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Passaggi obbligati.

Nella vita spirituale (che poi è nient’altro che la vita della psiche; per me psiche e spirito sono, infatti, sinonimi; la “vita spirituale” per me non è altro che una vita psichica ben funzionante) ci sono talvolta, anzi forse molte volte, passaggi obbligati, che non possiamo evitare.

Ci si può certo girare attorno, nella speranza che qualcosa o qualcuno ci risparmi la necessità di doverli attraversare per forza; necessità che comporta – ai nostri occhi – rischi e fatiche, che ci risparmieremmo volentieri e che cerchiamo, dunque, di evitarci fin quando ci è possibile.

Si possono cercare altre strade (meno impervie per noi) nella speranza di giungere alla stessa destinazione, senza dover imboccare proprio quella via che vorremmo evitare; in genere, per pigrizia o per paura; o entrambe le cose messe assieme.

Ma tutti i nostri tentativi si riveleranno alla fine inevitabilmente fallimentari: un girare a vuoto; ci sono passaggi che, per quanti tentativi possiamo fare per evitare di attraversarli, dobbiamo per forza e di necessità imboccare e tentare di superarli.

Pena non realizzare quel salto di qualità che la vita ci richiede in un dato momento, se vogliamo evolvere, se vogliamo realizzare noi stessi, se non vogliamo fermarci “nel mezzo del cammin di nostra vita”, in mezzo ad un guado.

E, anzi, tornare all’indietro, regredire, involvere; perché io sono convinto (l’ho sperimentato tante volte nella mia vita, guardandomi attorno) che chi non va avanti, non resta affatto nello stesso punto in cui era arrivato, ma scivola addirittura all’indietro.

Queste situazioni ci fanno capire che “il destino” (quello che gli antichi Greci chiamavano “daimon”, ma che in questo caso potremmo anche definire più semplicemente “il reale”) esiste.

E che decide (o ha già deciso) per noi; che ognuno di noi ha un suo “destino”, cioè un luogo, una meta, una destinazione (appunto!) a cui è chiamato ad arrivare.

E che nessuno di noi gli può andare contro, nessuno di noi lo può evadere, sfuggire.

O, meglio, lo possiamo anche fare; e a volte (molte volte) lo facciamo; magari con una testardaggine ed una tenacia, che sarebbero degne di miglior causa.

Ma in questo caso faremmo bene allora a rassegnarci al fatto che non potremo mai essere del tutto felici, cioè non potremo realizzare noi stessi.

Che sono poi la stessa cosa; infatti, l’unica felicità possibile per noi, alla nostra portata, è quella di realizzare noi stessi.

Non a caso, sempre gli antichi Greci, che di queste cose se ne intendevano, per esprimere il concetto di felicità, utilizzavano la parola “eudaimonia”, composta dall’aggettivo “eu” (buono) e dal sostantivo “daimon” (demone, destino, vocazione).

Per i Greci era, dunque, destinato alla felicità solo chi con impegno e, in certi casi, coraggio si dedicava alla realizzazione del proprio “daimon”, del proprio destino, della propria vocazione, nella vita.

Ne possiamo dedurre allora che chi, invece, con ostinazione e ottusità (con una sorta di “coazione a ripetere”), vuole evitare i passaggi obbligati che la vita gli pone davanti si condanna alla infelicità o, quantomeno, ad una insoddisfazione perenne, cronica.

Diremmo oggi con linguaggio moderno: ad un’insoddisfazione nevrotica, se non alla depressione (melancolia) acclarata.

© Giovanni Lamagna

Il paradosso della psicoterapia: accettare sé stessi/cambiare sé stessi.

James Hillman, nel suo “La ricerca interiore” (Moretti & Vitali 2010), tra pag. 79 e pag. 80, scrive alcune cose, a mio avviso di fondamentale importanza, riguardo al suo modo di intendere la psicoterapia.

Le riporto qui in maniera schematica con parole mie, citando ogni tanto le sue (tra virgolette) e osando integrare, in qualche punto, il suo pensiero con il mio.

