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La vita è un viaggio.

La vita – a mio avviso – è capire, ogni giorno che passa, qualcosa di nuovo di me, conoscere, “visitare” una nuova regione, una nuova città, un nuovo quartiere, una nuova zona ancora sconosciuti di me.

Non riesco francamente ad attribuirle altro significato.

Per questo per me la metafora migliore della vita, quella che ne rende meglio il senso, è il viaggio.

Che senso avrebbe, infatti, fare un viaggio e non girare poi per le strade, i quartieri, i territori della città o del luogo nel quale si è andati in viaggio?

Che senso avrebbe restarsene – per pigrizia o per paura –  tutto il giorno chiuso in un albergo e rinunciare alle nuove e diverse scoperte che il viaggio intrapreso ci “chiama” a fare?

Come ha già detto qualcuno, ciò che conta non è la meta, ma il viaggio.

E questo vale anche per la vita: non importa dove ci condurrà, l’importante è viverla, utilizzando al meglio possibile le occasioni che essa ci offre, senza sprecarne alcuna; persino quelle dolorose.

© Giovanni Lamagna

Ogni atto sessuale è una sorta di orgia.

Penso che un atto sessuale, qualsiasi atto sessuale, anche il più sbrigativo e veloce, anche il più semplice, intimo, privato ed affettuoso, sia sempre un atto che coinvolge più persone, anche se solo a un livello fantasmatico.

È quindi sempre – spero con questa affermazione di non offendere la sensibilità di alcuno – una sorta di orgia.

Perché nell’atto sessuale (come del resto in qualsiasi altro atto della nostra vita) non è coinvolta solo la persona con la quale lo stiamo realizzando, ma lo sono anche tutte le persone, reali o virtuali, che hanno avuto un significato nel corso della nostra vita.

A cominciare ovviamente dai nostri genitori, dai nostri fratelli e sorelle, dai nostri parenti più stretti, dai nostri amici, da tutti coloro sui quali abbiamo fatto (consciamente o inconsciamente) degli investimenti di natura erotico/sessuale.

© Giovanni Lamagna

C’è un rapporto tra la nevrosi e una visione troppo angusta della vita.

Nel suo libro “Sogni, ricordi e riflessioni” Carl Gustav Jung così scrive:

Ho spesso visto persone diventare nevrotiche per essersi appagate di risposte inadeguate o sbagliate ai problemi della vita.

Cercano la posizione, il matrimonio, la reputazione, il successo esteriore o il denaro, e rimangono infelici e nevrotiche anche quando hanno ottenuto ciò che cercavano.

Persone del genere di solito sono confinate in un orizzonte spirituale troppo angusto.

La loro vita non ha un contenuto sufficiente, non ha significato.

Se riescono ad acquistare una personalità più ampia, generalmente la loro nevrosi scompare.

Per questo motivo ho sempre attribuito la massima importanza all’idea di sviluppo.

La maggior parte dei miei pazienti non consisteva di credenti, ma di persone che avevano perduto la fede.

Venivano da me le “pecorelle smarrite”.

Persino al giorno d’oggi il credente ha la possibilità, nella sua chiesa, di vivere i simboli.

Si pensi all’esperienza della messa, del battesimo, all’imitatio Christi e a molti altri aspetti della religione.

Ma vivere e sperimentare dei simboli presuppone una partecipazione vitale da parte del credente, e molto spesso oggi questa manca.

Nei nevrotici è praticamente sempre assente.

Trovo molto vera e profonda questa riflessione di Jung; tra l’altro molto coerente col suo pensiero, di cui uno dei cardini fondamentali è quello relativo al concetto di daimon.

Per Jung uno dei compiti fondamentali dell’essere umano è quello di corrispondere al suo “daimon”, cioè alla sua vocazione profonda.

Lacan, al posto di “daimon” e “vocazione”, usava la parola “desiderio”; ma credo volesse esprimere lo stesso concetto.

Se non corrisponde al suo daimon, alla sua vocazione, al suo desiderio, l’uomo è destinato fatalmente all’infelicità; o, quantomeno, alla insoddisfazione; e, quindi, alla nevrosi.

