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Alcune tesi fondamentali per me in materia di psicoterapia.

Nel capitolo intitolato “Sul fenomeno del suicidio” del libro “In dialogo con Carl Gustav Jung”, curato da Anna Jaffé (Bollati Boringhieri 2023; p. 151-155), il grande psicoanalista svizzero affronta in modo specifico – come dice il titolo – il tema della cura della tendenza al suicidio in alcuni pazienti.

Ma alcune sue affermazioni qui riportate, a mio avviso, si possono estendere alla psicoterapia in generale, alla cura anche di altri tipi di pazienti; e credo, suppongo, che Jung non avrebbe avuto obiezioni a questa mia lettura delle sue parole.

Cosa dice, dunque, Jung?

Enucleo qui di seguito quelle che mi sono sembrate le sue tre tesi principali in proposito (alcune prese alla lettera dal testo citato) e ne do una mia interpretazione, senza – presumo – fare alcuna forzatura indebita.

1.Ci sono persone che entrano in terapia, ma non recepiscono nulla di quello che il terapeuta dice loro; in questo caso, prima o poi, “il paziente abbandonerà la terapia o l’analisi.” (p. 152).

Qui do per scontato che il terapeuta, di cui sta parlando Jung, sia esperto e dotato della necessaria e adeguata empatia, che non faccia errori grossolani nell’approccio con la persona che è venuta a cercare il suo aiuto; e che, quindi, l’abbandono della terapia non dipenda dalla professionalità dello psicoterapeuta (come, invece, in altri casi, può accadere e si può ritenere).

Ci sono pazienti coi quali si ha l’impressione di parlare ad un muro; qui Jung, a proposito di una sua paziente, afferma testualmente: “Avrei potuto parlare altrettanto bene – o forse anche meglio – con una pietra.”; di fronte a pazienti di questo tipo il terapeuta non può fare molto; non può aiutare il paziente “se l’interessato stesso non lo vuole; verrebbe curato contro la sua volontà, e questo non si può fare.” (p. 152)

Dal che io deduco – e questa mi sembra una prima tesi fondamentale implicita nel pensiero di Jung – che una psicoterapia può avere un esito positivo, ovverossia sbloccare un paziente che soffre di conflitti nevrotici, solo se nel paziente la volontà inconscia di guarire è almeno un poco superiore alla sua volontà inconscia di restare nella sua nevrosi; dalla quale evidentemente – come tutti i nevrotici – ricava il famoso “vantaggio secondario”, di cui parlava Freud (lezione n. 23 di “Introduzione alla psicoanalisi”).

2. Di fronte a questo tipo di paziente e dopo aver fatto vari tentativi di sblocco della sua nevrosi, il terapeuta dovrebbe prendere onestamente atto della sua impotenza nella relazione di aiuto e comunicargli quello che Jung – molto candidamente e fermamente – ebbe il coraggio (quasi cinico) di comunicare ad una sua paziente, che era decisa a suicidarsi (e lui ne era pienamente consapevole): “Io non posso più esserle di aiuto. Io non posso più darle alcun consiglio.” (p. 153)

Ci sono pazienti che affrontano la terapia con un atteggiamento così sciatto e superficiale, che l’analista farebbe bene ad affrontarli di petto con un atteggiamento forte e deciso, senza alcuna forma di complice (e, potremmo dire, persino banale) tolleranza; Jung in questo testo confessa di essersi adirato una volta con una sua paziente di questo tipo e di averla addirittura “mandata via” in malo modo; eppure si trattava di una paziente a rischio suicidio.

Ci sono nevrotici, nei quali la “volontà di morte” è (più o meno vistosamente) superiore alla “volontà di vivere”; il che non significa che essi arriveranno necessariamente al suicidio (come accade, purtroppo, in alcuni casi estremi).

Spesso questa “volontà di morte” si presenta in individui che conducono (almeno apparentemente) una vita del tutto normale; che si aggrappano disperatamente a vari “oggetti” esterni a sé (un matrimonio, un figlio, un nipote, gli amici, il lavoro, la fama, la ricchezza, il potere…), che diano un senso alla loro vita, ma sono incapaci di trovare questo senso dentro di sé.

