Archivi Blog

Il contemplativo e la sapienza.

Non c’è forse frase più bella per definire l’atteggiamento interiore del contemplativo che questa: “Maria serbava in sé tutte queste cose, meditandole in cuor suo.” (Luca 2; 19).

Il contemplativo è, infatti, uno che, in un certo momento della sua vita, ha ricevuto una rivelazione e la custodisce poi in cuor suo, come un tesoro, meditandoci sopra.

E da quella prima illuminazione (custodita, coltivata e meditata) ne sgorgano, ne zampillano poi, come da una sorgente continua, cento, mille altre, cui fanno seguito pensieri e parole di sapienza.

© Giovanni Lamagna

I libri e la sapienza.

Dice Jung nel “Libro rosso” (p. 268): “Sai bene che un libro lo si può leggere molte volte… Magari lo conosci quasi a memoria, e tuttavia, se riguardi le righe che ti stanno davanti, certe cose ti appariranno nuove oppure ti verranno pensieri del tutto nuovi, che non avevi avuto prima. Ogni parola può fecondare il tuo spirito. E infine, se hai accantonato il libro per una settimana e torni a riprenderlo dopo che il tuo spirito ha sperimentato varie trasformazioni, avrai molte nuove illuminazioni.”.

È verissimo!

Questo, però, non succede con tutti i libri, ma solo con quelli che contengono parole di sapienza.

E non tutti i libri – diciamoci la verità – contengono parole di sapienza.

La parola sapiente si rinnova continuamente e, quindi, ha sempre nuove cose da dirci.

Questo non succede, invece, con la parola che è erudita, ma non sapiente.

E ciò non deve meravigliare.

Ci sono, infatti, parole sapienti che non sono erudite e parole erudite che non sono sapienti.

© Giovanni Lamagna

Confessione privata.

Avverto uno stridore fortissimo e costante, quasi ininterrotto, tra quello che è il mondo attorno a me (da quello immediatamente più vicino a me – casa mia, i miei affetti più cari – a quello più lontano, anche migliaia di chilometri lontano, da me) e il mondo come – immagino, idealizzo – dovrebbe essere, come mi piacerebbe che fosse, come desidererei che fosse.

Insomma, mi sento un mezzo disadattato.

Questo stridore vedo, avverto, ha, da qualche tempo, delle ripercussioni anche fisiche, soprattutto nella pancia, come se l’intestino stesse sotto una tensione costante, quasi permanente, e facesse fatica a rilassarsi, a distendersi; insomma, a stare bene.

Me lo conferma il fatto che, quando vado a letto la sera; questa tensione psicofisica scompare quasi immediatamente; il sonno mi ristora; almeno il primo sonno, quello che dura quattro/cinque ora e che è profondo, tutto sommato sereno.

Poi, passato il primo sonno, vado in uno stato di dormiveglia e alle volte faccio brutti sogni; qualche volta persino angosciosi; o mi assalgono pensieri tristi, malinconici, specie negli ultimi tempi.

E, allora, quasi sempre all’alba o anche prima, sono costretto ad alzarmi; mi dedico, quindi, a un po’ di autoanalisi (quasi sempre su quanto ho vissuto il giorno precedente), a qualche lettura che mi tiri su, alla meditazione.

E così inizio bene, in genere abbastanza bene, la mia giornata.

Ma, quando vengo preso dal solito trantran quotidiano, riprendono piede lo stato d’animo e, di conseguenza, i sintomi fisici di cui prima; e questo fino alla sera.

Per fortuna, nel corso della giornata ci sono anche momenti “altri”: una passeggiata, la conversazione con un amico o un’amica, un film, uno spettacolo teatrale, la presentazione di un libro, un evento politico, ogni tanto l’incontro coi miei nipotini…

E in questi momenti il mio animo e, per conseguenza, il mio corpo si rilassano, distendono: sono momenti che benedico.

Ma sono sempre troppo pochi e troppo brevi, rispetto a quelli che desidererei e di cui, forse (o senza forse), avrei bisogno.

Non so bene perché ho messo in pubblico questo mio pezzo di privato.

O, forse lo so, ma non ne sono sicuro.

So solo, per certo, che me ne è venuta voglia e perciò l’ho fatto.

Nella speranza di non essere compatito, ma solo compreso.

Grazie a chi mi ha dedicato la sua attenzione.

……………………….

p. s. voglio solo aggiungere a questa piccola “confessione privata” che di grande conforto mi sono nel corso della giornata la lettura e la scrittura; non a caso ad esse dedico lunghe ore, lettura e scrittura occupano gran parte della mia giornata.

