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Non tutti quelli che vi aspirano sono predisposti, adatti a diventare psicoterapeuti.

In un colloquio del 21 novembre 1958 Carl Gustav Jung così riferisce alla sua collaboratrice Aniela Jaffé, che ne ha raccolto le parole:

Ho una capacità immediata di immedesimarmi negli altri, cosicché mi posso identificare con “n’importe qui”. Riesco a sentirmi, per così dire, sulla sua lunghezza d’onda. Mi sono sempre meravigliato che altre persone non riescano a farlo, e ho pensato che ciò sia dovuto a una mancanza di fantasia. Oppure che siano troppo rigidamente imprigionate nella propria linea personale.

A volte mi spavento nel vedere con quanta immediatezza io riesca a entrare nelle sensazioni vissute da altri esseri umani. Mi ci trovo semplicemente dentro, senza far nulla attivamente al riguardo. Io so poi esattamente quali sentimenti provino gli altri, soprattutto coloro che presentano qualche aspetto difficile da comprendere. Ne osservo magari l’andatura. Imito dentro di me il modo in cui camminano o come muovono le mani, e in questo modo scopro quali sentimenti si instaurino in me.

Un appellativo del Buddha, Tathagata, significa letteralmente “colui che così va”: colui che si muove in modo molto caratteristico. Questa è proprio l’espressione che indica l’individualità specifica di ciascuno. Il modo in cui uno cammina è molto peculiare. È essenzialmente la situazione umorale del momento che viene espressa nell’andatura; e questo mi colpisce a livello subliminale.

Dato che sono sufficientemente sicuro di me, posso lasciarmi andare a tali identificazioni; so di poterne uscire di nuovo. Io mi identifico con l’altro e lo riconosco, ma la cosa non riesce a sopraffarmi. Lei potrebbe restarne sommersa e ne sarebbe danneggiata; io invece ne riemergo come da un’onda di risacca.

(da Aniela Jaffé; “In dialogo con Carl Gustav Jung”; Bollati Boringhieri 2023; p. 149-150)

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In questo scritto viene fuori una straordinaria dote umana di Jung, di cui egli parla con molta semplicità e naturalezza, senza alcuna presunzione, ma, allo stesso tempo, con grande lucidità e consapevolezza: la capacità (possiamo anche dire innata) di leggere nel cuore degli altri, di intuirne stati d’animo e problematiche.

In altre parole l’empatia, termine oggi molto usato, forse persino abusato; dal momento che pochi poi in realtà la posseggono; come lo stesso Jung, maliziosamente, tra le righe sembra lasciare intendere.

Qui la prima riflessione che mi viene da fare è questa: non è l’empatia una dote/qualità che tutti gli psicoterapeuti dovrebbero possedere, in partenza, ancora prima di iniziare i loro studi e il loro percorso di formazione?

A cosa potranno, infatti, servirgli le nozioni apprese a scuola prima e all’Università poi e i corsi di formazione specialistica successivi, se ad un futuro psicoterapeuta manca questa dote/qualità di base, fondamentale?

Seconda riflessione: quanti psicoterapeuti, con tanto di laurea e corsi di specializzazione postlaurea, posseggono (anche solo a livelli ordinari) la qualità empatica di cui parla qui Jung e che lui aveva in maniera straordinaria e, forse, come dote innata?

A mio avviso, anzi a mia conoscenza, ben pochi!

Terza riflessione: non tutti sono adatti a fare gli psicoterapeuti; come non tutti – lo dico en passant – sono adatti a fare gli insegnanti; ci vogliono doti umane naturali e in un certo senso innate, che ben difficilmente si possono acquisire con lo studio e con la formazione; anche con le migliori intenzioni e con la migliore disposizione della volontà.

Lo studio e la formazione le possono affinare, arricchire, ma non le possono generare, creare, se esse non ci sono, in qualche modo e misura, già in partenza.

Non basta, dunque, desiderare o aspirare a fare lo psicoterapeuta o l’insegnante; bisogna esservi anche in qualche modo naturalmente predisposti.

© Giovanni Lamagna

Psicoterapia e conversione.

Una psicoterapia che non si ponga l’obiettivo primario di realizzare una vera e propria “conversione” della persona che vi si accinge per me non è una vera psicoterapia.

È una psicoterapia superficiale, per modo di dire: una psicoterapia all’acqua di rose.

In questo senso per me il processo terapeutico ha qualcosa di iniziatico, anzi aggiungo perfino di religioso, anche se di una religione del tutto laica e individuale, senza dogmi, chiese, sacerdoti e templi.

D’altra parte, perché una persona si decide a fare una psicoterapia, coi costi economici, di tempo e di impegno energetico che essa comporta?

Evidentemente perché sta male!

E perché sta male?

Perché evidentemente ha introiettato (in genere, sin dall’infanzia) contenuti psichici (emozioni, effetti, sentimenti, pensieri, fedi) che non hanno un sano, corretto rapporto con la realtà.

E, di conseguenza, assume abitualmente, cronicamente, comportamenti insani e fa scelte sbagliate in modo (a volte compulsivamente) reiterato.

Di fronte a un quadro simile, cosa si propone uno psicoterapeuta, quando prende in analisi un paziente?

Con tutta evidenza, a mio avviso, due cose: innanzitutto quella di aiutare la persona che si rivolge a lui in cerca di aiuto a prendere consapevolezza dei contenuti psichici che sono alla base del suo malessere.

E di conseguenza, successivamente, stimolarla, aiutarla, accompagnarla a modificare i comportamenti e le scelte sbagliate che da quei contenuti psichici insani (perché privi di un rapporto sano con la Realtà) derivano.

Questo cosa comporta, cosa implica?

Un cambiamento quasi sempre (ma io sarei portato a eliminare il “quasi”) radicale (e non superficiale) del modo di vivere precedente, degli stili di vita fino ad allora praticati.

E cosa sarebbe questo cambiamento, se non quella che una volta avremmo chiamato, semplicemente e senza alcun imbarazzo, “conversione”, nel senso religioso del termine?

Ora io sono pienamente consapevole che la conversione, in termini religiosi, va intesa come un passaggio da una vita senza fede (atea o agnostica) ad una vita nella fede (in un Dio trascendente) o da una fede religiosa precedente (ad esempio, mussulmana) ad un’altra fede religiosa (ad esempio, cristiana); con tutto quello che questo comporta in termini pratici ed esistenziali.

La conversione di cui parlo qui, invece, quella che può realizzarsi in psicoterapia e che io considero nei fatti l’obiettivo principale (dichiarato o meno) di una psicoterapia, è il passaggio da una “visione del mondo” nevrotica, perché infondata (cioè senza fondamento nella realtà; e, quindi, psicologicamente scorretta) ad una più sana, perché fondata (sul “principio di realtà”) e, quindi, psicologicamente corretta.

Si tratta di due processi senza ombra di dubbio (non voglio qui creare nessuna confusione) differenti, anzi molto differenti.

Lungi da me, quindi, l’intenzione di sottovalutarne le profonde diversità e volerli identificare, omologare.

Ma come si fa a negare che tra le due “conversioni” (quella psicoterapeutica e quella classica, religiosa) esistano anche delle profonde e altrettanto evidenti analogie?

Come, del resto, in più occasioni hanno avuto modo di evidenziare e dire a chiare lettere fior di psicoterapeuti; tre nomi per tutti: Carl Gustav Jung, Victor Frankl e James Hillman.

© Giovanni Lamagna