Naturalmente questi soggetti è come se vivessero – dice Jung – “con un solo piede o… con una sola mano”; e non è certo questa una “condizione ideale”. (p. 155)

“È qualcosa a cui ci si rassegna”. Ma “… non è la soluzione ideale”. Anche se in “certe circostanze non si può fare altrimenti. Allora è giusto rassegnarsi… Se un paziente… arriva… a quarant’anni a rassegnarsi, nessuno può impedirglielo. Ma che sia felice così, oppure che sia normale, che trovi tutto questo come ricco di senso è un altro paio di maniche.” (p. 155)

Questa mi sembra, allora, la seconda tesi fondamentale in materia di conduzione di una psicoterapia contenuta in questo capitolo: quando uno psicoterapeuta si rende conto che la psicoterapia non approderà a nulla di buono, è bene che congedi il suo paziente, senza tanti salamelecchi e senza troppa diplomazia, ma persino con una certa durezza; ci sono pazienti che sono (si dimostrano) incurabili, che sono destinati a vivere una vita apparentemente normale ma in realtà infelice, a campare metaforicamente con una sola mano o un solo piede.

3. Afferma Jung: “Che lo si voglia o meno: quando uno viene analizzato abbastanza a lungo, arriva da solo alle domande fondamentali. Non è proprio possibile altrimenti.” (p. 155)

Ed è proprio qui – a mio avviso – che un’analisi si può bloccare ed avere come suo esito (triste) l’abbandono: quando il paziente non vuole (o non ce la fa: ma questo cambia poco in termini di ricadute terapeutiche) affrontare queste “domande fondamentali”; quando ne è terrorizzato o quando non vuole affrontare (per pigrizia o per paura) i cambiamenti che le risposte a queste domande comporterebbero di conseguenza.

È questa, mi pare, la terza tesi fondamentale che si può ricavare dal pensiero di Jung in materia di psicoterapia: l’esito di questa non è mai scontato; può essere positivo, ma può anche essere negativo; una psicoterapia può sbloccare un paziente e aprirgli nuovi orizzonti mentali e, quindi, esistenziali; ma può anche arenarsi.

La psicoterapia si arena quando, di fronte alle “domande fondamentali” a cui, prima o poi, il percorso psicoterapeutico conduce, il paziente si rifiuta o è incapace di darsi delle risposte congrue, adeguate, soddisfacenti e di fare scelte conseguenti.

È da sottolineare, a mio avviso, in modo particolare questo secondo aspetto: quello delle scelte conseguenti.

Perché, per avere un buon esito psicoterapeutico, non basta capire sé stessi, come siamo fatti e come funzioniamo; bisogna anche avere o trovare da qualche parte la forza, il coraggio e l’energia necessari per mettere poi concretamente in atto le cose che si sono capite.

Che, nella maggior parte dei casi, significa realizzare dei cambiamenti radicali: nei comportamenti, nelle scelte, nelle situazioni, che hanno resa fino a quel momento infelice la nostra vita.

Se non si trovano la forza e il coraggio di realizzare questi cambiamenti, la psicoterapia sarà servita a ben poco, si sarà risolta in un sostanziale fallimento.

© Giovanni Lamagna

Freud: la varietà del mondo umano e della vita della psiche.

Freud introduce “Il disagio della civiltà” (1929) con queste parole: “Non ci si può sottrarre all’impressione che gli uomini di solito misurino con falsi metri, che aspirino al potere, al successo, alla ricchezza e ammirino queste cose negli altri, ma sottovalutino i veri valori della vita.

Pure, nel formulare un qualsiasi giudizio di questo tipo, si corre il rischio di dimenticare la varietà del mondo umano e della vita della psiche.

Vi sono taluni uomini a cui i contemporanei non negano l’ammirazione benché la loro grandezza poggi su doti e realizzazioni che sono completamente estranei agli scopi e agli ideali della massa.

Potremmo facilmente essere indotti a credere che solo una minoranza, alla fin fine, apprezza questi grandi uomini, mentre la gran maggioranza non se ne cura affatto.

Ma la cosa potrebbe non risultare così semplice, grazie alle discrepanze tra i pensieri e le azioni degli uomini e alla diversità dei desideri che li muovono.” (1)

In questo passo Freud fa delle affermazioni che potrebbero apparire scontate, ma che fatte da lui, senza alcun dubbio “uomo del disincanto”, tendente decisamente al pessimismo, se non proprio al relativismo etico, acquistano un peso particolare.