Lo faccio non solo perché penso che dicano cose molto importanti e significative a chiunque svolga una qualsiasi professione di aiuto; quindi non solo a chi fa lo psicoterapeuta di “mestiere”.

Ma perché penso che dicano cose molto importanti e significative anche a chi voglia impegnarsi da solo (senza cioè aiuti esterni) in un percorso di crescita interiore, per realizzare al meglio le sue potenzialità, la sua vocazione fondamentale.

1.Parto allora dalla prima affermazione di Hillman: “Amarsi non è una cosa facile”; con la quale concordo, anche se essa, sulle prime, può apparire paradossale.

Infatti, “amare sé stessi” significa non solo accettare la parte di sé che (eventualmente) risplende e ci piace, ma anche la parte di sé che sta in ombra, quella che di solito tendiamo a non mostrare all’esterno, perché non ci piace.

L’amore di sé richiede, insomma, l’accettazione (quantomeno l’accettazione) di tutte le parti di sé: quelle che ci piacciono e quelle che non ci piacciono.

L’umiltà di dire (innanzitutto a sé stessi e poi – come postura psicologica di fondo – anche agli altri): io sono questo, io sono fatto così; io mi accetto per come sono, abbiate anche voi (altri) la bontà, la misericordia, di accettarmi per come sono.

2. Senza questa accettazione la stessa psicoterapia non può manco iniziare.

In questo, il ruolo dello psicoterapeuta è fondamentale; chi svolge una professione di aiuto, come prima cosa, deve accettare così com’è la persona che è venuta da lui in cerca di aiuto e deve aiutare costui/costei a fare altrettanto; almeno come posizione di partenza.

Se lo psicoterapeuta o il counselor si mettono a giudicare il loro cliente e come prima cosa gli indicano in quale modo e in quale direzione deve cambiare, la relazione d’aiuto abortisce ancora prima di iniziare.

L’accettazione preliminare e incondizionata di sé – dice Hillman – è già parte della terapia; anzi costituisce la base, la prima fase di ogni terapia.

3. Questa accettazione deve essere vera e quindi totale; non può essere diplomatica e quindi parziale, finalizzata cioè ad altri scopi: la cura, la guarigione, la realizzazione di sé, il potenziamento dell’Io…

Deve essere, in un certo senso, come l’amore della madre, che esiste e sussiste a prescindere; a prescindere dalle doti e dalle qualità del figlio e, persino, dal suo comportamento morale; per una madre il figlio è figlio, sempre e comunque.

4. E però… qui c’è un però… che fonda il paradosso stesso della vita e, quindi, anche della terapia; che costituisce un po’ la sua follia, che non è la follia solo di alcuni (i matti, i nevrotici…), ma è la follia che possiamo rintracciare in tutti noi.

Allo stesso tempo che si accoglie ed accetta la propria Ombra, “gioiosamente”, per certi aspetti addirittura “definitivamente”, nel corso della psicoterapia si prende consapevolezza che ci sono parti di sé che sono “gravose e intollerabili e che devono cambiare”.

Qui insorge il ruolo che solitamente, prevalentemente (anche se non esclusivamente), svolge il padre nel rapporto genitori-figli.

Mentre la madre accetta e ama incondizionatamente il figlio, il padre gli impone degli obblighi, in quanto rappresenta “lacanianamente” la Legge; il padre gli indica dei traguardi, degli obiettivi.

Il paradosso della terapia è che ti porta, ti guida ad accettare, fino in fondo, incondizionatamente te stesso, quello che sei; ma, allo stesso tempo, ti chiede di cambiare, di apportare alla tua vita i cambiamenti necessari a realizzare al meglio le tue potenzialità.

La consapevolezza di sé e l’accoglimento/accettazione della propria Ombra costituiscono solo la prima parte della terapia, ne sono la base, ne rappresentano le fondamenta; ma su queste fondamenta bisogna poi costruire il nuovo Sé.

