Archivi Blog

Fuga.

Tutti quanti noi abbiamo la tendenza a far “cadere” i discorsi che ci rivolgono gli altri quando essi ci pungolano su questioni che per noi sono “zona rossa”, “vietata” o “a traffico limitato”.

“Far cadere” nel senso di interrompere la conversazione in corso, cambiando argomento o, addirittura, allontanandosi dal proprio interlocutore piuttosto bruscamente.

È un meccanismo classico di difesa o, meglio, di fuga: si chiama “rimozione” o “evitamento”.

© Giovanni Lamagna

Lo snodo decisivo di ogni psicoterapia.

È il movimento che accade in ogni analisi: il soggetto incontra una verità che rifiutava accanitamente, pur dichiarando di averla voluta ricercare con tutte le sue forze. Questa verità coincide con il peggio di noi stessi.” (Massimo Recalcati; “Il segreto del figlio”; Feltrinelli 2017; p.53)

Io mi permetto di aggiungere: questa verità/rivelazione può essere talmente luminosa, solare, abbagliante, da accecare; da costituire quindi un trauma simile, pari per intensità, a quello da cui era derivata la rimozione della verità, che aveva poi provocato la nevrosi.

Tanto è vero che l’analisi, giunta a questo punto, può impantanarsi.

Perché da un lato il soggetto vuole sapere, in quanto inconsciamente coglie che, se non scopre la verità su sé stesso, egli non sarà mai libero (“…la verità vi farà liberi”; Vangelo di Giovanni 8, 32).

Dall’altro ha la sensazione che la scoperta della verità può essere talmente traumatica per lui da sommergerlo, da provocargli un tracollo psicotico peggiore della nevrosi da cui voleva guarire.

In questo snodo l’analisi gioca il suo esito, che non può mai essere dato per scontato quando inizia un percorso terapeutico.

Questo esito sarà positivo, evolutivo, progressivo, se il paziente sarà in grado di affrontare e reggere il peso della verità su sé stesso.

Sarà negativo, involutivo e regressivo, se il paziente non avrà il coraggio e la forza di reggerlo e vi si sottrarrà, preferendo continuare a coltivare illusioni su sé stesso.

© Giovanni Lamagna

Angoscia e rimozione.

I più preferiscono vivere in una perenne distrazione, lontananza da sé, per non andare al cuore dell’angoscia che abita nel profondo delle loro anime.

Per non prenderla di petto e guardarla bene in faccia.

Pochi preferiscono affrontarla, attraversarla, per non dico sconfiggerla, ma quantomeno domarla, tenerla sotto controllo, impedire che essa li travolga.

Nonostante i tentativi di tenerla lontana, rimuoverla.

© Giovanni Lamagna

Sigmund Freud e la pulsione del genere umano a cercare la perfezione.

Nel suo libro del 1920 “Al di là del principio di piacere” (Biblioteca Boringhieri, 1975) Sigmund Freud, ad un certo punto, così scrive: “Prescindendo dalle pulsioni sessuali, è sicuro che non esistano altre pulsioni all’infuori di quelle che vogliono ripristinare uno stato precedente? Non ce ne sono altre che si sforzano di creare una situazione che non era mai stata raggiunta prima? Non conosco, nel mondo organico, alcun esempio sicuro che potrebbe contraddire alla caratterizzazione da noi proposta.

Non è possibile constatare con certezza l’esistenza di una pulsione universale che spinge gli esseri viventi verso un più alto sviluppo; tuttavia è innegabile che il mondo animale e vegetale presentano di fatto un’evoluzione in questo senso.

Ma da un lato spesso le nostre valutazioni per cui consideriamo certe fasi evolutive superiori ad altre sono puramente soggettive e d’altro lato la biologia ci insegna che la più alta evoluzione sotto un certo aspetto è assai spesso compensata o bilanciata da un’involuzione da un altro punto di vista… (pag. 68)

… può essere difficile, per molti di noi, rinunciare a credere che nell’uomo sia insita una pulsione che lo spinge a cercare la perfezione, una pulsione che lo ha elevato fino all’attuale livello di capacità intellettuale e di sublimazione etica e dalla quale ci si può attendere l’evoluzione dell’uomo a superuomo.

Solo che io non credo nell’esistenza di questa pulsione interiore e non vedo in che modo si possa far salva questa benefica illusione.

Mi pare che l’evoluzione del genere umano fino a questo momento non abbia affatto bisogno di una spiegazione diversa da quella che vale per gli animali; quell’infaticabile impulso verso un ulteriore perfezionamento che si può osservare in una minoranza di individui umani può essere facilmente spiegato come una conseguenza della rimozione pulsionale su cui si basa la civiltà umana in tutto ciò che ha di più valido e prezioso.

La pulsione rimossa non rinuncia mai a cercare il suo pieno soddisfacimento…; tutte le formazioni sostitutive e reattive, tutte le sublimazioni non potranno mai riuscire a sopprimere la sua persistente tensione…” (pag. 69)

Qui Freud fa una vera e propria affermazione apodittica, quasi fideistica, anche se di una fede all’incontrario: “… io non credo nell’esistenza di questa pulsione interiore”.