Questa riflessione di Jung – sia detto per inciso – si rifà molto chiaramente al concetto degli antichi Greci di “eudaimonia” (dal gr. εὐδαιμονία, der. di εὐδαίμων «felice», comp. di εὖ «bene» e δαίμων «demone; sorte»).

Che può essere inteso in un duplice senso: il primo (un po’ fatalistico) è quello di aver ricevuto in sorte un buon destino; il secondo (che responsabilizza di più l’uomo) è quello di obbedire al demone buono, cioè alla buona coscienza.

Nel primo significato di “daimon” è felice l’uomo che ha ricevuto in sorte una buona fortuna; nel secondo significato felice è l’uomo che si adopera per realizzare la sua vocazione.

Era questo secondo il significato che gli attribuiva Aristotele, per il quale sostanzialmente felicità e virtù erano sinonimi, la felicità era ottenibile perseguendo la virtù.

Jung, con la riflessione che ho riportato all’inizio, amplia, a mio avviso, ulteriormente il concetto di felicità e di benessere, così come lo aveva definito Aristotele.

La felicità e il benessere per Jung vengono raggiunti nella misura in cui il singolo individuo riconosce e persegue la sua particolare vocazione personale.

E questa per alcuni può consistere nel trovarsi semplicemente un lavoro che assicuri loro un reddito, nel formarsi una famiglia con una moglie o un marito e dei figli, nel procurarsi una rete adeguata di relazioni amicali e nell’avere una quantità sufficiente di beni e di agi materiali di cui godere.

Ma per altri queste quattro cose non bastano, rappresentano un orizzonte di vita troppo limitato; costoro hanno bisogno di altro; costoro hanno una vocazione che trascende i bisogni elementari materiali e psicologici che soddisfano (forse) la maggior parte delle persone e le fanno stare sufficientemente bene, in certi momenti (forse) addirittura li rendono felici.

E perciò, fino a quando non si sintonizzano con la loro vocazione particolare, diciamo pure spirituale, una vocazione che va al di là della dimensione puramente materiale e di quella psicoaffettiva, sono inquieti, insoddisfatti, inappagati, interiormente scissi, sono appunto “nevrotici”.

Nel momento in cui, invece, il loro spirito si amplia, trova un senso e un significato alla vita, che vada oltre le ragioni convenzionali e un po’ stereotipate che soddisfano i più, ecco che, come dice Jung, “la loro nevrosi scompare”.

Trovano pace e serenità, pure in mezzo alle tempeste che la vita ogni tanto pure loro riserva, imparano a godere di piccole ma anche grandi gioie, in certe fasi più o meno prolungate arrivano addirittura a sentirsi felici.

© Giovanni Lamagna

L’importanza e la verità dei miti.

Un mito è il racconto di personaggi, storie, fatti, vicende, frutto di fantasia, immaginazione, che superano i confini della realtà, sono potremmo dire sur-reali.

Il che non vuol dire che siano del tutto ir-reali e, quindi, falsi, semplicemente non-veri e, quindi, del tutto in-significanti.

Se fosse così, se cioè il mito non corrispondesse a nulla di reale, se non avesse un nucleo, un nocciolo di verità (quantomeno psicologica) profondo, non si capirebbe perché gli uomini gli abbiano dato in epoche antiche così tanta importanza e, in alcuni casi, gliene diano ancora oggi, in piena età moderna e contemporanea.

Per l’uomo moderno, pertanto, come ci hanno insegnato pensatori del calibro di Jung e di Hillman (per citarne solo due), non si tratta di negare il valore e il significato dei miti, considerandoli banali fantasie, invenzioni puramente fantastiche, che ci allontanano dal vero e dalla realtà, facendoci prigionieri di un mondo di sogni.

Ma di decodificare i miti, estraendone il significato, il messaggio profondo che essi sono in grado ancora oggi di trasmetterci, traducendolo semmai – quando lo si ritiene utile e, in certi casi necessario – in un altro linguaggio, il linguaggio del realismo e della razionalità.