Quello capace di eliminare (il più possibile) dalla propria vita i fattori che generano sofferenze non necessarie e di aprirsi ai piaceri, alle gioie e perfino ai momenti di felicità possibili, alla nostra portata; in altre parole il Sé sano, rigenerato, persino saggio.

5. Qui – dice Hillman – gli opposti si incontrano e si integrano.

Si fa tutto con impegno e al tempo stesso si lascia perdere”; io aggiungo: si fa tutto con impegno, come se si stesse lavorando, e allo stesso tempo si fa tutto allegramente, gioiosamente, come se si stesse giocando; si fa come se tutto dipendesse da noi e allo stesso tempo sapendo bene che non tutto dipende da noi.

“… si giudica con durezza, e si sta insieme contenti.”; io aggiungo: ci si giudica con durezza, paternamente, ma allo stesso tempo ci si giudica con dolcezza, maternamente.

Moralismo occidentale e abbandono orientale”, io preferisco dire “attivismo occidentale e fatalismo orientale” si incontrano e fondono in un singolare, un po’ misterioso e pur reale paradosso.

Il Dio ebraico della Legge, dei dieci Comandamenti e della Giustizia, incontra e si fonde con il Dio ebraico “della misericordia, del perdono e dell’amore”.

Si vive, insomma, come i Chassidim, capaci di unire profondo rigore morale e intenso “piacere per la vita”.

© Giovanni Lamagna

Motivazioni all’impegno in politica.

Sarebbe bene che chi è impegnato in politica si interrogasse continuamente sulle reali motivazioni (quelle inconsce e non solo quelle consce) che lo hanno spinto e continuano a spingerlo verso un tale impegno.

Sicuramente in questo modo farebbe meglio di quanto non fanno normalmente quelli che sono impegnati in politica; quantomeno farebbe meno danni.

© Giovanni Lamagna

Psicoterapia e conversione.

Una psicoterapia che non si ponga l’obiettivo primario di realizzare una vera e propria “conversione” della persona che vi si accinge per me non è una vera psicoterapia.

È una psicoterapia superficiale, per modo di dire: una psicoterapia all’acqua di rose.

In questo senso per me il processo terapeutico ha qualcosa di iniziatico, anzi aggiungo perfino di religioso, anche se di una religione del tutto laica e individuale, senza dogmi, chiese, sacerdoti e templi.

D’altra parte, perché una persona si decide a fare una psicoterapia, coi costi economici, di tempo e di impegno energetico che essa comporta?

Evidentemente perché sta male!

E perché sta male?

Perché evidentemente ha introiettato (in genere, sin dall’infanzia) contenuti psichici (emozioni, effetti, sentimenti, pensieri, fedi) che non hanno un sano, corretto rapporto con la realtà.

E, di conseguenza, assume abitualmente, cronicamente, comportamenti insani e fa scelte sbagliate in modo (a volte compulsivamente) reiterato.

Di fronte a un quadro simile, cosa si propone uno psicoterapeuta, quando prende in analisi un paziente?

Con tutta evidenza, a mio avviso, due cose: innanzitutto quella di aiutare la persona che si rivolge a lui in cerca di aiuto a prendere consapevolezza dei contenuti psichici che sono alla base del suo malessere.

E di conseguenza, successivamente, stimolarla, aiutarla, accompagnarla a modificare i comportamenti e le scelte sbagliate che da quei contenuti psichici insani (perché privi di un rapporto sano con la Realtà) derivano.

Questo cosa comporta, cosa implica?

Un cambiamento quasi sempre (ma io sarei portato a eliminare il “quasi”) radicale (e non superficiale) del modo di vivere precedente, degli stili di vita fino ad allora praticati.

E cosa sarebbe questo cambiamento, se non quella che una volta avremmo chiamato, semplicemente e senza alcun imbarazzo, “conversione”, nel senso religioso del termine?

Ora io sono pienamente consapevole che la conversione, in termini religiosi, va intesa come un passaggio da una vita senza fede (atea o agnostica) ad una vita nella fede (in un Dio trascendente) o da una fede religiosa precedente (ad esempio, mussulmana) ad un’altra fede religiosa (ad esempio, cristiana); con tutto quello che questo comporta in termini pratici ed esistenziali.

