non sarebbe una categoria universale come il “maschile”, in quanto la donna (ogni donna) si definirebbe per la sua assoluta singolarità.

Se non altro perché nel momento in cui si fa una simile affermazione di carattere generale si sta nei fatti definendo una categoria. Un po’ come quando si afferma “non esiste nessuna verità assoluta”: questa affermazione o è falsa (esiste, invece, una verità assoluta) o è vera, però smentisce ipso facto se stessa.

In secondo luogo a me pare che le tesi di Lacan solo apparentemente sono meno maschiliste di quelle di Freud; in realtà risentono anch’esse di un angolo di visuale tipicamente maschile.

Su che cosa si fonderebbe, infatti, il desiderio tipico della donna di essere considerata insostituibile nel desiderio del maschio, se non sulla volontà di possedere il maschio, di volerlo tutto per sé e di considerarlo, quindi, una sua proprietà?

E su cosa si fonderebbe questo desiderio proprietario di possesso se non sul sentimento di debolezza, di precarietà radicale, della donna, sulla sua “mancanza ad essere”; quindi, in ultima istanza, (anche a voler considerare quella di Freud una semplice metafora) sulla “invidia del pene”?

Inoltre, perché il desiderio di essere considerati insostituibili nel rapporto uomo/donna, sarebbe tipicamente femminile, esclusivo della donna?

Una tale affermazione è contraddetta dai fatti. Basti vedere le reazioni che hanno gli uomini, quando le loro donne li “tradiscono”: sono, in genere, di una violenza incredibile, possono arrivare fino all’omicidio. Cosa che, invece, si verifica molto meno spesso, anzi rarissimamente, nel caso delle donne “tradite”.

Sono portato allora a pensare che gli uomini (l’Uomo) e le donne (la Donna) sono molto più simili nella loro struttura psicologica di fondo di quanto non ce li abbiano voluti far vedere Freud e, in fondo, lo stesso Lacan.

Ammesso pure (e non concesso) con Freud che la donna desideri nell’uomo gli organi che a lei mancano, in primo luogo il pene, non potremmo dire allora la stessa cosa dell’uomo? Non ricerca egli nella donna gli organi che a lui mancano, ad esempio l’utero o il seno? Questo sul semplice piano fisico.

Ma tali desideri (ammesso che esistano) non hanno delle ricadute e dei risvolti che sono prettamente psicologici, di cui le rispettive mancanze di ordine fisico potrebbero essere solo delle metafore?

Non è più corrispondente al vero affermare che la donna ricerca nell’uomo le caratteristiche psichiche che nell’uomo sono più sviluppate e in lei più carenti? E che l’uomo fa la stessa cosa con la donna, ovviamente con caratteristiche opposte e speculari?

Infine il desiderio di essere ritenuti “insostituibili” nel rapporto non è, a mio avviso, un tratto genetico, costitutivo, di un sesso (quello femminile) e del tutto assente nell’altro (quello maschile).

Anzi, (a voler completare il mio ragionamento) esso non è manco un dato genetico; è piuttosto un dato storico, legato alla evoluzione dei costumi che sono stati prevalenti, egemoni, fino ad ora, ma che potrebbero essere prima o poi (ed io auspico che prima o poi lo siano) superati nel futuro storico (spero neanche poi tanto remoto).

Potrebbero venir meno nel momento in cui sia gli uomini che le donne smettessero di considerarsi reciprocamente come una proprietà privata.

Ma, forse, tali cambiamenti non riguardano solo il piano psicologico, individuale, dei rapporti privati; investono anche (e io direi soprattutto) un piano che è molto più strutturale ed ampio, ha a che fare con l’economia, l’organizzazione sociale e, quindi, la cultura, l’antropologia.

Solo in una società e in una cultura in cui la “proprietà privata” non sia più il dogma-feticcio e fondante delle relazioni economiche e sociali, i rapporti uomo/donna potranno assumere caratteristiche profondamente diverse da quelle attuali.

E, forse, arrivare perfino a contraddire, invalidare la famosa (anche se un po’ oscura, perfino astrusa, quasi oracolare) tesi lacaniana dell’ “inesistenza del rapporto sessuale”.