Che, senza pretendere di negare la lingua della fantasia, del sogno, delle emozioni e dei sentimenti, sia capace di farsene interprete e di parlare anche alla nostra parte più razionale e disincantata, che in epoca moderna è diventata (mi verrebbe di dire: purtroppo!) di gran lunga quella prevalente, anzi dominante.

© Giovanni Lamagna

Leggere un libro e spremere un limone.

Per me c’è un’analogia (ma anche, ovviamente, una differenza sostanziale) tra leggere un libro e (mi si perdoni l’accostamento un po’ irriverente) spremere un limone.

Il limone – come penso quasi tutti – io sono abituato a spremerlo fino in fondo prima di buttarlo via nella spazzatura.

Così da un libro (ovviamente da un libro che mi prende, che cattura il mio interesse e la mia attenzione) io devo (o, meglio, voglio) ricavare tutto quello che posso (o sono capace di) ricavarne, sia dal punto di vista emotivo che da quello intellettuale.

Però, dopo che l’ho spremuto ben bene come un limone (e sta qui la differenza sostanziale cui facevo cenno all’inizio), naturalmente non lo getto nella spazzatura, ma lo ripongo religiosamente nella mia libreria.

Sempre pronto a riprenderlo in mano quando mi verrà di nuovo la voglia e la curiosità di rileggerne e approfondirne parole, frasi, pagine o interi capitoli.

Sempre pronto (per restare nella metafora, mi rendo conto un po’ volgare, ma che – spero – renda bene l’idea) a spremerne qualche altra goccia di significato.

Ho – come si è potuto ben capire – un rapporto ossessivo, quasi maniacale, con i libri; ovviamente con i libri che mi piacciono, che mi hanno coinvolto emotivamente e intellettualmente, quelli che lasciano un segno nella mia vita.

© Giovanni Lamagna

La psicoterapia è solo un lavoro di ricostruzione storica?

Massimo Recalcati ci ricorda che “Lacan parla dell’analisi come di una ricostruzione storica” (da “La luce delle stelle morte; Feltrinelli 2022; pag. 115).

E, indubbiamente, certamente è così: l’analisi è uno sguardo a ritroso sul nostro passato, un ripercorrere la trama della nostra vita.

Non è però – come lo stesso Recalcati ci fa notare – un semplice “ricordare”, un mettere insieme, un ricomporre frammenti del passato.

Che avrebbe poco senso e soprattutto non avrebbe alcun effetto terapeutico.

Bensì è il tentativo di ritrovare in questo lavoro di memoria un filo rosso tra i fatti ricordati e quindi un senso, un significato, una direzione di marcia.

Per verificare dove si sono annidati gli intoppi, gli ostacoli che hanno intralciato e, in qualche caso, bloccato, ostruito del tutto, il fluire sereno, se non proprio felice, della nostra esistenza.

Per provare a sbloccare, a disostruire questi grumi di cupezza e infelicità e dare alla nostra vita una nuova direzione, un nuovo slancio.

Senza questo lavoro di “ricostruzione storica” non sarebbe possibile alcun rilancio, nessuna ripartenza.

Ma senza rilancio e senza ripartenza la ricostruzione storica resterebbe fine a sé stessa, non avrebbe alcuna utilità terapeutica per la nostra vita.

Qui mi sovviene la profonda saggezza di un motto che ha segnato la mia adolescenza, quando frequentavo la Parrocchia e l’Azione cattolica: “Vedere, giudicare e agire”.

E mi vien voglia di applicarlo a quello che considero il percorso tipo, ideale di una psicoterapia.

“Vedere” in psicoterapia significa fare memoria storica della propria vita; andare a recuperare anche i ricordi rimossi, laddove evidentemente si annidavano sofferenze che ancora oggi possono rappresentare ferite non rimarginate.

“Giudicare” equivale a capire, comprendere (io non userei più oggi il termine “giudicare”), le ragioni di quelle sofferenze, i fattori che le hanno determinate e che evidentemente ancora perdurano, se continuano a farci star male.

“Agire” equivale a prendere una decisione, fare una scelta tra due alternative.