La conversione di cui parlo qui, invece, quella che può realizzarsi in psicoterapia e che io considero nei fatti l’obiettivo principale (dichiarato o meno) di una psicoterapia, è il passaggio da una “visione del mondo” nevrotica, perché infondata (cioè senza fondamento nella realtà; e, quindi, psicologicamente scorretta) ad una più sana, perché fondata (sul “principio di realtà”) e, quindi, psicologicamente corretta.

Si tratta di due processi senza ombra di dubbio (non voglio qui creare nessuna confusione) differenti, anzi molto differenti.

Lungi da me, quindi, l’intenzione di sottovalutarne le profonde diversità e volerli identificare, omologare.

Ma come si fa a negare che tra le due “conversioni” (quella psicoterapeutica e quella classica, religiosa) esistano anche delle profonde e altrettanto evidenti analogie?

Come, del resto, in più occasioni hanno avuto modo di evidenziare e dire a chiare lettere fior di psicoterapeuti; tre nomi per tutti: Carl Gustav Jung, Victor Frankl e James Hillman.

© Giovanni Lamagna

Può un corpo apparirmi nel tempo sempre nuovo?

Il corpo di cui conosco a memoria la geografia, le insenature, i rilievi, le profondità, la consistenza, è reso sempre nuovo dall’onda inarrestabile del tempo.” (Massimo Recalcati; “Mantieni il bacio”; Feltrinelli 2019; pag. 120-121)

Sono d’accordo e, allo stesso tempo, non sono d’accordo con questa affermazione.

Sono d’accordo, perché effettivamente quello che dice Recalcati può succedere, non è impossibile, è nell’ordine delle possibilità, anche se, a dire il vero, non è molto frequente.

Il trascorrere del tempo non è fatale, non è destino che renda obsoleto (e quindi non più desiderabile) lo “stesso”, oggetto del mio desiderio; anche – perfino – lo stesso corpo della persona che frequento da anni e che conosco oramai come le mie tasche.

Non sono d’accordo, perché Recalcati in questa sua affermazione utilizza un verbo (“è reso”) al modo indicativo, come se questa esperienza fosse la norma, rientrasse cioè nell’ordine normale e naturale delle cose.

E non fosse solo una possibilità (come, invece, la considero io), quindi niente affatto scontata, anzi – a dire il vero – il più delle volte, come succede nella maggior parte dei rapporti, irrealizzata e, quindi, non verificata.

Non sono d’accordo, inoltre, anche per un altro motivo.

Perché non è il tempo in sé che rende sempre nuovo il corpo dell’altro che amo.

Innanzitutto, per il fatto – persino banale – che il tempo rende oggettivamente più vecchio il corpo dell’altro (altro che nuovo!) e pertanto lo fa meno attraente ai miei occhi.

E, in secondo luogo, perché il tempo di per sé tende a produrre un fenomeno di assuefazione e quindi di appassimento del mio desiderio per quel corpo.

È solo la mia volontà, la mia “buona disposizione” d’animo, il mio voler tener viva la relazione, che mi permette di vedere sempre nuovo il corpo dell’altro, nonostante il trascorrere inesorabile del tempo lo renda sempre più vecchio.

E lo è ancor più, a dire il vero, la capacità dell’altro di rendersi sempre nuovo ai miei occhi nonostante rimanga sempre sé stesso.

È la disposizione dell’altro a rendersi seduttivo in forme sempre rinnovate (una qualità che è della psiche – dell’anima, direbbe Hillman – e non del corpo) che mi fa (può farmi) apparire sempre nuovo il suo corpo.

Niente di scontato, quindi, e meno che mai di spontaneo e naturale!

L’amore, persino il desiderio, possono durare nel tempo; non sono destinati fatalmente ad appassire, come molti (forse i più) ritengono.

Però, perché questo si verifichi è necessario un impegno reciproco delle due persone che si sono incontrate un giorno e che sono state attratte l’una verso l’altra.