© Giovanni Lamagna

Rousseau e la filosofia

Con Rousseau la filosofia si fa soprattutto osservazione del comportamento umano.

Quindi essenzialmente psicologia, storia, sociologia, antropologia, politica.

E’ questo il tipo di filosofia che prediligo.

Non analisi astratta e cervellotica, in molti casi persino astrusa.

Ma studio concreto, chiaro, semplice (anche se niente affatto semplicistico) della natura umana.

Della sua essenza e di come questa si è trasformata, evoluta (o involuta) nel corso della storia.

© Giovanni Lamagna

La mia filosofia

La mia filosofia è essenzialmente sguardo sul mondo e sull’esistenza.

Non è pensiero astratto, ma piuttosto narrazione, racconto di quello che vedo: dentro di me e attorno a me.

E’ – presumo – sociologia (talvolta antropologia) e psicologia, più che filosofia teoretica, nel suo senso classico.

© Giovanni Lamagna

La mia filosofia

La mia filosofia è essenzialmente sguardo sul mondo e sua descrizione.

Non è pensiero astratto, ma piuttosto narrazione di quello che vedo: dentro di me e attorno a me.

E’ sociologia (talvolta antropologia) e psicologia.

Più che filosofia in senso classico e puro.

© Giovanni Lamagna

Gli uomini si dividono in due categorie: quelli ordinari e quelli straordinari.

Più o meno a metà del suo grande romanzo “Delitto e castigo”, Dostoevskij fa dire al protagonista del suo racconto, Raskol’nikov, le seguenti parole che riporto integralmente:

… gli uomini, per una legge della natura, si dividono sempre in due categorie: in quella inferiore (gli uomini ordinari), ovvero per così dire il materiale, che serve per riprodurre solo suoi simili, e gli uomini veri e propri, ovvero quelli che hanno il dono o il talento di dire al proprio mondo una parola nuova. E’ chiaro che vi possono essere infinite suddivisioni, ma ognuna di queste categorie ha dei tratti suoi piuttosto definiti: la prima categoria, ovvero per dirla in modo generico il materiale, è fatta di persone per loro natura conservatrici, rispettose, che vivono in obbedienza e amano essere obbedienti. E, secondo me, costoro hanno anche il dovere di essere obbedienti, perché questa è la loro funzione e in questo non vi è nulla di umiliante. Nella seconda categoria tutti violano la legge, sono dei distruttori, o comunque sono portati ad esserlo, a giudicare dalle loro capacità. I delitti di queste persone, naturalmente, sono relativi e svariati: la maggior parte richiede, con varie formulazioni, la distruzione del presente in nome di un futuro migliore. Ma se qualcuno di loro, per realizzare la sua idea, ha bisogno di passare sul corpo di qualcuno, di versare del sangue, be’, secondo me egli dentro di sé in coscienza ha diritto a decidere di versare quel sangue, ma questo, notate bene, a seconda anche dell’idea e della sua importanza. E solo in questo senso… io parlo del loro diritto al crimine… E comunque, non c’è da allarmarsi: la massa di gente non gli riconosce mai questo diritto, li giustizia e li impicca (più o meno) e lo fa con buone ragioni, compiendo in questo modo la propria funzione conservatrice, anche se poi nella generazione successiva questa stessa massa si inchinerà a coloro che erano stati giustiziati e innalza loro monumenti (più o meno). Alla prima categoria appartiene il signore del presente, alla seconda il signore del futuro. I primi conservano il mondo e lo accrescono numericamente, i secondi muovono il mondo e lo guidano alla meta. Sia gli uni che gli altri hanno lo stesso diritto a esistere. Insomma, hanno tutti pari diritto…