Rimanere impantanati nelle sabbie mobili dei ricordi e della sofferenza vissuta un tempo.

Oppure prendere atto del passato, accettarlo con tutte le sue ombre; per poi uscirne prendendo una strada diversa, dando una direzione nuova alla propria vita.

Vedere e capire aiuta, ma da soli non bastano; occorre poi agire, decidere, convertirsi (per dirla in un linguaggio cristiano), riconvertirsi (per dirla con un linguaggio più laico).

Se non si ha la forza, se non si trovano le energie, per compiere questo terzo passo, il lavoro dell’analisi rimane del tutto incompiuto, si riduce a vuota chiacchiera, ad uno sterile, addirittura masochistico, rimuginare fine a sé stesso.

© Giovanni Lamagna

Perdere chi dava senso alla nostra vita significa perdersi?

Davvero “Perdere chi dava senso alla nostra vita significa perdersi”, come afferma Massimo Recalcati a pag. 27 del suo “La luce delle stelle morte” (2022 Feltrinelli)?

No, non lo penso.

Certo, non ci sono dubbi manco per me, che la perdita di un’amicizia e, ancora più, di un amore (di un genitore, di un amante, di un figlio…) comporti un dolore, più o meno grande, più o meno lacerante, a seconda del significato e del valore che il legame con loro aveva per noi.

E’ innegabile – non c’è dubbio manco per me – che la perdita di un legame significativo crei in noi un vuoto, una mancanza, uno smarrimento esistenziale, un appannamento, se non un vero e proprio obnubilamento, del senso del vivere.

Ma di qui a “perdersi”, come sostiene Recalcati, ce ne corre; o, perlomeno, ce ne dovrebbe correre.

Il “perdersi” (dopo la perdita di un legame importante) può essere anche molto grave, può durare anche un tempo molto lungo, ma non può essere (o, almeno, non dovrebbe essere) totale e, soprattutto, non può essere (o, almeno, non dovrebbe essere) definitivo.

Prima o poi, anche dopo la perdita più grave e significativa, la natura ha previsto (e per fortuna!) l’elaborazione e la fine del “lutto” legato alla perdita.

E questo per una ragione fondamentale, che si oppone allo stesso assunto iniziale di Recalcati; e cioè che nessuno, in fondo, costituisce (o, meglio, dovrebbe costituire) “il senso” della nostra vita; a nessuno dovremmo attribuire un tale valore e un tale significato, potremmo dire anche un tale potere.

Nel senso che (ed è questo l’assunto fondamentale dal quale io parto e che – almeno per me -sostituisce quello da cui è partito Recalcati) il significato profondo della nostra vita deve (o, meglio, dovrebbe) poggiare su altro: non le singole persone e, meno che mai, le singole cose; manco le persone alle quali siamo legati dagli affetti più grandi e profondi.

Dovrebbe, in altre parole, poggiare su un’accettazione della vita nel suo complesso, nella sua totalità, con le sue luci e con le sue ombre, e non su suoi singoli aspetti (situazioni, oggetti, persone… per quanto importanti, preziosi) isolati dal resto.

Singoli aspetti che sono tutti inevitabilmente soggetti a caducità e possono tutti, quindi, sfuggirci, venirci a mancare da un momento all’altro.

Mentre il resto della vita bene o male perdura, perdura oltre ogni morte, ha un che di immortale, di solido, di eterno.

E’ dunque l’amore della vita in sé – un sentimento che ha a che fare con le pascaliane ragioni del cuore più che con quelle della mente (quindi o c’è non c’è), un sentimento quasi religioso di fede o, meglio, fiducia di base – che (almeno a mio avviso) dà (o, meglio, può dare) un senso alla nostra vita e fonda poi tutti gli altri amori.

Compresi, quindi, quelli la cui perdita, quando ci colpisce, ci fa un male da morire.

Non viceversa.

Ecco perché, quando perdiamo un’amicizia o un amore, staremo male, per un tempo anche molto lungo; avremo persino la (momentanea) sensazione di morirne, di non poter sopravvivere alla perdita, perlomeno psicologicamente, se non fisicamente.