L’impegno di ciascuna di loro – direi una “cura”, per usare una bellissima parola che ricorre in una famosa canzone di Battiato – a rendersi ogni giorno nuova agli occhi dell’altra, in modo da rendere possibile ogni giorno l’incanto, la magia della scoperta.

Del “nuovo” nello “stesso”.

© Giovanni Lamagna

Realizzare il proprio daimon, la propria vocazione.

Cercare di realizzare quello che i Greci chiamavano il proprio “daimon”, cioè la propria vocazione, non vuol dire affatto inseguire fantasie o sogni irrealizzabili.

Del tipo diventare attori o attrici, calciatori, uomini politici potenti, ricchi imprenditori, scienziati o artisti famosi…

Questi sogni e fantasie sono solo la parodia del nostro daimon, anzi ne impediscono la effettiva realizzazione.

Con l’esito inevitabile di delusioni e frustrazioni.

Realizzare il nostro daimon significa innanzitutto avere una realistica consapevolezza delle proprie potenzialità e del contesto economico, sociale, culturale, politico, familiare nel quale ci troviamo a vivere.

Solo sulla base di questa consapevolezza noi potremo individuare la nostra vera e specifica e vocazione e provare a realizzarla.

E, se ci metteremo d’impegno, sicuramente riusciremo a realizzarla (qualunque essa sia) e potremo esserne così felici e soddisfatti.

Che non significa – sia detto per inciso – vivere una vita senza dolori e, in certi momenti, addirittura angosce.

Significa solo riuscire a dare un senso e una direzione di marcia a questi dolori e a queste angosce.

© Giovanni Lamagna

Si può giurare amore eterno?

Ogni promessa d’amore – come dice giustamente Massimo Recalcati – è “per sempre”, cioè promessa di amore eterno.

Nessuno promette amore a termine; quando si dichiara il proprio amore, questo amore lo si pensa sempre destinato a durare “per sempre”.

Poi, però, la storia di parecchi rapporti, se non addirittura della loro maggioranza, ci dice che molte di queste promesse, col passare del tempo, vengono meno.

E non perché chi le ha fatte fosse in malafede, volesse quindi ingannare l’amato.

Ma perché chi ha promesso amore eterno nel frattempo cambia, è destinato a modificarsi; a distanza di tempo – si può dire – non è più la stessa persona che aveva fatto quella promessa.

Questo è un terribile paradosso dell’amore: che chi lo promette non può che prometterlo “per sempre”; ma la sua promessa poggia su un terreno friabile, che può franare da un momento all’altro.

Chi promette amore eterno in un dato momento non può garantire (non sarebbe onesto con sé stesso se lo facesse) di rimanere la stessa persona anche in futuro, addirittura “in eterno”.

Anzi, per molti aspetti, sarebbe addirittura un fatto negativo se questo avvenisse nella realtà.

Infatti, una persona che non cambia nel tempo è una persona non viva, una persona che può essere considerata spiritualmente morta.

Io sono portato a dire perfino che una persona che non evolve è in realtà una persona che involve, che regredisce. Inevitabilmente!

Chi, infatti, non cambia andando avanti, cambia andando indietro.

Nessuno nella vita resta fermo; è solo un’illusione ottica che si possa rimanere nel tempo sempre uguali a sé stessi.

In questo senso e da questo punto di vista nessuno può (o dovrebbe) giurare “amore eterno”.

Tutt’al più può promettere che si impegnerà a renderlo eterno; o, per dire ancora meglio, che si impegnerà a vivificarlo in continuazione.

Per quello che tocca a lui, per quello che a lui compete.

E noi sappiamo bene che l’amore è un vincolo la cui tenuta non dipende da una sola persona, ma quantomeno da entrambe le persone che stringono un legame d’amore.

Io preferisco chiamarlo “rapporto”, perché la parola “legame” sa di carcere, prigionia.

Per cui una relazione d’amore può anche durare “in eterno”, ma a condizione che ciascuna delle due persone coinvolte si impegni a curarla, coltivarla, farla crescere, mantenerla viva.