Di uomini con idee veramente nuove, o anche solo capaci di dire qualcosa di nuovo, ne nascono estremamente pochi, è persino strano quanto siano pochi. Ma è chiara una cosa, che l’ordine in cui nascono le persone di tutte queste categorie e sottocategorie deve dipendere in modo esatto e preciso da una legge di natura. Ovviamente questa legge ancora non la conosciamo, ma io credo davvero che esista e forse in futuro riusciremo a scoprirla. L’enorme massa degli uomini, il materiale, esiste solo per riuscire ad arrivare alla fine mediante un certo sforzo, mediante un processo che è tuttora misterioso, attraverso un incrocio di specie e di razze, a generare una persona, sia pure una su mille, dotata di un po’ di spirito d’indipendenza. E di persone con un grado ancora maggiore d’indipendenza, una su centomila. Ma di uomini geniali ne nascono solo uno su milioni, e di grandi geni, di figure che hanno portato a un perfezionamento dell’umanità, be’, ne potrà nascere uno solo dopo che siano passate sulla faccia della terra migliaia di milioni di persone. Insomma, ovviamente non ho guardato nell’ampolla da cui tutto ha origine, ma certamente alla base di tutto ciò c’è e ci deve essere senz’altro una legge della natura, non può essere frutto del caso.

Trovo questa pagina di Dostoevsky di una densità e profondità fenomenali. Potrà piacere o meno, qualcuno la potrà trovare addirittura ributtante, ma a mio avviso non si può negare che essa descriva la realtà del mondo così com’è e che in ogni caso riveli una straordinaria conoscenza dell’animo umano.

Ritrovo in essa tracce del pensiero di Schopenhauer e di Darwin, forse persino di Malthus; e anticipazioni di quello di Nietzsche.

Ora vorrei provare a darne una mia personale lettura.

Condivido in buona sostanza l’idea che gli uomini si dividano (almeno così si sono suddivisi nel corso della storia che abbiamo conosciuto finora) in due categorie: quelli “ordinari”, che hanno esclusivamente (o quasi: a voler essere un po’ meno radicali) il compito di assicurare la riproduzione e quindi la continuità della specie; e quelli “straordinari”, capaci di dire al “mondo una parola nuova”.

I primi sono sostanzialmente dei conservatori, dei conformisti: il loro compito primario, se non proprio esclusivo, è quello di garantire la stabilità sociale.

I secondi sono degli innovatori. A voler usare due termini della politica contemporanea potremmo dire che sono dei riformisti (nella loro versione più moderata) o dei rivoluzionari (nella loro versione più radicale). Ma in entrambi i casi sono degli uomini che non si accontentano del presente, bensì aspirano a “un futuro migliore”.

Ora questa distinzione potrà piacerci o meno: a me personalmente non piace; preferirei un mondo e un’umanità diversi. Ma è difficile contestare che essa corrisponda alla realtà. Io, perlomeno, non riesco a contestarlo.

Dostoevskij fa dire a Raskol’nikov che i secondi, gli innovatori, essendo degli uomini speciali, hanno diritto a compiere azioni criminose, a passare sul corpo degli altri e a versare il loro sangue, per affermare la loro idea di cambiamento.

E su questo, invece, non mi trovo d’accordo. Perché penso 1) che il cambiamento (anche quando è necessario, anche quando non è più rinviabile) debba avvenire auspicabilmente senza versamento di sangue e 2) che nessuno abbia diritto a spargere il sangue degli altri per affermare il cambiamento desiderato.

Inoltre ritengo 1) che gli uomini “straordinari” non debbano approfittare in nessun modo dei talenti, che ha loro fornito la natura, per sottoporre gli altri uomini e tenerli in uno stato di inferiorità, come se questa fosse una condizione immodificabile e 2) che sia compito imprescindibile degli uomini “straordinari” quello di elevare il più possibile gli uomini “ordinari” al loro stesso livello.

La mia è, insomma, una concezione evolutiva (fiduciosamente progressista) e non statica (per non dire del tutto reazionaria), come (forse) era quella di Dostoevski.

E, tuttavia, mi è impossibile non riconoscere e prendere atto che la Storia (almeno fino ad ora) ha funzionato come Dostoevski fa dire a Raskol’nikov.

Allo stesso modo mi è impossibile non riconoscere come vere le successive affermazioni di Raskol’nikov. Che cioè la maggior parte dei profeti del cambiamento (a prescindere da fatto che siano stati sanguinari o meno; molti profeti non lo sono stati; Gesù, ad esempio, non lo era) siano stati osteggiati, perseguitati e in molti casi giustiziati mentre erano in vita. Per poi essere (in parecchi casi) riabilitati solo dopo la loro morte.

E che, se il mondo si muove, se il mondo avanza e fa dei progressi, lo deve esclusivamente ai “signori del futuro” (il più delle volte osteggiati in vita e spesso condannati a morte), non certo ai “signori del presente” (che muoiono quasi tutti nel loro letto).