Ma, prima o poi, la persona sana, solida, strutturata psicologicamente, ne uscirà: questo ci insegna l’esperienza dei più; anche quella di coloro che nel momento in cui subiscono una perdita ci appaiono disperati, distrutti, devastati dal dolore.

Corre il rischio, invece, di perdersi definitivamente (o si perde effettivamente) la persona che aveva con la persona “amata” una relazione di attaccamento simbiotico, di dipendenza patologica, più che di vero amore.

Il vero amore, infatti, prevede e richiede indubbiamente intimità, interdipendenza, vicinanza, legame, perfino attaccamento, ma anche confini, autonomia, giusta distanza e libertà, finanche un certo distacco.

Non è (o, meglio, ripeto, non dovrebbe essere) la ragione stessa della nostra vita, quella senza la quale viene meno il senso stesso della nostra esistenza, che si ridurrebbe pertanto ad un mero e depresso sopravvivere.

© Giovanni Lamagna

Che differenza passa tra chi è in contatto con sé stesso e chi non lo è?

Chi non è in contatto con sé stesso della vita coglie solo la superficie.

Vive in una sorta di stordimento/dormiveglia.

Non fa quello che realmente vuole e desidera (come spesso, invece, si illude di fare), ma quello che è trascinato a fare da una sorta di corrente che lo trascina.

Va, insomma, alla deriva.

E molto spesso non ne ha manco coscienza; quindi non ne soffre neanche particolarmente; perché vive in una sorta di beata (o, meglio, beota) incoscienza, letargia, anestesia.

Questo discorso vale sicuramente per il singolo, per l’individuo, ma vale anche – pari, pari – per molte società di cui si compone l’Umanità.

Oggi – ho l’impressione – stiamo vivendo – come mondo nel suo complesso, specie qui da noi in Occidente – proprio una situazione di questo tipo: stiamo andando verso il disastro e non ce ne rendiamo – salvo rare eccezioni – manco conto.

Siamo come i passeggeri del Titanic, che – mentre il piroscafo navigava nella nebbia e stava per scontrarsi con l’iceberg che lo avrebbe nel giro di pochi attimi fatto inabissare causando la morte di più di 1500 persone – ballavano e si divertivano, completamente ignari (incoscienti, appunto!) della tragedia alla quale stavano andando incontro.

Chi non è in contatto con sé stesso vive il tempo esclusivamente come kρόνος, come uno scorrere anonimo di attimi indistinti, sostanzialmente tutti uguali a sé stessi, senza particolare significato e valore.

Alla rincorsa di beni e piaceri materiali, per lo più voluttuari, nella illusione (che è quasi un delirio) di poter trovare in essi, anzi nell’accumulo di essi, il benessere e persino la felicità desiderati.

Chi è in contatto con sé stesso vive, invece, il tempo come καιρός; tende cioè a dare ad ogni attimo un valore particolare, unico ed irripetibile.

Chi vive il tempo in questo secondo modo non dà particolare valore ai beni materiali, dà invece grande valore a quelli spirituali, fondati non tanto sul valore economico delle cose possedute, ma sul modo del tutto personale – direi creativo, generativo –  di viverle e di goderle.

Può capitare a chi vive il tempo come καιρός di essere, possedendo poco, molto più felice di chi vive il tempo come kρόνος, possedendo molto.

E’ questa la differenza fondamentale tra chi ha scelto di puntare prevalentemente sull’essere e chi, invece, ha puntato le sue carte esistenziali soprattutto sull’avere.

© Giovanni Lamagna

Consapevolezza della morte e voglia di vivere.

Mi sveglio nel cuore della notte e si riavvia e rinnova la consapevolezza che, prima o poi, dovrò morire.

Questo pensiero, però, non mi deprime.

Anzi mi stimola a vivere al meglio la vita che mi resta da vivere, a non perdere tempo, ad utilizzare al massimo le occasioni di piacere e di godimento che essa vorrà offrirmi.

Attimo per attimo.