E per questo vorrei provare a metterle in evidenza, punto per punto, con parole mie.

Gli uomini tendono a dare valore a cose che non lo meritano (potere, successo, ricchezza…) ed a sottovalutare i veri valori della vita.

Se ne deve dedurre che anche per Freud non solo esistono valori veri e valori falsi, ma che i veri valori della vita per lui non sono certo il potere, il successo o la ricchezza.

Affermazione questa che, fatta da un campione del disincanto e del principio di realtà qual era indubitabilmente Freud, è per me di straordinaria (e addirittura sorprendente) importanza.

Di conseguenza, in base alla prima affermazione, gli uomini (o, meglio, la gran parte di essi) per Freud tendono a invidiare e ad emulare coloro che nella vita hanno ottenuto potere, successo, ricchezza, fama…

E, però, – Freud si premura di aggiungere – non tutti gli uomini hanno lo stesso sistema di valori e lo stesso metro di giudizio; il mondo umano è articolato, non può essere ridotto ad un ammasso informe, perché diverse e molto varie sono le storie psichiche dei diversi individui.

Succede allora che vi sono uomini i quali vengono ammirati e perfino esaltati, pur avendo e perseguendo valori che sono molto difformi da quelli della massa, cioè della gran parte degli uomini.

Qui il pensiero va spontaneamente a personaggi della storia quali Francesco d’Assisi, Gandhi, madre Teresa di Calcutta, per fare solo tre esempi; e non si può non dare ragione a Freud.

Si potrebbe, a questo punto, supporre che solo una minoranza apprezzi questo tipo di uomini, che sfuggono al modo di pensare e di vivere della maggioranza: la minoranza che si riconosce in un sistema di valori difforme da quello della maggioranza, della massa.

Ma anche questo non è del tutto vero, sembra dire Freud; perché ci sono moltissimi uomini che vivono secondo il modo di essere della massa, perseguono cioè potere, successo e ricchezza, eppure ammirano coloro che si distaccano da questo modo di vivere.

La gran parte degli uomini vivono una vita mediocre dal punto di vista dei valori etici, alcuni addirittura vivono nel vizio e nella degradazione morale, eppure ammirano coloro che vivono nella virtù e si distinguono dalla massa.

Ci sono, in altre parole, moltissimi uomini che apprezzano determinati valori – incarnati da determinati uomini eccezionali, nel senso che fanno eccezione, si distinguono dalla massa, non seguono il modo di pensare e di vivere comune – e però poi si comportano in maniera opposta ai valori che pur dicono di apprezzare, vivono cioè seguendo il gregge, la corrente.

Io sono completamente d’accordo con questa descrizione delle varie tipologie umane fatta da Freud.

Anzi ne sono grandemente ammirato, per l’articolazione, l’acutezza e la profonda capacità di leggere la realtà umana.

© Giovanni Lamagna

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  • da “Freud; Il disagio della civiltà e altri saggi”; 2012, Bollati Boringhieri editore; pag.199

L’uomo di mondo e il sapiente.

Chi cerca il “godimento senza limiti” (avrebbe detto Lacan) o la ricchezza, il potere, la fama, la gloria (ovvero “le cose del mondo”, avrebbe detto Gesù) è nemico mortale (non può non esserlo) di chi ricerca la “sapienza”.

Il quale, per sua natura, “odia”, disprezza, invece, tutte queste cose, ovverossia “le cose del mondo”, perché il suo pensiero, il suo sguardo, il suo desiderio sono proiettati oltre, verso altro; la sua vita è dedicata all’essere e non all’avere.

Ma perché il primo odia il secondo, perché lo vede come nemico da eliminare, mentre il secondo si può “limitare” ad “odiare” le cose che il primo ama con smisurata passione e a tenersene lontano, come cose che lo lasciano indifferente?

Perché il secondo (al di là delle sue stesse intenzioni) sgama il primo, lo rivela a se stesso, ne disvela la fatuità, la frivolezza, l’inganno, su cui si fonda la sua vita, gli fa scivolare via la maschera che normalmente gli copre il volto.