“Di uomini che nascono con idee veramente nuove… ne nascono estremamente pochi” – dice ancora Dostoevskij (attraverso Raskol’nikov) – è persino strano quanto siano pochi.”

Secondo il grande scrittore russo ciò deve dipendere addirittura “da una legge di natura.” “Ovviamente questa legge ancora non la conosciamo, ma – egli dice – io credo davvero che esista e forse in futuro riusciremo a scoprirla.”

E chi può eccepire una tale affermazione?

Impressionante, infine, la graduatoria che Dostoevskij fa della gamma degli uomini straordinari con le sue varie sfumature:

1) quelli che hanno “un po’ di spirito d’indipendenza”: ne nasce uno su mille;

2) quelli che hanno “un grado ancora maggiore d’indipendenza”: ne nasce uno su centomila;

3) gli uomini geniali: ne nasce solo uno su milioni;

4) i grandi geni, “figure che hanno portato a un perfezionamento dell’umanità”: ne potrà nascere uno solo tra migliaia di milioni di persone.

Ora potrete accusare Dostoevskij di darwinismo, perfino di malthusianesimo, di coltivare un pessimismo vagamente schopenhaueriano, di aver anticipato alcune idee nietzschiane sul Superuomo.

Ma non sarà facile smontare l’impianto fondamentale del suo ragionamento, che a me sembra del tutto condivisibile, perché pienamente corrispondente alla realtà, che ci piaccia o no, così come ci viene descritta dalla antropologia, dalla psicologia, dalla sociologia e dalla storia.

Giovanni Lamagna

Sul concetto di “natura umana”.

29 marzo 2016

Sul concetto di “natura umana”.

Comincio col pormi una domanda che mette alla radice in discussione la fondatezza stessa del concetto: “Esiste una “natura umana”?” Una domanda di quelle che hanno attraversato e segnato la storia del pensiero. A cui hanno tentato di dare una risposta innanzitutto la filosofia. Poi le varie scienze naturali e il diritto. Infine l’antropologia, come scienza moderna tra le più recenti.

Il diritto più antico ha dato ad essa una risposta decisamente positiva, tanto è vero che in questo campo per secoli ha avuto egemonia teorica il cosiddetto “giusnaturalismo”, ovverossia una concezione del diritto che aveva la pretesa di ricavare, dedurre le norme giuridiche da ciò che veniva considerato naturale o, quantomeno, conforme alla natura.

Il giusnaturalismo dava per scontato, quindi, che esistesse una realtà che si potesse definire “natura”, cioè un qualcosa di ipostatizzato, di sostanzialmente immutabile ed eterno, al quale si dovessero conformare in primo luogo l’etica (come norma interiore) e poi il diritto positivo (come norma esteriore, codificata nelle leggi di una determinata comunità o società).

Una posizione più o meno simile ha avuto e mantenuto per secoli il pensiero filosofico, di cui in fondo quello giuridico era una branca ed una emanazione.

Probabilmente questa concezione della natura si fondava e giustificava in un contesto culturale piuttosto ristretto, limitato geograficamente, e, tutto sommato, piuttosto omogeneo: quello greco/ebraico/romano/cristiano.

Essa è entrata in crisi nel momento in cui il mondo ha cominciato (e sempre più) a diventare multicentrico, quindi multiculturale.

E’ emerso, allora, con sempre maggiore evidenza che il concetto di “natura” era culturalmente, quindi antropologicamente condizionato. In differenti condizioni economiche, sociali, geografiche, storiche, quindi culturali, esso mutava. E spesso in maniera profonda, significativa, tanto da renderlo piuttosto evanescente e del tutto discutibile come dato universale, oltre che statico e immutabile.

La filosofia moderna, oltre che le scienze, in primis l’antropologia, hanno dovuto registrare questo dato, questa mutazione.

Tanto è vero che oggi è difficile trovare qualche pensatore, che continui a parlare (per restare nel solo campo del diritto) di giusnaturalismo.