Dando a ciascun attimo un valore ed un significato, che, se non fosse per il rischio sempre incombente della retorica, non esiterei a definire sacri.

© Giovanni Lamagna

L’esistenza che si apre all’Essere: la via estetica, la via filosofica e la via mistica.

La via estetica.

Se l’esistenza umana è pura contingenza e precarietà senza senso, perché senza alcun fondamento che la trascenda, in altre parole senza alcun fondamento metafisico, non per questo l’esistenza umana è condannata irrimediabilmente e fatalmente a restare prigioniera di questa pura contingenza e, quindi, dell’assenza di ogni senso.

L’essere umano ha, infatti, la capacità/possibilità di trovare “dei varchi, degli spiragli” nella “fatticità irrimediabile dell’esistenza”. Ciò accade per Sartre – secondo la lettura che ne dà Recalcati, nel suo “Ritorno a Jean-Paul Sartre”; 2021; pag. 24-26 – principalmente attraverso l’esperienza estetica.

Attraverso l’immaginazione, l’uomo ha la possibilità di trascendere la pura e opprimente fatticità dell’esistenza, di darle respiro, di aprirla all’Essere, come “ciò che può sottrarre l’esistenza dal peso dell’esistenza”. Un Essere che “non ha però nulla di metafisico, non è al di là del mondo poiché non appare se non nel mezzo del mondo.”

Nel suo studio sull’immaginario (“L’immaginario. Psicologia fenomenologica dell’immaginazione”)Sartre riconosce all’immaginazione il potere di annullare, come scrive Recalcati, “l’orrore del reale catapultandoci in un altro mondo”: il mondo della bellezza, della pura “Forma dell’Essere”.

“Il reale – infatti, come scrive Sartre – non è mai bello. La bellezza è un valore che possiamo riferire solo all’immaginario e che implica l’annullamento (néantisation) del mondo nella sua struttura essenziale”. La Forma estetica ci libera (almeno per un momento: quello del godimento dell’opera d’arte) dal peso assurdo dell’esistenza.

Non ho obiezioni da muovere a Recalcati e Sartre: la Forma estetica, attraverso l’opera d’arte (sia nella dimensione della fruizione, sia soprattutto nella dimensione della produzione), è senz’altro una via privilegiata per sfuggire alla trappola oppressiva dell’esistenza, per – in qualche modo – trascenderla e per cogliere l’Essere, sia pure l’Essere come viene inteso da Sartre e da Recalcati.

Penso, però, che la “via estetica” non sia l’unica via, l’unico varco, l’unico spiraglio che l’uomo possa aprirsi nella “massa informe dell’esistenza” per accedere alla Forma dell’Essere. Credo che ce ne siano almeno altre due: proverò a indicarle.

La via filosofica.

La prima di queste altre due vie è, a mio avviso, quella filosofica.

La filosofia nasce, infatti, dalla stessa condizione esistenziale da cui nasce l’opera d’arte: dall’ “incontro traumatico del soggetto con un pieno (quello dell’esistenza) che non necessita di altro se non di sé stesso, di un assoluto privo di significato” (Recalcati; ibidem; pag. 19).

La filosofia nasce “dall’urto sconcertante con la pura contingenza dell’esistenza” (ibidem; pag.19), dalla constatazione che “l’esistenza non ha senso, non porta con sé alcun significato a priori, nessuna essenza…”; che l’esistenza “è, in sé, assurda” (ibidem; pag. 23).

Ma (aggiungo io) la filosofia nasce anche dall’esigenza, che è quasi un bisogno impellente, di trascendere questa contingenza e di trovarle un qualche senso.

Un senso che (come la Forma dell’Essere a cui aspira l’opera d’arte) “non ha però nulla di metafisico, non è al di là del mondo poiché non appare se non nel mezzo del mondo” (ibidem; pag.25).

Un senso che “ci libera dall’eccesso assurdo dell’esistenza”, ma allo stesso tempo “… non è rivolto a una trascendenza metafisica” (ibidem; pag.26).