Facendo la propria parte per rinnovare ogni giorno sé stessa come singola persona e la coppia come relazione.

Da questo punto di vista è proprio il cambiamento, la capacità di rinnovarsi e cambiare assieme, facendo un cammino fianco a fianco, che garantisce la durata di un rapporto.

Se, invece, uno cambia e l’altro sta fermo, il rapporto è destinato a logorarsi e a finire, prima o poi, nelle secche.

Ma, infine, manco questo impegno è garanzia totale ed assoluta che la relazione duri in eterno; perché ci sono poi fattori oggettivi e di contesto che prescindono dalla volontà e dall’impegno dei singoli amanti.

Ci sono cambiamenti che essi alle volte non riescono a gestire e governare.

In questo caso è difficile e forse addirittura ingiusto chiedere loro di rimanere “fedeli” ad una promessa fatta quando tutto era diverso dal presente che qui e ora si trovano a vivere.

E allora forse è meglio a questo punto dirsi che l’amore è finito; o, quantomeno, che il rapporto è mutato, come (del resto) accade a molte cose, anzi a tutte le cose, nella vita.

Come cambiano le ore in un giorno, le stagioni in un anno, come cambiano le piante, come cambiano persino le montagne, che pure sembrano inscalfibili e perciò apparentemente (ma solo apparentemente) ci appaiono eterne.

© Giovanni Lamagna

Il perdono esige il pentimento.

Il pentimento è una condizione/premessa indispensabile del perdono, per ricevere un perdono.

Senza una reale conversione del cuore non ci può essere perdono.

Il perdono, infatti, non è e non può essere un atto di gratuito e unilaterale buonismo.

Ma è, può essere solo – ammesso che si verifichi, che maturi – la presa d’atto, il riconoscimento di una realtà da parte chi ha ricevuto un’offesa, di chi è stato ferito.

Di quale realtà?

Che chi ha commesso una colpa non è più la stessa persona che l’ha commessa, ma è cambiata profondamente nel cuore; si è pentita profondamente del male commesso; è diventata (spiritualmente, psicologicamente) un’altra persona.

Non importa, dunque, quando avviene il pentimento; il pentimento può anche avvenire – al limite – “in limine mortis”.

Il perdono non conta il tempo in cui si è rimasti nella colpa; non è misurato su questo tempo.

Al perdono basta semplicemente che il pentimento ci sia stato, che la conversione del cuore sia realmente avvenuta.

Il perdono non conosce l’espressione “è troppo tardi!”.

Il perdono preferisce l’espressione “meglio tardi che mai!”.

Il perdono è sempre lì pronto, disponibile a manifestarsi.

Non attende altro che la conversione del cuore di chi ha commesso una colpa.

Purché essa sia reale, sincera.

Questa è l’unica condizione – ma indispensabile, ineludibile – perché il perdono si attivi, si manifesti.

Il perdono non conosce vendetta.

Il perdono è strutturalmente, intrinsecamente, animato dalla misericordia.

La quale si manifesta – per definizione – solo davanti alla miseria della colpa, non certo di fronte allo splendore della virtù.

La virtù, infatti, non ha – come è ovvio – bisogno di misericordia; è la colpa che la invoca.

Purché sia una colpa alla quale segua un pentimento sincero, profondo e adeguato.

Che deve essere, dunque, caratterizzato innanzitutto dal dolore e dal rimorso, proporzionati alla colpa commessa.

E poi dalla intenzione, dalla decisione e dall’impegno sinceri, profondi, non formali, di invertire la rotta, di cambiare vita, di non ricadere più nella stessa colpa.

Questo è il vero pentimento; condizione necessaria, indispensabile, perché ci sia un corrispondente perdono.

Diverso è il perdono che si realizza all’interno del cuore di chi ha ricevuto un’offesa, di chi è stato ferito, addirittura di chi sta per essere ucciso, a prescindere dal pentimento di chi ha offeso, ferito, addirittura ucciso.

Quello, ad esempio, di Gesù, che sulla croce pronuncia la celebre frase “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno!”.