Il secondo può tollerare l’esistenza del primo, non se ne sente minacciato né turbato; non ne condivide certo lo stile di vita e le abitudini, ma non pretende di scuoterlo, di cambiarlo, tutt’al più lo compatisce per le sue contraddizioni.

Il primo, invece, non può tollerare l’esistenza del secondo, perché ne è infastidito, a volte inquietato, se ne sente messo in discussione; lo deve allontanare come si allontana un tafano (il riferimento a Socrate è, ovviamente, consapevole e voluto).

Deve cancellarlo dal suo orizzonte mentale, in certi casi addirittura eliminandolo fisicamente, per non subire il suo sguardo e il giudizio, che l’altro gli getta addosso, anche senza volerlo, anche senza proporselo, per il solo e semplice fatto di esistere.

© Giovanni Lamagna

La buona salute è il principale dei beni

Non ci sono dubbi che la buona salute è il principale dei beni che l’uomo possa desiderare per sé.

Come giustamente afferma Schopenauer, “Almeno i nove decimi della nostra felicità sono dovuti esclusivamente alla salute” (massima n. 32 de “L’arte della felicità”; Adelphi; 2017).

Cosa sarebbero, infatti, la ricchezza, la fama, la gloria, il potere, l’amore, l’erudizione, la cultura, se ci mancasse la buona salute?

© Giovanni Lamagna

L’essere umano e la dimensione religiosa della vita

Mi sto facendo sempre più convinto, con gli anni, che l’uomo senza una qualche forma di sensibilità e di pratica religiosa non possa stare bene, non possa vivere bene.

In altre parole, che la dimensione religiosa è strutturale, congenita all’essere umano. Così come il respirare, l’aver bisogno di cibo, del dormire.

Il bisogno religioso è dunque un bisogno fondamentale come gli altri bisogni. Ancora più del sesso, che in realtà non è manco un vero bisogno, ma qualcosa al confine tra bisogno e desiderio.

Per cui, a mio avviso, si può vivere (e anche abbastanza bene) senza sesso, mentre non si può vivere, perlomeno non si vive bene, senza soddisfare il bisogno religioso che alberga in ognuno di noi.

A questo punto però sento la necessità di chiarire bene cosa intendo io per bisogno religioso, per dimensione religiosa della vita.

Chiarisco in premessa: nulla che abbia a che fare necessariamente con l’adesione ad una determinata fede e ad una religione storicamente date. Anche se queste possono essere intese come risposte (alcune delle risposte possibili) al bisogno religioso, che – come dicevo prima – è connaturato all’uomo, nasce con lui.

Allora quali sono le caratteristiche (in positivo) del bisogno religioso?

Io direi che la prima caratteristica è data dal bisogno che ha l’uomo di trascendersi, di andare oltre il puro dato materiale dell’esistenza.

L’animale, oltre al bisogno di procurarsi da bere, del cibo, una tana o un nido (soprattutto per i suoi cuccioli), di accoppiarsi per riprodurre la sua specie, di giocare di tanto in tanto, di riposare e dormire il tempo necessario riprendere le forze, non ha altre ragioni per vivere. In altre parole possiamo dire che l’animale vive per sopravvivere.

L’uomo no. Le ragioni puramente biologiche che bastano agli altri animali, a lui non bastano. Egli ha bisogno di trovare un senso, di dare un senso alla sua vita. Ha bisogno dunque di andare oltre la pura sussistenza, oltre la dimensione puramente materiale della vita, ha bisogno dunque di trascendere la sua natura animale.

E che cosa può dare un senso e un significato alla vita dell’uomo, capaci di farlo trascendere, andare oltre il puro dato biologico?

Una prima risposta può essere questa: il successo, la fama, la gloria, il riconoscimento sociale, il potere.

Una seconda risposta è la ricchezza, la “roba”, l’accumulo e il possesso di quanti più beni materiali è possibile.

Questi fattori (il successo, la fama, il potere, il prestigio sociale, la ricchezza…) possono essere considerati a tutti gli effetti dei “valori”, cioè realtà a cui gli uomini (almeno alcuni uomini) danno grande valore Quindi in grado di fondare una vera e propria religione; una religione del tutto laica ovviamente, ma pur sempre una religione.