Per cui posso definirmi una persona fondamentalmente solitaria, mentre amerei essere una persona anche, se non fondamentalmente, socievole, che ama stare in compagnia degli altri.

La mia compagnia fondamentale, invece, sono le persone che hanno scritto i libri che leggo e quelle alle quali idealmente scrivo, nella speranza che almeno qualcuna di esse talvolta incroci le cose che scrivo e le legga.

© Giovanni Lamagna

Cosa vuol dire studiare?

E’ certo, anche leggere libri, articoli e saggi.

E’ certo anche andare a lezioni ed ascoltare conferenze!

Ma studiare non è solo e neanche innanzitutto questo.

Studiare vuol dire prima di tutto esercitare la propria attitudine a riflettere, pensare, porsi domande e provare a darsi delle risposte.

Leggere, ascoltare persone dotte e sapienti, senza essersi poste prima domande e senza elaborare poi pensieri autonomi, non è studiare.

È, tutt’al più, incamerare nozioni.

© Giovanni Lamagna

Il viso che abbiamo ce lo facciamo noi.

Sono convinto che col tempo, col passare degli anni, ognuno di noi in qualche modo si costruisca, quasi scolpisca, la faccia, il volto che si ritrova.

Lo fa coltivando prevalentemente certe emozioni e non altre, certi sentimenti e non altri, certi pensieri e non altri.

E così accadrà che alcuni si ritroveranno con un viso in prevalenza luminoso, altri con un viso prevalentemente rabbuiato.

Alcuni con un viso allegro e, persino, gioioso.

Altri con un viso triste e malinconico.

Alcuni con uno sguardo profondo e meditativo.

Altri con l’occhio distratto e superficiale.

Ognuno di noi si ritroverà – ad un certo punto della sua vita – con il viso che si sarà costruito nel corso del tempo.

© Giovanni Lamagna

Psicoterapia e conversione.

Una psicoterapia che non si ponga l’obiettivo primario di realizzare una vera e propria “conversione” della persona che vi si accinge per me non è una vera psicoterapia.

È una psicoterapia superficiale, per modo di dire: una psicoterapia all’acqua di rose.

In questo senso per me il processo terapeutico ha qualcosa di iniziatico, anzi aggiungo perfino di religioso, anche se di una religione del tutto laica e individuale, senza dogmi, chiese, sacerdoti e templi.

D’altra parte, perché una persona si decide a fare una psicoterapia, coi costi economici, di tempo e di impegno energetico che essa comporta?

Evidentemente perché sta male!

E perché sta male?

Perché evidentemente ha introiettato (in genere, sin dall’infanzia) contenuti psichici (emozioni, effetti, sentimenti, pensieri, fedi) che non hanno un sano, corretto rapporto con la realtà.

E, di conseguenza, assume abitualmente, cronicamente, comportamenti insani e fa scelte sbagliate in modo (a volte compulsivamente) reiterato.

Di fronte a un quadro simile, cosa si propone uno psicoterapeuta, quando prende in analisi un paziente?

Con tutta evidenza, a mio avviso, due cose: innanzitutto quella di aiutare la persona che si rivolge a lui in cerca di aiuto a prendere consapevolezza dei contenuti psichici che sono alla base del suo malessere.

E di conseguenza, successivamente, stimolarla, aiutarla, accompagnarla a modificare i comportamenti e le scelte sbagliate che da quei contenuti psichici insani (perché privi di un rapporto sano con la Realtà) derivano.

Questo cosa comporta, cosa implica?

Un cambiamento quasi sempre (ma io sarei portato a eliminare il “quasi”) radicale (e non superficiale) del modo di vivere precedente, degli stili di vita fino ad allora praticati.

E cosa sarebbe questo cambiamento, se non quella che una volta avremmo chiamato, semplicemente e senza alcun imbarazzo, “conversione”, nel senso religioso del termine?

Ora io sono pienamente consapevole che la conversione, in termini religiosi, va intesa come un passaggio da una vita senza fede (atea o agnostica) ad una vita nella fede (in un Dio trascendente) o da una fede religiosa precedente (ad esempio, mussulmana) ad un’altra fede religiosa (ad esempio, cristiana); con tutto quello che questo comporta in termini pratici ed esistenziali.

La conversione di cui parlo qui, invece, quella che può realizzarsi in psicoterapia e che io considero nei fatti l’obiettivo principale (dichiarato o meno) di una psicoterapia, è il passaggio da una “visione del mondo” nevrotica, perché infondata (cioè senza fondamento nella realtà; e, quindi, psicologicamente scorretta) ad una più sana, perché fondata (sul “principio di realtà”) e, quindi, psicologicamente corretta.