Questo che cosa vuol dire? Che tutto – oggi – è da considerare relativo? Che è impossibile rintracciare degli “universalia” nella condizione umana, intesa come l’insieme delle caratteristiche fisiche, psichiche, sociali e culturali dell’uomo? Che quindi è inutile provarci? Che è meglio rinunciarci? Che è meglio accontentarsi di descrivere determinate condizioni di vita prevalenti in determinati contesti storici e geografici, senza nessuna pretesa di trovare in essi dei denominatori (anche minimi) comuni? Bisogna rinunciare quindi a definire l’umanità come specie, in quanto esisterebbero solo i singoli individui (o tutt’al più le singole società, come aggregati numericamente delimitati e circoscritti storicamente e geograficamente) ognuno con la sua individualità e la sua specificità, irriducibili a quelle di tutti gli altri?

Alcuni pensatori (pochi, a quanto ne so io) a queste domande rispondono affermativamente e in maniera drastica. Sono coloro che si fanno portatori di un relativismo estremo, assoluto.

Io non condivido questo pensiero. Penso che, nonostante tutte le differenze esistenti tra le varie culture (e, addirittura, tra i diversi individui) sia possibile rintracciare tra di esse delle costanti, delle affinità, che, seppure non riescono (forse) a fondare scientificamente (e manco filosoficamente) il concetto di “natura umana”, perlomeno vi alludono, come realtà flessibile, plastica quanto vogliamo, ma non del tutto insussistente o inesistente.

Se non ci fosse, infatti, un quid che accomuna le diverse culture e società (pur nella estrema varietà che le caratterizza nei diversi contesti storici e geografici) e, perfino, tra i singoli individui che formano le varie culture e società, se non ci fosse un “logos” in qualche modo affine, non sarebbe possibile alcun “dia-logos”, non sarebbe possibile, quindi, alcuna convivenza, alcuna convivialità, alcuna familiarità, alcuna “civile conversazione” (come avrebbe detto Bruno) tra gli uomini.

Questi sarebbero condannati a vivere come vasi non comunicanti tra loro, come monadi chiuse nel loro silenzio, incapaci di aprirsi e di entrare in contatto gli uni con gli altri. Realtà che la nostra esperienza sembra contraddire con tutta evidenza, anche quando il dialogo con gli altri si fa duro, difficile, anche quando (come a volte, anzi spesso, capita) il dialogo si trasforma in aperto conflitto.

Giovanni Lamagna

La prima risposta (o non risposta) alla domanda di senso.

29 giugno 2015

La prima risposta (o non risposta) alla domanda di senso.

In che modo si può rispondere alla domanda: che senso ha la vita, anzi che senso ha la mia vita?

Che per me è una delle due domande fondamentali (nel senso che sono a “fondamento” di tutte le altre) e che ho definito, in una precedente riflessione, la domanda “verticale”.

Per distinguerla da quella “orizzontale”, che più o meno si chiede: come posso rimediare alla sensazione di abbandono, di disunione, che vivo dal momento in cui, con la nascita, mi sono separato da mia madre?

Le soluzioni sono le più varie. Le ha indicate bene Fromm, in particolare nel suo libro “L’arte di amare” (1953; pg. 24 – 36), ed ha ragione a dire che esse fanno parte della storia delle religioni prima e delle filosofie dopo.

Provo a sintetizzarle e a darne una mia personale lettura. In questa riflessione mi soffermerò su quella che considero la prima risposta o (meglio) “non risposta”.

Infatti alla domanda “verticale”, da cui siamo partiti, si può anche non rispondere. Nel senso che la si può evadere, rimuovere, cancellare. E’ esattamente quello che fa la maggior parte degli esseri umani.

E campa lo stesso. Sopravvive. Almeno dal punto di vista organico, fisiologico.

D’altra parte manco gli altri animali, del cui genere noi facciamo parte (non lo dimentichiamo!), questa domanda se la pongono. E campano (bene) lo stesso. Con la differenza, però, che essi ne sono incapaci. Mentre gli uomini (almeno in potenza) ne sono capaci.

La domanda di cui stiamo parlando non fa parte della “storia” degli animali. Che, a dire il vero e a rigore di termini, non hanno nemmeno una “storia”, proprio perché sono incapaci di porsi questa domanda. La “storia” nasce, infatti, nel momento in cui l’uomo (e, per quanto ne sappiamo, solo l’uomo) comincia a porsi questa domanda.