Freud, insomma, afferma molto perentoriamente di non credere “… che nell’uomo sia insita una pulsione che lo spinge a cercare la perfezione…”.

Però, poi, non fornisce alcuna spiegazione, né di tipo sperimentale, né basata sull’osservazione empirica, né motivata da argomentazioni logiche di un dato di cui pure riconosce, ammette l’esistenza, per quanto solo “in una minoranza di individui umani”.

Fa, come ho poc’anzi detto, un’affermazione del tutto apodittica, quasi dommatica; come definire, infatti, le seguenti parole, già da me citate: “io non credo nell’esistenza di questa pulsione interiore e non vedo in che modo si possa far salva questa benefica illusione.”?

Per lui questa pulsione a cercare la perfezione può essere spiegata solo come conseguenza della rimozione dal suo primo e originario obiettivo: quello sessuale; il perché, però, questa pulsione si allontani dal suo primo e originario obiettivo non lo dice, non lo argomenta.

Ora ammettiamo pure che la sua prima e unica spiegazione sia giustificata, fondata; Freud, però, non spiega perché essa (rimozione) si verifichi di fatto, realmente e innegabilmente, per quanto solo “in una minoranza di individui umani”; corrisponda cioè a comportamenti, a decisioni e scelte di vita ben reali e non a pure fantasticherie o sogni o astrazioni o illusioni.

Restano, in altre parole, le seguenti domande: perché in alcuni individui la pulsione libidica viene rimossa e sublimata e si traduce in una spinta al perfezionamento intellettuale ed etico? quale fattore tipicamente umano (non presente nelle altre specie animali, come evidenzia lo stesso Freud) determina questa rimozione/sublimazione?

E qui – mi dispiace dover contraddire Freud – la risposta non può che essere questa, se non per evidenza scientifica, quantomeno per deduzione logica: evidentemente nell’uomo esiste un’ulteriore pulsione, oltre alla libidica e alla coazione a ripetere (le uniche pulsioni che Freud riconosce): la pulsione ad elevarsi, a migliorarsi, a trascendersi, se non proprio a cercare la perfezione.

D’altra parte, se non fosse così, non si spiegherebbe l’esistenza storica di persone (tra le quali lo stesso Freud), che hanno dedicato in passato e dedicano anche oggi la loro vita alla scienza, cioè al progresso dell’Umanità, a volte sacrificando altri tipi di pulsioni, pur del tutto legittime.

E quella di altri uomini che hanno dedicata e dedicano la loro vita all’arte, alla filosofia, alla filantropia.

L’esistenza di questi fenotipi umani (gli scienziati, gli artisti, i filosofi, i filantropi) sono dati di fatto, di realtà, che, per quanto si voglia avere una visione realistica (io preferisco dire cinica) della vita, non si possono negare o ignorare.

E, se esistono, devono avere una loro motivazione e spinta, che non possono essere date (come, invece, tende a ritenere Freud) dalla semplice sublimazione di un istinto primario, comune agli altri animali.

Se esistono, hanno origine, scaturigine, a mio avviso, in una vera e propria pulsione, autonoma e distinta dalle altre, unicamente e tipicamente umana: la pulsione, se non proprio a cercare la perfezione, quantomeno ad elevarsi, a trascendersi, a superare la pura e originaria condizione animale.

© Giovanni Lamagna

Intimità e distanza.

Avviene talvolta che il rapporto tra due persone raggiunga un coinvolgimento sensuale, emotivo, affettivo, intellettuale, persino erotico, molto, forse troppo, alto.

Perché inatteso, in quanto non ricercato.

Allora una delle due persone o entrambe se ne ritraggono, quasi spaventate da questa specie di onda che le ha raggiunte e quasi trascinate con sé, se non proprio travolte.

Senza che lo avessero previsto.

Il risultato è una specie di distanziamento, quasi di raffreddamento e rimozione dell’esperienza vissuta, speculari e opposti al coinvolgimento sensuale, emotivo, affettivo, intellettuale ed erotico sperimentato.

Come se ci si volesse riprendere da una specie di stordimento o di ubriacatura, che ci ha destabilizzato; ci si volesse ricomporre e ritornare in sé.

Niente di strano, anzi tutto molto normale: noi abbiamo bisogno di intimità, di sentire il calore che ci dà il rapporto con gli altri, ma anche di mantenere le distanze nel rapporto, di preservare i nostri confini.

Sarebbe importante, bello, però, se di questa dinamica diventassimo consapevoli e, meglio ancora, ne parlassimo con coloro con i quali ci capita di viverla.

© Giovanni Lamagna

Vivere erotico

Il nostro modo di vivere (mi verrebbe di definirlo “il nostro stile di vita”) si muove sempre in continuità con la nostra pulsione sessuale.

Non potrebbe, d’altra parte, essere altrimenti: la libido è la nostra pulsione fondamentale, quella che dà la spinta e l’energia primarie all’intera nostra vita.