Religione da questo punto di vista è un qualsiasi orientamento esistenziale che si unifica, concentra attorno a dei valori fondamentali, che in una ipotetica gerarchia hanno più peso degli altri.

La religione del successo sociale e della ricchezza è una religione che assume come suo carattere fondante quello della competizione, anche esasperata, tra gli esseri umani.

Il mio successo, infatti, dipende dal tuo insuccesso, dalla tua sconfitta. Così la mia maggiore ricchezza dipende dal tuo impoverimento. Si potrebbe anche dire che questa è la religione dell’ “homo homini lupus” e del “mors tua vita mea”.

Questa religione, però, a pensarci bene non è molto diversa da quella che indubbiamente ad altri livelli e in altre forme, praticano anche gli animali. Anche tra gli animali, infatti, c’è quello che tende a prevalere sugli altri, ad accaparrarsi le femmine migliori e le porzioni di cibo più abbondanti. Anche tra gli animali insomma vige la “legge del più forte”.

La religione del successo e della ricchezza si situa quindi ad un livello basso della scala evolutiva dell’homo sapiens. E’ propria dell’homo sapiens, che si è ben poco trasceso rispetto ai primi ominidi da cui deriva per via evolutiva e in fondo anche dalle altre specie animali.

L’uomo, però, nel corso dei secoli, anzi dei millenni (non si capisce bene perché, però è questo un dato di fatto da registrare) ha sentito il bisogno di trascendersi ulteriormente, di passare da una religione fondata sui valori della lotta e della competizione ad una fondata sui valori della pace, della solidarietà, della compassione verso il più debole, della fraternità non solo verso i consanguinei che è propria di ogni specie animale, ma verso l’uomo in quanto uomo, cioè della fraternità universale…

In nome della consapevolezza che ciascuno di noi è parte di un Tutto e che, quindi, le varie parti del Tutto non possono stare bene (raggiungere il benessere spirituale, ma a volte anche quello fisico) se il bene dell’una parte va a scapito dell’altra.

In nome della consapevolezza, insomma, che la mia vita non solo non si oppone quella degli altri, ma anzi è profondamente connessa con la loro. Altro che “mors tua vita mea”! Secondo questa visione religiosa del mondo, dunque, “mors tua etiam mors mea”, mentre “vita tua etiam vita mea”.

Sono questi i valori (chi più e chi meno, coniugati in forme e modi diversi) che, non a caso, caratterizzano la maggior parte delle religioni che si sono affacciate nei vari punti del pianeta nel corso della Storia.

Ma sono ancora questi i valori che hanno caratterizzato le varie forme di religiosità laica che hanno caratterizzato alcune culture che abbiamo conosciuto, soprattutto in questi ultimi cinque/sei secoli: in modo particolare, l’Umanesimo, l’Illuminismo e il Socialismo.

Per coltivare tali valori, gli uomini hanno dovuto sviluppare quella che di solito si definisce “la vita interiore”. Che non è una vita altra e alternativa rispetto a quella bio-fisiologica, ma è una vita distinta, che non si riduce alla prima.

La vita interiore, che altro non è che la vita dello spirito, ha, infatti, bisogno, per essere coltivata, di alcune condizioni, potremmo dire anche pratiche o abitudini, così come la vita del corpo ha bisogno degli alimenti, del riparo dalle intemperie, del riposo e del sonno giornaliero e, quando si ammala, delle giuste medicine.

Quali sono le pratiche di cui ha bisogno la vita interiore? Ne elenco alcune e so di dimenticarne altre. Indico quelle che a me sembrano le più importanti. La vita interiore o spirituale che dir si voglia ha bisogno di:

-silenzio e raccoglimento, laddove l’uomo, che vota la sua vita al successo e all’accumulo di beni, preferisce il chiasso e lo stordimento del mondo esteriore;

– di letture, riflessioni, meditazione, perché la pratica di certi valori non è spontanea, ma abbisogna di un esercizio continuo che in qualche modo va contro gli impulsi spontanei e gli istinti;

– di riti individuali ma anche collettivi, che rafforzino il sentire comune e condiviso dei valori scelti a livello individuale.