Si tratta di due processi senza ombra di dubbio (non voglio qui creare nessuna confusione) differenti, anzi molto differenti.

Lungi da me, quindi, l’intenzione di sottovalutarne le profonde diversità e volerli identificare, omologare.

Ma come si fa a negare che tra le due “conversioni” (quella psicoterapeutica e quella classica, religiosa) esistano anche delle profonde e altrettanto evidenti analogie?

Come, del resto, in più occasioni hanno avuto modo di evidenziare e dire a chiare lettere fior di psicoterapeuti; tre nomi per tutti: Carl Gustav Jung, Victor Frankl e James Hillman.

© Giovanni Lamagna

Coscienza e in-coscienza.

La nostra coscienza – potremmo dire – è fatta a multistrati.

Da uno strato di consapevolezza piena, più o meno estesa a seconda delle persone.

E da strati via, via sempre più decrescenti di consapevolezza, sempre meno consapevoli e sempre più inconsapevoli, che vanno dal preconscio al subconscio.

Fino all’ inconscio puro: uno strato di coscienza che comunque è in grado di muovere e guidare le emozioni, i pensieri e le azioni, ma senza che il soggetto cosciente (o, meglio, in-cosciente) ne sia padrone.

© Giovanni Lamagna

Difficoltà a parlare e scrivere.

Non è vero, a mio avviso, che l’incapacità di parlare o di scrivere in maniera adeguata dipenda (innanzitutto) dalla mancanza o carenza di strumentazione tecnica: la conoscenza del lessico, dell’ortografia, della grammatica e della sintassi…

Io credo che dipenda piuttosto e innanzitutto dalla difficoltà/incapacità di entrare in contatto con i propri pensieri, i propri sentimenti, le proprie emozioni, con le proprie pulsioni primarie.

Insomma da una carenza di vita interiore o da una sua scissione.

È questa incapacità di vedere e di leggere pensieri, sentimenti, emozioni, pulsioni, che sicuramente abitano in ognuno di noi, che ci rende difficile (o, addirittura, impossibile) trovare le parole e la loro giusta disposizione per dirli/e, esprimerli/e.

Se questa incapacità o queste difficoltà, che sono di natura psicologica, vengono superate, si risolvono, in maniera quasi automatica, anche la incapacità o le difficoltà di natura tecnica a parlare e scrivere.

© Giovanni Lamagna

Da cosa nasce la scrittura?

Non ci sono dubbi: “… la scrittura nasce sempre da una perdita, da una complicazione del vivere e dal desiderio di compensare il dolore che essa provoca.”; come giustamente scrive Fabrizio Coscia a pag. 27 del suo “Soli eravamo” (Ad Est dell’Equatore 2015)

Io voglio aggiungere che la scrittura, il bisogno di scrivere nasce anche e spesso dalla solitudine, da una profonda solitudine, e dal bisogno conseguente di lenire il dolore della solitudine, trovando conforto in chi si spera leggerà le cose che scriviamo e magari ce ne rimanderà qualche riscontro.

Ma, forse, innanzitutto e soprattutto, trovando la compagnia di noi stessi nel momento in cui ci ritroviamo davanti a una pagina e proviamo a trasferire su di essa (quasi alter-ego) i nostri stati d’animo e pensieri di quel momento.

© Giovanni Lamagna

Leggere è meditare.

Nella vera lettura le parole penetrano in noi profondamente, non ci scivolano addosso, come acqua sulla pietra.

Le emozioni, i sentimenti e i pensieri, che ci raggiungono mentre leggiamo, diventano carne della nostra carne e, in qualche misura, più o meno grande, ci trasformano.

La vera lettura è in fondo sempre una meditazione delle cose lette.

E meditare è come mangiare.

Mangiare non è solo ingurgitare il cibo, ma anche, anzi soprattutto, digerirlo, assimilarlo.

Non a caso il cibo non digerito, non assimilato, dopo un po’ viene espulso (vomitato) dal nostro organismo, che lo sente estraneo a sé e, quindi, lo rifiuta.

Allo stesso modo leggere non è solo far scorrere delle parole sotto i nostri occhi, ma anche, anzi soprattutto, farle entrare dentro di noi, assimilarle, in qualche modo digerirle.

Altrimenti non stiamo davvero leggendo; stiamo solo vivendo un passatempo come un altro, più o meno frivolo e superficiale.

© Giovanni Lamagna