La storia è, infatti, evoluzione, cambiamento, progresso. E non c’è progresso, cambiamento, evoluzione laddove non c’è coscienza, una domanda su di sé e sulla propria direzione di marcia.

Non c’è marcia, vera marcia, laddove si è incapaci di darsi una rotta, una direzione consapevoli.

Cosa succede dunque agli uomini i quali non si pongono mai questa domanda o se la pongono di rado e molto superficialmente e subito la rimuovono, l’accantonano, come se fosse una domanda inutile, senza senso, che li distrae dalle vere incombenze, quelle pratiche, quelle legate al vivere quotidiano?

Apparentemente non succede nulla. In realtà succede molto.

Succede che l’uomo si condanna in questo modo a vivere una vita superficiale (nel senso letterale – e non solo morale – del termine), una vita tutta legata alle questioni cosiddette pratiche, di pura sussistenza.

In questo modo l’uomo sopra-vive, piuttosto che vivere. E’ trascinato dalla corrente del vivere, piuttosto che decidere (lui e non il caso o gli avvenimenti) quale direzione dare alla propria vita.

All’uomo che ha scelto di vivere così succede poi di avvertire una costante (a volte sottile e leggera, a volte grave e pesante) inquietudine, di cui egli non sa darsi ragione (visto che manco si pone certe domande) e che non lo rende non diciamo felice ma neanche veramente sereno.

Anche quando le condizioni esterne non sembrano giustificare il suo malessere (più o meno latente, più o meno avvertito). Perché, magari, ha una posizione sociale importante, una situazione economica di tutta tranquillità, delle persone che gli vogliono bene, sta bene in salute… E però non è contento, non è soddisfatto lo stesso.

Talvolta questa insoddisfazione arriva a tradursi in sintomi fisici ed allora anche la cosiddetta “salute” va in crisi: in questo caso il corpo si conforma alla mente. I medici chiamati a guarire la malattia organica spesso non la sanno spiegare. Per guarire, il soggetto in esame dovrebbe affrontare altri livelli di patologia. Ma il più delle volte i medici guardano solo al corpo, non considerano “l’anima”. Mentre è proprio qui il problema. E allora il “malato”, non certo aiutato dalla “medicina” ufficiale, si avvita in un circolo vizioso.

L’uomo, che non dà una risposta alla domanda di senso che riguarda la sua vita, si condanna, infine, a una vita a bassa intensità emotiva, affettiva, intellettuale e, quindi, spirituale.

Egli vive magari una vita esteriore estremamente frenetica, ad alta intensità dal punto di vista del movimento fisico, dell’agire pratico, delle azioni (molteplici e veloci) che compie. Ma dentro è sostanzialmente fermo.

E’ freddo emotivamente, incapace di stabilire relazioni autentiche e profonde (che non siano di puro possesso, attaccamento e dipendenza), è intellettualmente inattivo, poco o per nulla interessato alla cultura , scarsamente creativo, se non dal punto di vista della produzione della ricchezza materiale (talvolta e manco sempre).

E più inquieto è (perché evade certe domande) più è portato ad evaderle (perché esse lo rendono inquieto). In questo modo si attorciglia in un circolo vizioso.

Allora ha bisogno di stordirsi, di distrarsi, per evadere le domande scomode che ogni tanto affiorano alla sua sia pur assopita coscienza.

Ecco spiegati allora i rumori assordanti e la velocità estrema che caratterizzano la nostra epoca, almeno di noi uomini occidentali.

Perché questa evasione è sempre stata un modo di rispondere alla domanda di senso, in tutte le epoche storiche e in tutte le latitudini geografiche. Ma lo è in modo particolare oggi o, meglio, da un paio di secoli a questa parte e in questa zona del mondo, che siamo soliti definire “Occidente”. Da quando in questi territori ha avuto inizio e sviluppo la cosiddetta “rivoluzione industriale”.

Con tutti i progressi (in termini soprattutto tecnologici, scientifici e, quindi, economici), ma anche con tutti gli esiti nefasti (soprattutto in termini di distruzione dell’ambiente naturale e, per conseguenza, anche antropologici e psicologici), che essa ha comportato.

Giovanni Lamagna