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Anoressia e bulimia.
Anoressia e bulimia sono le due facce della stessa medaglia.
Entrambe sono la manifestazione esplosiva di una storia infantile infelice, di un cattivo e insoddisfacente rapporto con la madre, con la Cosa materna, specie col seno della madre.
La bulimia, che è la tendenza a ingozzarsi senza limiti, tende a recuperare ossessivamente e maniacalmente il seno materno, per superare l’angoscia della mancanza e della insoddisfazione evidentemente vissuta nella fase orale dell’infanzia.
L’anoressia, al contrario, per il timore di rivivere questa angoscia, per non sperimentare nuovamente il dramma del rifiuto, fa una scelta opposta a quella bulimica: opera quindi un taglio estremo con l’alimentazione.
Rinuncia radicalmente al suo bisogno/desiderio e in questo modo si illude di sfuggire all’angoscia di rivivere, risperimentare l’esperienza primaria, quella del rifiuto vissuto da bambina, del cattivo rapporto col seno materno.
© Giovanni Lamagna
Anoressia e castità.
La “scelta” anoressica mi ricorda la scelta per la castità.
In entrambi i casi si tratta di una scelta (di una rinuncia) drastica, radicale, totalitaria.
Cambia solo l’oggetto.
Nel primo caso l’oggetto a cui si rinuncia è il cibo.
Nel secondo è il sesso.
Le due scelte, a mio avviso, hanno molte analogie.
Entrambe – mi pare – vogliano affermare la presunzione dell’autonomia, dell’autosufficienza, dell’ “io basto a me stessa” da parte della persona che le fa.
Entrambe – mi pare – esprimano (o nascondano o sottintendano) un’idea (a volte un vero e proprio delirio) di onnipotenza.
© Giovanni Lamagna
Le ragioni di un amore o di un’amicizia.
Non vedo altre ragioni che possano o debbano motivarci a intraprendere una relazione (parlo qui delle relazioni d’amore o di amicizia) se non queste: che la relazione sia piacevole, gratificante, ci faccia star bene, non lenisca soltanto la nostra solitudine, ma dia un qualche senso (fosse anche piccolo) alla nostra vita, l’accompagni, aiutandoci a crescere, ad evolvere.
Le altre eventuali motivazioni (ad esempio, l’interesse economico o l’imposizione da parte di altri o delle circostanze della vita, quelle che alcuni sintetizzano nella parola “destino”) non fondano una vera relazione; ma solo una pseudo-relazione, una relazione solo esteriore, apparente; certamente non fondano una relazione di amore o di amicizia, che, per sua natura, presuppone una scelta libera, autonoma e disinteressata quanto agli aspetti materiali del rapporto.
Sorge, quindi, spontanea la domanda: quando una relazione, nata come relazione di amore, non è più piacevole, non è più gratificante, non ci fa stare bene, non dà più un senso alla nostra vita, non ci fa più crescere ed evolvere, ma semmai ci impantana, ed è diventata una relazione di prevalente compagnia fisica, che evita solo lo squallore della solitudine più totale, può ancora essere definita come relazione di amore o anche di amicizia?
© Giovanni Lamagna
Sul film di Matteo Garrone “Io, capitano”.
Ho appena visto (ieri sera) “Io, capitano” di Matteo Garrone.
Ma quale film capolavoro?
Dov’è il capolavoro?
A me sembra – cosa che va molto di moda in questi tempi; basti pensare allo spot della Esselunga di cui tanto si è parlato e scritto recentemente – la solita utilizzazione a fini spettacolari (e commerciali) di una delle maggiori tragedie umane del nostro tempo: quella degli immigrati che cercano di sfuggire alla vita miseranda dei loro Paesi di origine, per inseguire il sogno di una vita diversa in Europa, quella che hanno intravista attraverso i loro telefonini e la televisione.
Non ci ho avvertito il pathos, la tensione narrativa delle vere opere artistiche: quelle del neorealismo italiano, tanto per intenderci, dei Rossellini, dei De Sica, del primo Fellini.
Non ci ho visto insomma il dramma reale, anche se esso ci veniva gettato in faccia a piene mani attraverso una sequenza continua di immagini molto crude, alcune di assoluta crudeltà: è rimasta una distanza tra me spettatore e la vicenda narrata.
Forse un regista come Garrone pensa che basti trasmettere immagini spettacolari di una tragedia per comunicare allo spettatore anche la sensazione, il senso profondo della tragedia?
No, non è così; realizzare cinematograficamente o teatralmente un dramma non è operazione così semplice; lo sapevano bene i grandi tragici Greci: Eschilo, Sofocle, Euripide; che, non a caso, il più delle volte alludevano agli aspetti cruenti del fatto narrato, senza bisogno di sbatterlo in faccia agli spettatori, come se ciò di per sé servisse ad aumentare il loro coinvolgimento emotivo.
La riprova forse più eclatante della scarsa partecipazione personale, spirituale, dell’autore alla vicenda narrata è data dalla scelta delle musiche, che mi pare mai avessero realmente a che fare, come tono emotivo, con le immagini che accompagnavano; erano – a me è sembrato – del tutto scollegate e, quindi, stonate; servivano solo a dare enfasi allo spettacolo (non alla tragedia) che si svolgeva sotto i nostri occhi.