E’ quel quid che può aiutarci a vivere, a sopra-vivere, a restare in vita, anche dopo che abbiamo preso coscienza che il vivere è orientato alla morte e che non ha nessun fondamento; così come il galleggiare sull’acqua “facendo il morto” ci consente di non sprofondare pur senza avere uno scoglio, una boa, una zattera, su cui trovare appiglio.

In altre parole con la via filosofica – come già con la via estetica, tracciata da Sartre ne “La nausea” – “non si tratta di ricostruire alcun senso metafisico del mondo di cui la Nausea ha svelato impietosamente e irreversibilmente l’assenza, ma di dare all’esistenza, che resta ontologicamente priva di senso, la possibilità di avere un senso singolare sullo sfondo di questo non senso.” (ibidem; pag. 31).

La via mistica.

Una terza via, oltre a quella estetica e a quella filosofica, per non sprofondare nel vuoto, anzi negli abissi senza fondo del non senso, è, a mio avviso, quella mistica.

Non certo la mistica come viene comunemente intesa, la mistica delle religioni tradizionali, ovverossia l’affidarsi cieco, infantile e perciò nevrotico all’Altro, capace di dare “un fondamento ontologico” alla nostra esistenza.

Sia chiaro – anche per me come per Recalcati – la vita umana non ha nessun fondamento, è “priva di ogni possibile giustificazione, di ogni possibile garanzia” (ibidem; pag. 11).

La ricerca, anzi la “passione umana per la propria giustificazione” è per Lacan “il perno del fantasma del desiderio nevrotico… E’ il tratto infantile che contrassegna il nevrotico soprattutto nel suo rapporto con l’Altro materno.” (ibidem; pag. 11).

In cosa consiste allora la via mistica come fuoriuscita dalla gabbia del puro esistere e apertura (mi verrebbe di dire “trascendimento”) verso la forma dell’Essere?

Non certo nella regressione verso l’ “illusione nevrotica dell’Altro come luogo della giustificazione della propria esistenza” (ibidem; pag. 12).

Non certo nell’esperienza religiosa che sta alla base “della passione umana per “essere”, per farsi essere”, che “rivela il fantasma fondamentale del … desiderio” degli uomini: vivere rassicurati all’ombra dell’esistenza del grande Altro” (ibidem; pg. 12) cioè di un Dio trascendente.

Non certo nella credenza “che l’esistenza possa avere un suo senso a priori, che il suo essere trovi fondamento nel grande Altro della garanzia”, che l’esistenza sia un “dono di Dio, giustificata alla sua origine” (ibidem, pg 13).

Non certo nella vocazione ad una vita ordinata, stabile e pianificata.

Non certo nella “idealizzazione retorica” di un “uomo che ha un Mandato, un Compito, che ha, appunto, Diritto ad esistere…” e si sente inoltre il “centro del mondo”. (ibidem; pg.13).

Ma al contrario nella presa d’atto radicale (non solo intellettuale, ma soprattutto emotivo-affettiva) della propria mancanza d’essere, nello scontro scabroso e scandaloso del non senso dell’esistenza e allo stesso tempo nella possibilità di non rimanere impantanati in questo non senso, ma di generare dalla ferita dell’esistenza una chance altra.

Come?

Attraverso l’esperienza da parte dell’uomo della condivisione intima, profonda, della stessa ferita esistenziale con gli altri suoi simili, addirittura con tutti gli altri viventi, perfino con l’Universo mondo, attraversato spesso da disastri e cataclismi che alludono alla stessa sofferenza radicale, ontologica, dell’essere umano.

In altre parole attraverso l’esperienza della com-passione, di quello che il letterato francese Romain Rolland, amico di Sigmund Freud, definì il “sentimento oceanico”.

Anche questa esperienza, come quella che facciamo quando godiamo di un’opera d’arte o quando la nostra mente si illumina per un’intuizione filosofica, ha nell’uomo l’effetto di “attenuare analgesicamente il dolore della ferita che lo attraversa” (ibidem; pag. 33), di trasmettere “un po’ di calore per attenuare il gelo del nostro comune viaggio nella neve” (ibidem; pag. 31).

© Giovanni Lamagna