Non a caso queste tre pratiche spirituali sono presenti in tutte le forme di religiosità che l’uomo ha finora conosciuto nella sua storia, perfino in quelle che non si riconoscono esplicitamente come espressione di religiosità, ma che per me in qualche modo comunque lo sono, anche se sono forme di religiosità del tutto laiche.

Per concludere e riepilogare, sono convinto che:

1) l’uomo non possa prescindere dal formarsi una sua visione del mondo, una sua weltanshaung, quindi una sua visione religiosa del mondo;

2) questa visione del mondo può essere fondamentalmente di due tipi: o competitiva o solidaristica;

3) la prima assicura (talvolta) un benessere immediato ed effimero, ma allo stesso modo (e più spesso) procura ansie e perfino angosce nel lungo periodo;

4) la seconda, invece, non garantisce il benessere immediato e materiale, ma assicura un benessere interiore di lungo respiro e molto superiore alla prima;

5) per operare secondo i principi di questa seconda visione del mondo, l’uomo ha bisogno di silenzio interiore, raccoglimento, meditazione, di riti individuali e, soprattutto, collettivi.

© Giovanni Lamagna

Recensione del film “Hammamet” di Gianni Amelio

Ieri pomeriggio sono stato a vedere “Hammamet”, l’ultimo film di Gianni Amelio. Esprimo subito e in maniera sintetica l’impressione fondamentale: è un bel film, che si lascia vedere bene, che intriga e, a tratti, perfino commuove.

Lo confesso, sono andato a cinema piuttosto prevenuto: avevo letto nei giorni precedenti qualche articolo di giornale, un’intervista a Favino, qualche dichiarazione dello stesso Amelio e mi ero fatto l’idea che il film, sotto, sotto, avesse un qualche intento riabilitativo, se non addirittura agiografico, nei confronti di Bettino Craxi.

Io, all’epoca, non solo non avevo condiviso (quasi) niente dell’uomo politico-Craxi, ma – diciamolo pure – l’avevo anche cordialmente disprezzato sul piano umano. Perché incarnava l’esatto contrario del mio politico ideale e della mia stessa idea di uomo. Questo, credo, spiegasse bene lo stato d’animo con cui mi sono, dunque, recato a cinema.

Dopo aver visto il film, posso dire, invece, che le mie prevenzioni erano nel complesso del tutto infondate. Perché il film non racconta in primo luogo il Craxi politico, ma racconta soprattutto il Craxi oramai uscito dalla scena politica, distante dall’Italia e, per giunta, molto malato.

Racconta la storia degli ultimi sette mesi di vita di un uomo, che vive oramai isolato, circondato solo dall’affetto dei suoi familiari (soprattutto da quello devoto della figlia e da quello del nipotino, che lo venera come un comandante militare; la moglie è presente, ma è quasi come se non ci fosse: evidentemente non aveva mai avuto un grande ruolo affettivo nella sua vita), una persona ripiegata sui suoi ricordi, misti di nostalgia e di rancore, in lotta sempre più disperata con varie malattie, che ne minano ogni giorno di più la salute.

Il Craxi politico c’è (eccome, se c’è!), ma è sullo sfondo. In primo piano c’è il Craxi uomo, con il suo gradissimo dramma.

Un uomo sconfitto, che non si fa ragione della sua disfatta, che si sente anzi vittima di un complotto ordito ai suoi danni, che prova a spiegare le ragioni delle sue scelte, con l’arroganza di un tempo ancora ben viva, che non prova però più vero odio per i suoi avversari (“che coraggio c’è a parlar male degli altri?”), ma solo tanta rabbia.

Un uomo che si addolcisce solo con il nipotino (col quale gioca, come fanno tutti i “bravi” nonni), che vive un rapporto ambivalente con la figlia, un misto di ruvidezza burbera e di quasi languida tenerezza, che ha dei buonissimi rapporti con la comunità tunisina che lo ospita, che si esercita persino in buone azioni con poveri e bisognosi.

Amelio, insomma, ha voluto (a me pare) essenzialmente descrivere la storia di un personaggio famoso (che questo personaggio avesse le sembianze di un noto uomo politico italiano è stato per il regista calabrese quasi solo un pretesto), un personaggio che ha fatto la storia di una nazione, che ha toccato il vertice della gloria e dei riconoscimenti, e poi cade in disgrazia, rotola nella polvere, come prima di lui nella Storia è avvenuto a tanti altri illustri personaggi. E ci è riuscito benissimo.