Per concludere sinteticamente: a me questo film non è piaciuto per niente; ne do pertanto un giudizio nettamente negativo.
© Giovanni Lamagna
La scelta della castità.
La scelta della castità da parte dei preti e dei religiosi è motivata – tra l’altro – dall’idea che nell’altra vita, dopo la morte, non esisterà più il sesso, saremo tutti esseri angelicati, quindi asessuati.
La castità vorrebbe essere quindi un’anticipazione di quella che sarà la vita ultraterrena, un’anticipazione della “beatitudine” di cui godremo in Paradiso, nel contatto, nell’unione con Dio.
Se ne deduce che, anche in questa vita, si dovrebbe vivere meglio essendo casti che non essendolo.
Ma quelli che hanno fatto una tale scelta possono davvero affermare una cosa simile: di essere più felici di coloro che hanno una normale vita sessuale?
Ho i miei dubbi.
Quindi che senso ha fare una simile scelta, fosse anche per amore di Dio?
© Giovanni Lamagna
Ci sono fatiche e fatiche, sofferenze e sofferenze, sacrifici e sacrifici.
Io ritengo che ci siano fatiche e fatiche, come sofferenze e sofferenze, sacrifici e sacrifici.
Una cosa è la fatica, il sacrificio, alle volte perfino la sofferenza, funzionali a raggiungere un determinato obiettivo, un certo scopo, che, una volta raggiunti, saranno poi per noi fonti di piacere, a volte di gioia, in certi casi addirittura di vera e propria felicità, insomma di realizzazione e appagamento, per quanto parziali, della nostra vita.
Parlo qui ovviamente di questa vita, questa vita terrena, non un’ipotetica vita futura, ultraterrena, post mortem.
In questo caso la fatica, i sacrifici, la sofferenza sono spesso ineludibili, i passaggi necessari, indispensabili, per raggiungere una condizione di vita che presumiamo, almeno nelle aspettative, superiore a quella nella quale ci troviamo prima di affrontarli.
La fatica del giovane che si vuole laureare, la fatica del lavoratore che vuole ottenere una promozione, la fatica di chi sta scrivendo un libro, la fatica e i sacrifici dell’atleta che si allena per una gara: sono questi citati (ma se ne potrebbero ovviamente fare mille altri) esempi di fatiche, di sacrifici (a volte vere e proprie sofferenze) che hanno un senso, perché sono passaggi obbligati in vista del raggiungimento di un obiettivo concreto, realistico, da raggiungere entro l’orizzonte terreno di questa vita.
Altra cosa è desiderare e perseguire il dolore, la sofferenza, il sacrificio, metaforicamente la croce, in sé, (almeno apparentemente) fini a sé stessi: mettersi, ad esempio, il cilicio o dormire sulla nuda terra; come hanno fatto alcuni mistici nel passato e forse fa ancora oggi qualcuno.
Questo può avvenire, per quello che ne capisco io, solo per due motivi: o per espiare una colpa (vera o presunta che sia) o per raggiungere un premio ultraterreno.
Anche in questi due casi, dunque, possiamo dire che la sofferenza non è un fine in sé, ma un mezzo, una via, ritenuti congrui rispetto ad un fine che si vuole raggiungere, che non è mai la sofferenza in sé.
In altre parole non si sceglie, non si “ama” la croce in sé, ma si ama e si desidera quello che ci attende dopo essere passati per la “via crucis”.
E però, in entrambi questi casi, la scelta è, comunque, quanto meno discutibile.
Infatti, la colpa non si cancella (almeno a mio avviso) con questo tipo di espiazione; il modo migliore di saldare i conti con una colpa commessa non è quello di autoflagellarsi, ma quello di cambiare vita, impegnandosi a non ricadere mai più in quella stessa colpa.
Nel secondo caso non ha senso rinunciare ai piaceri e alle gioie concreti (e certi) che sono alla nostra portata, nella vita che oggi stiamo vivendo, nella prospettiva/attesa di piaceri e gioie (incerti) che potrebbe destinarci una (solo presunta) vita futura.
Nessuna fede, infatti, ma solo un cieco fanatismo, ci dà la certezza che una vita futura, dopo la morte, compenserà i sacrifici compiuti nella vita attuale.
Solo un latente (ma a volte manco tanto latente) masochismo può spiegare una simile scelta.
© Giovanni Lamagna
Bisogna mettere in conto gli imprevisti!
Per quanto uno di noi possa tendere (per temperamento innato o per formazione acquisita) a prevedere tutto, a immaginare le cose il più possibile preventivamente, a progettare anche i minimi particolari di una situazione (ad esempio, di una scelta), ci sarà sempre qualcosa che sfuggirà ai nostri calcoli, che ci troverà impreparati e, alcune volte, senza immediate soluzioni a portata di mano per i problemi che ci si presentano innanzi.
Questa (anche questo) è la vita: l’imprevedibilità!
© Giovanni Lamagna