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Etica della responsabilità ed etica della convinzione.
Anche a non voler considerare la menzogna una virtù o, quanto meno, una dote, un’abilità, dell’uomo politico (vedi ciò che ne pensavano Platone, Machiavelli, Hannah Harendt), non si può di certo negare che l’uomo politico sia tenuto spesso alla riservatezza, alla diplomazia, in altre parole a non poter dire sempre e comunque ciò che sa o che pensa (vedi ciò che afferma Gramsci in proposito: “Quaderni del carcere”; pp. 669-700).
L’intellettuale, invece, per definizione è tenuto a dire sempre ciò che pensa, a dire cioè la verità o, meglio, quello che egli ritiene sia la verità.
Sempre e comunque, a qualunque costo; pena tradire la sua funzione specifica.
L’intellettuale non ha interessi superiori di cui tener conto, se non la verità come valore assoluto.
Da questo punto di vista il “politico” e l’ “intellettuale” hanno deontologie molto diverse.
Gli intellettuali, quindi, possono, anzi devono, costituire la coscienza critica, il pungolo morale dei politici.
Perché essi hanno una libertà, un’assenza di vincoli sociali, che i politici non hanno, non possono permettersi.
Potremmo concludere – prendendo a prestito due espressioni oramai divenute classiche di Max Weber – che, mentre i politici sono tenuti ad agire prevalentemente secondo “l’etica della responsabilità”, gli intellettuali sono tenuti ad agire prevalentemente secondo “l’etica della convinzione”.
© Giovanni Lamagna
Lettera aperta a Franco Arminio.
Caro Franco, mi piace, sono contento e condivido che nei tuoi discorsi ritorni continuamente questa parola bellissima: “comunità”.
Credo, oramai da parecchio tempo, che essa dovrebbe diventare (o, meglio, tornare ad essere, anche se in forme del tutto nuove) sempre più la parola fondamentale di un nuovo vocabolario politico, di una nuova visione del mondo, azzarderei a dire anche di una nuova “ideologia”, se quest’ultima parola non si fosse oramai usurata nel corso dell’ultimo secolo e non fosse perciò diventata oramai inutilizzabile.
Dovrebbe diventare il perno di una nuova cultura politica assieme alla parola “persona”, che è cosa ben diversa da quella di “individuo”.
L’individuo è, infatti, un atomo sperso nel vuoto dell’universo mondo; anzi è il singolo che combatte, compete con l’altro singolo, è l’homo homini lupus: è la parola chiave dell’ideologia liberista, per la quale non solo non esiste e non si può formare una comunità, ma non esiste manco la società (ricordi la Thatcher?).
La persona è, invece, il singolo che si è fatto e si fa continuamente comunità assieme agli altri, a coloro con i quali condivide un territorio, ma anche – seppure solo virtualmente, ma non meno concretamente – con tutti i suoi fratelli dell’unica e stessa Madre Terra.
Questa nuova visione del mondo – nella quale “locale” e “globale” sarebbero le due facce di un’unica medaglia – dovrebbe chiamarsi perciò “comunitarismo”.
Che è cosa ben diversa dal “comunismo”, nel quale la persona spariva in nome degli interessi “superiori” della massa, della società; e spesso veniva oppressa, a volte annientata, in nome di quegli interessi.
Nel comunitarismo la persona non sparisce per niente, perché gode degli stessi diritti ed è debitore degli stessi doveri della comunità.
Anzi all’interno della comunità la persona è valorizzata al massimo, la persona è il fondamento stesso della comunità.
Non so se queste parole ti esprimono?
Conoscendoti abbastanza, sono propenso a pensare di sì.
Unito in una comune campagna culturale (la parola “battaglia” non mi piace”) ti auguro una felice Pasquetta,
Giovanni Lamagna
Sulle somiglianze e sulle differenze tra gli uomini e gli animali.
Ieri mattina ho pubblicato su facebook questo post:
Vita e consapevolezza della vita.
La Vita vive e va avanti di per sé, a prescindere dalla consapevolezza che ne abbiamo.
Tanto è vero che già esisteva prima che nascessimo ed esisterà anche dopo che saremo morti.
Addirittura anche dopo che il mondo (il nostro piccolo mondo, il pianeta Terra) si sarà estinto.
Come siamo piccoli ed infinitesimali di fronte al mistero infinito della Vita!