Il dramma del racconto sta tutto nel raffronto stridente tra ciò che fu (ascesa al potere, gloria, fama, benessere economico, amori…; non a caso il film inizia con le scene del famoso XVI Congresso socialista, nel quale Craxi raggiunse l’acme della sua carriera politica) e la realtà del presente (dopo le condanne giudiziarie, la debacle politica, la perdita del potere, la fuga ad Hammamet in Tunisia, il sostanziale isolamento, la grave malattia…). Ed è reso con grande maestria narrativa.

Per carità (come già accennavo prima) nel film non è assente la dimensione del Craxi politico.

E d’altra parte essa non poteva mancare, perché Craxi era un animale politico fin nel midollo, totus politicus. Ma non poteva mancare, anche per un altro motivo: perché sarebbe venuta meno la tensione narrativa drammatica tra l’uomo politico trionfatore e quello decaduto.

E però la dimensione politica è solo la dimensione seconda, viene cioè dopo quella umana e privata. Nel film hanno dunque la possibilità di emergere con precisione tutte le tesi e le argomentazioni, che Craxi ha sostenuto fino all’ultimo, non solo per difendersi dalle accuse dei giudici, ma anche per rivendicare orgogliosamente la sua storia politica.

E il regista queste tesi e queste argomentazioni non le sposa affatto, come io (un po’ prevenuto) temevo che fosse. Anche se non le contrasta apertamente, quanto meno le dialettizza, attraverso la figura (bella trovata narrativa questa!) del figlio di un ex amico di Craxi (amministratore del partito, morto suicida) che, per capire cosa ha portato il padre a uccidersi, va a trovare il leader socialista  per intervistarlo e gli pone molte domande, spesso in aspra polemica con lui.

Io, come è ovvio, mi riconosco pienamente nella posizione di questo giovane, che pone a Craxi domande molto scomode e stringenti, che forse, almeno all’inizio, persino lo odia (tanto è vero che aveva addirittura meditato di ucciderlo) e che però, un poco alla volta, nel corso dei lunghi giorni in cui procede l’intervista (ospite a casa di Craxi) si lascia prendere dall’umana pietà di fronte all’uomo sofferente.

A voler fare una sintesi conclusiva: – Hammamet è un film anche politico, ma non in primo luogo politico; – le tesi politiche (quelle favorevoli a Craxi e quelle contrarie) vengono esposte (ovviamente in forma narrativa) in maniera abbastanza obiettiva e per nulla apologetica; – il film è in primo luogo il racconto della dolorosa vicenda umana di un uomo potente caduto in disgrazia; – probabilmente voleva suscitare umana compassione anche in chi Craxi lo ha vissuto come avversario e anche oggi non ne condivide quasi nulla della storia politica; – se questo era uno degli obiettivi, l’ha raggiunto pienamente: con me, almeno, l’ha raggiunto; è, insomma, un film riuscito.

Una menzione a parte la merita l’interpretazione di Pier Francesco Favino, che è semplicemente strepitosa, magistrale, da grande attore, di statura internazionale.

Giovanni Lamagna

Cosa vuol dire essere autentici?

Per me vuol dire essere innanzitutto connessi col proprio Sé profondo.

Questa connessione non è mai scontata, nel senso che non è un dato naturale, congenito. Ma è il risultato di una ricerca e, soprattutto, di un lavoro interiore.

Per natura ognuno di noi tende ad apparire, più che ad essere se stesso. Tendiamo, cioè, ad offrire di noi un’immagine migliore di quella che in realtà ci appartiene. Perché ci illudiamo (e spesso, a dire il vero, ne abbiamo conferma) che spendere un’immagine migliore di quella reale di Sé è conveniente sul mercato delle relazioni.

Ma di quale mercato in questo caso si tratta? Del mercato economico delle relazioni, quello dove è in gioco la competizione, il successo, la fama, la gloria, il potere, il denaro. Che non garantisce però la verità, l’autenticità e, quindi, il calore, la profondità, la sincerità delle relazioni.