C’è, però, un modo di vivere che è, in buona sostanza, una rimozione o, nel migliore dei casi, una sublimazione totale della pulsione sessuale.

Anche se ne è del tutto inconsapevole o solo molto parzialmente consapevole.

E’ un modo di vivere che distorce, in qualche modo potremmo anche dire “perverte” la pulsione sessuale.

C’è, poi, un altro modo di vivere, che, invece, si muove in perfetta continuità e coerenza con la pulsione sessuale, pure quando fa tutt’altro dal sesso.

Tutto quello che fa è un modo di vivere il sesso con altri mezzi e in altre forme.

E ne è, per giunta, pienamente consapevole, lo fa con piena lucidità.

Questo secondo modo di vivere io lo definisco “erotico”, anche quando non è esplicitamente sessuale.

Il primo, invece, è il contrario, la negazione di quello che intendo per e definisco “un modo erotico di vivere la propria vita”.

Ovviamente, per quanto mi riguarda, va preferito questo secondo modo di vivere: è di gran lunga più sano, oltre che più felice.

© Giovanni Lamagna

Perché i più rinunciano a realizzare il loro potenziale.

3 aprile 2016

Perché i più rinunciano a realizzare il loro potenziale.

La psicologia umanistica e quella transpersonale sostengono (e, a mio avviso, con molta ragione) che la maggior parte delle persone realizza al massimo il 30% del proprio potenziale umano.

E questo perché preferisce “dormire” (in senso metaforico, ovviamente) o, nella migliore delle ipotesi, campare in uno stato di mezza veglia o mezzo sonno.

Che si manifesta in mille forme. Qui ne indico solo alcune, quelle che mi sembrano le più eclatanti e diffuse:

– una scarsa concentrazione e attenzione alla realtà (tanto è vero che almeno una parte degli incidenti – ad esempio, le cadute – di cui siamo vittima possono essere attribuiti a questo modo di vivere);

– una inclinazione a razionalizzare, a vivere in una dimensione prevalentemente o puramente mentale, intellettuale;

– una incapacità ad emozionarsi;

– all’opposto, una tendenza ad essere succubi delle emozioni, incapaci di controllarle e di gestirle;

– il ricorso alle droghe, da quelle più leggere a quelle più pesanti;

– il sottoutilizzo del proprio senso critico, l’accontentarsi di sposare idee prese in prestito dai mass media o, peggio, il ricorso agli stereotipi e ai luoghi comuni;

– lo scarso senso civico;

– il disinteresse a partecipare alla convivenza civile attraverso un impegno politico attivo.

Viene da chiedersi: perché? perché la maggior parte degli esseri umani propende a vivere così? (Dire “sceglie” di vivere così sarebbe un ossimoro, contraddittorio con la premessa da cui sono partito).

Perché propende a vivere così, dal momento che in questo modo si perde – con tutta evidenza – il meglio?

Un po’ come succederebbe a un viaggiatore che restasse per tutto il tempo del viaggio a dormire nell’albergo dove ha trovato alloggio o camminasse per le strade e i luoghi che andasse a visitare con gli occhi socchiusi, non del tutto aperti.

Ci deve essere una risposta a questa domanda. Che cosa spiega un tale atteggiamento?

L’unica risposta che riesco a trovare è che la realtà fa paura, vedere le cose come stanno provoca ansia e, in qualche caso, perfino angoscia.

Avere consapevolezza (per fare solo un esempio, quello più estremo) che la nostra vita, per quanto bella e soddisfacente, si concluderà inevitabilmente, prima o poi, con la morte, può ingenerare perfino terrore e, quindi, fuga da tale consapevolezza, rimozione di questo pensiero.

Inoltre stare sempre concentrati, vivere cioè pienamente l’attimo presente, comporta una fatica, uno sforzo, almeno all’inizio, quando non si è abituati a farlo.

Ecco allora che, per difendersi dalla paura, dall’ansia e dall’angoscia, per evitare lo sforzo dell’impegno e vincere la pigrizia, si preferisce campare in uno stato di incoscienza o di semi-coscienza, in una condizione di indolente torpore.

Ovviamente in questo modo ci si protegge (forse) dalla paura, dall’ansia e dall’angoscia (anche se queste poi spesso si manifestano in altre forme e per altre vie: insoddisfazione, noia, disgusto, nausea, mancanza di empatia, incapacità di entrare in relazione profonda con gli altri, apatia, rinuncia all’eros, astenia o, perfino, impotenza sessuale, depressione più o meno profonda).

Allo stesso modo si evitano sforzi e fatiche (anche se, poi, paradossalmente spesso si è stanchi lo stesso).

Ma, nello stesso momento e in pari grado, ci si impedisce di godere appieno di tutte le cose belle della vita o, meglio, delle cose migliori della vita.

Che richiedono, per essere apprezzate, lo sguardo vigile, l’orecchio attento, la mente sveglia, l’animo aperto, un impegno attivo e costante, anche se faticoso.

Giovanni Lamagna