Qui il perdono è un atto unilaterale, che non si manifesta però all’esterno; è il perdono di chi ha elaborato il proprio rancore e l’eventuale desiderio di vendetta.

E’ il sentimento di chi ha fatto pace con se stesso più che con l’altro, con colui che lo ha offeso o ferito o sta per ucciderlo.

Questo perdono – come già detto – può anche prescindere dal pentimento dell’altro; ma è un fatto tutto privato, interiore, che non si manifesta (e, forse, non deve manifestarsi) all’esterno.

Se, infatti, fosse concesso, troppo facilmente, diciamo pure gratuitamente, a chi si è reso autore di una colpa, sarebbe falso, inautentico e, addirittura, controproducente.

Nel senso che ostacolerebbe o, addirittura, forse impedirebbe il necessario percorso di redenzione (che presuppone ineludibilmente il pentimento) di chi ha commesso la colpa per la quale si è disposti a concedere il perdono.

O, magari, lo si è già concesso all’interno del proprio cuore, come atto però del tutto privato, non (ancora) reso pubblico.

Qui – sia detto a completamento della riflessione fin qui svolta – quello che vale per gli individui, i singoli, vale a maggior ragione, secondo me, per uno Stato, per una società o anche per una piccola comunità.

Che hanno il diritto sacrosanto di difendersi dai pericoli potenziali che attentano alla loro pacifica convivenza e, quindi, di limitare la libertà di chi l’ha offesa o anche solo (potenzialmente) la minaccia.

Uno Stato, una società, una comunità non possono riabilitare e neanche liberare da un’eventuale detenzione chi si è reso colpevole di un reato senza che ci sia stato un preventivo pentimento da parte del reo.

Anzi non lo possono (e, a mio avviso, non lo debbono) fare, se questo pentimento non è stato attentamente, approfonditamente, adeguatamente esaminato ed accertato, attraverso un percorso, necessariamente non breve, non troppo spicciativo, di riabilitazione e di reinserimento sociale.

Infatti, a mio avviso, il bene e l’interesse di una comunità vengono prima, precedono nella scala dei valori, quelli del singolo componente della comunità.

A maggior ragione se questo singolo si è reso colpevole di un reato che ha offeso, ferito, danneggiato la sua comunità.

Non solo nessun perdono è possibile, ma nessuna riabilitazione è lecita, è ammissibile, laddove non ci sia stato un preventivo e (ripeto) sufficientemente accertato pentimento del reo.

Meno che mai ovviamente possono essere presi in considerazione laddove da parte del reo si manifesti una perdurante disposizione o addirittura manifesta dichiarazione a voler continuare a delinquere.

Qui ogni riferimento all’odierna attualità non è per niente casuale, ma coscientemente pensato e voluto.

© Giovanni Lamagna

Un altro mondo è possibile

Non mi sono mai rassegnato al mondo nel quale vivo, così com’è.

Ho sempre desiderato un mondo diverso, migliore: più libero, più giusto, più fraterno.

Un mondo possibile, ma altro da quello che è attualmente.

E resto convinto che un altro mondo sia possibile e realizzabile.

Dipende solo dalla volontà e dall’impegno degli uomini e delle donne che lo abitano.

© Giovanni Lamagna

Sull’educazione del fanciullo.

Per Montaigne il fanciullo dovrà essere educato innanzitutto a quei “ragionamenti… che regolano i suoi costumi e il suo buon senso. Che gli insegneranno a conoscersi e a saper ben morire e ben vivere.” (“Saggi”, Libro I, cap. XXVI, pag.147).

Io condivido sostanzialmente questa affermazione, ma la modificherei un poco, mettendo il “ben vivere” prima del “ben morire”; per me, infatti, non si può imparare a ben morire, se non si è prima imparato a ben vivere.

E a tal fine – concordo pienamente con Montaigne – ci sono scienze e arti utili ed altre che lo sono molto meno o per nulla, cose che vale la pena di apprendere e praticare con metodo e impegno ed altre che è meglio ignorare e tralasciare del tutto.

© Giovanni Lamagna