Per poter sperimentare le vere, autentiche relazioni, quelle dove regna il calore della gratuità e non l’interesse e la convenienza dello scambio (in qualche modo sempre di natura economica) occorre che noi mostriamo il vero Sé e non il Sé “migliore”, che talvolta (anzi sempre) è un falso Sé.

Occorre che ci mostriamo nudi e che l’altro faccia altrettanto. Solo nella nudità, il più possibile completa, i Sé si incontrano.

Quando invece indossiamo una maschera, per apparire migliori di quello che in realtà siamo, si incontrano le maschere e non le anime che si nascondono dietro le maschere.

Allora l’incontro è un finto incontro. Il contatto vero diventa impossibile o è solo superficiale.

Quanti uomini politici, di potere o uomini di affari straricchi sono circondati da folle di devoti!

Questo vuol dire che hanno molti amici, molte persone che li amano?

Niente affatto! Spesso, anzi il più delle volte, i devoti hanno bisogno del loro potere e della loro ricchezza. Non della loro umanità.

Ricercano vantaggi o favori. Non il calore umano della relazione.

Il rapporto umano è vero solo quando prescinde dall’interesse. Quando punta all’incontro delle reciproche umanità, nella loro nudità e senza orpelli.

Giovanni Lamagna

Una testa ben fatta e una testa ben piena

17 gennaio 2016

Una testa ben fatta e una testa ben piena.

C’è, indubbiamente, un nesso tra “l’atto del leggere” e “l’esercizio del pensiero”. Il primo non potrebbe avvenire senza una qualche partecipazione del secondo. E in qualche modo e misura il secondo è certamente favorito dal primo.

Ma nesso e (potremmo aggiungere anche) interdipendenza non sono sinonimo di coincidenza o equivalenza.

Ci sono, infatti, persone che hanno letto e leggono molto, ma hanno pensato e pensano poco.

Sono quelle persone per le quali ciò che leggono non affonda nel loro pensiero, non scende in profondità, ma resta in superficie e talvolta scivola via nella dimenticanza più totale, tal altra resta come bagaglio nozionistico, che non diventa però carne della propria carne, sangue del proprio sangue, non si trasforma cioè in vita. Soprattutto non modifica, non trasforma, non migliora, non eleva la loro vita.

Al contrario, ci sono altre persone che hanno letto poco nella loro vita, ma hanno pensato molto e soprattutto vanno in profondità quando pensano.

Sono persone che leggono ed hanno letto poco, perché non ne hanno avuto e non ne hanno le possibilità economiche o perché svolgono attività lavorative che non lasciano loro molto tempo per leggere o, semplicemente, perché sono lente nella lettura, hanno bisogno di tempo per assimilare e meditare ciò che leggono. Ma che traggono tesoro da ciò che leggono, lo masticano e lo assimilano come se fosse cibo, che si trasforma in carne della loro carne e sangue del loro sangue. Che fanno di ogni lettura un incontro con l’autore del testo che leggono. E da quel testo si fanno trasformare o con esso si confrontano per dissentire e polemizzare (se è il caso).

Una persona di grande cultura è indubbiamente una persona che ha entrambe le caratteristiche: ha letto molto ed allo stesso tempo ha meditato molto. E’ una persona che è a conoscenza delle molte cose che altri prima di lei hanno pensato e scritto. In questo modo se non altro si evita di aprire porte che sono già state aperte da altri. Ma allo stesso tempo ha esercitato molto il pensiero critico. Ovverossia non ha accolto in maniera acritica le cose che ha letto, ma le ha filtrate alla luce del suo pensiero originale e creativo. Non le ha accumulate dentro di sé come se fossero altro da sé, ma le ha assimilate, elaborate, trasformate, ricreate, rese nuove ed originali.

Il desiderio di ognuno di noi dovrebbe essere quindi quello di leggere molto ed allo stesso tempo di pensare molto; soprattutto, di pensare bene.

Ma dovendo scegliere, essendo costretti a scegliere (in base a quello di cui siamo capaci e alle condizioni di vita in cui siamo messi), io credo sia meglio optare per la seconda qualità. Infatti, come diceva Montaigne e come ha ribadito di recente Edgar Morin, “è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena”.

Giovanni Lamagna