E, però, la Vita comincia ad acquisire un senso (che è poi l’unica cosa che conta davvero per noi) solo nel momento in cui cominciamo a dare un nome alle cose, ad utilizzare il linguaggio, ad avere quindi consapevolezza del nostro essere vivi.
Sta tutta qui la differenza (e che differenza!) tra noi e una pietra, tra noi e una pianta, tra noi ed un animale.
Gli animali vivono e muoiono senza aver avuto nessuna consapevolezza di aver vissuto.
Non so – a dire il vero – se questo sia un bene o un male; ma così è, senza ombra di dubbio.
Una mia amica (D. M.) lo ha commentato così:
“Sul fatto che gli animali non si rendano conto di essere vivi però non sono d’accordo. Sanno dimostrare gioia, tristezza ed empatia, sanno quando devono morire e hanno paura della morte, direi che sono molto più consapevoli di quanto possa sembrare.”
Da questo commento è scaturito un dialogo che riporto integralmente, perché mi è apparso di un certo interesse:
G. L.: Non ho detto che gli animali non hanno sentimenti… ma la consapevolezza, a mio modesto avviso, è altra cosa dalle emozioni e dai sentimenti…
D. M.: Secondo me invece sono strettamente collegati. Forse la forma mentale in cui questa consapevolezza li abita è diversa da qualcosa che noi immaginiamo, ma io non credo affatto che in loro non ci sia.
G. L.: L’animale non SA di dover morire… SENTE che sta morendo, quando viene il suo momento… ma “sentire” e “sapere” sono due cose diverse, molto diverse…
D. M.:Quando arriva il veterinario a casa e il cane sceglie un posto dove stendersi vicino ai famigliari, decide chi vuole vicino nel momento in cui morirà. Se non è consapevolezza questa.
G. L.: Sapere significa anche prevedere… sapere di dover morire significa in qualche modo “vivere per la morte”, come diceva Heidegger… questo atteggiamento è totalmente precluso all’animale… il quale sicuramente soffre, se vede un suo simile morire… ma non sa che prima o poi toccherà anche a lui la stessa sorte… poi quando starà in fin di vita, in agonia, forse in quel momento sentirà di stare per morire… si renderà conto di qualcosa di cui fino ad allora, però, non aveva avuto consapevolezza…
D. M.: La mia esperienza con gli animali dice cose diverse, rispetto il tuo punto di vista, ma per me la cosa è diversa.
G. L.: Anche io rispetto il tuo, ma con tutta la considerazione che ho per gli animali, faccio fatica a non vedere (e mi meraviglio che tu non la veda) la profonda differenza che passa tra la natura dell’animale e quella dell’uomo… con i vantaggi e gli svantaggi che esse comportano per gli uni e per gli altri…
D. M.: Il fatto che siano diversi non vuol dire inferiori o privi di coscienza. La natura ci accomuna agli animali molto più di altre cose che noi siamo riusciti ad inventarci per credere di essere diversi, “superiori”…
G. L.: Non ho mai detto che siano “inferiori”; in natura ogni essere e persino ogni cosa ha il suo ruolo e la sua funzione… non ha senso, quindi, parlare di “inferiori” e “superiori”… riconosco che anche gli animali hanno una qualche forma di coscienza… e, infatti, noi apparteniamo al loro stesso genere… ma, certo, la “coscienza” degli altri animali non raggiunge i livelli di complessità dell’animale uomo…
© Giovanni Lamagna
Ideali e centralità della vita.
La vita umana può trovare senso e unità solo nella dedizione ad una causa, a un ideale, a un compito, a una vocazione, che in qualche modo la trascendano.
Ma questa causa, questo ideale, questo ideale, questa vocazione, non dovranno mai negare il valore, anzi la centralità, della vita umana.
E non la vita umana come concetto astratto, ideologico: ovverossia la vita dell’Umanità come specie.
Nel nome della quale (quasi come nel nome di Dio) gli uomini hanno compiuto i peggiori delitti e si sono resi colpevoli delle peggiori efferatezze.
Ma la vita umana intesa come singola vita umana, quella che si incarna in ogni singolo individuo della specie, anche il più piccolo e apparentemente insignificante.
Anche l’ideale più grande, la più nobile delle cause, non potranno e non dovranno mai prescindere dal principio che la vita di ogni uomo è il fine e non il mezzo per altri fini, presunti superiori.
© Giovanni Lamagna