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Il senso della vita.

Voglio sperare (o, forse, illudermi) che il senso della vita stia nel lasciare, dopo il nostro (breve) passaggio su questa terra, una qualche traccia di sé, sia pur minima, sia pure infinitesimale.

Ovviamente una traccia positiva, in grado di generare un sia pur minimo, infinitesimale miglioramento del mondo, rispetto a come lo abbiamo trovato, quando siamo nati.

Non vedo, non riesco a trovare altre ragioni per vivere.

© Giovanni Lamagna

Psicoterapia e conversione.

Una psicoterapia che non si ponga l’obiettivo primario di realizzare una vera e propria “conversione” della persona che vi si accinge per me non è una vera psicoterapia.

È una psicoterapia superficiale, per modo di dire: una psicoterapia all’acqua di rose.

In questo senso per me il processo terapeutico ha qualcosa di iniziatico, anzi aggiungo perfino di religioso, anche se di una religione del tutto laica e individuale, senza dogmi, chiese, sacerdoti e templi.

D’altra parte, perché una persona si decide a fare una psicoterapia, coi costi economici, di tempo e di impegno energetico che essa comporta?

Evidentemente perché sta male!

E perché sta male?

Perché evidentemente ha introiettato (in genere, sin dall’infanzia) contenuti psichici (emozioni, effetti, sentimenti, pensieri, fedi) che non hanno un sano, corretto rapporto con la realtà.

E, di conseguenza, assume abitualmente, cronicamente, comportamenti insani e fa scelte sbagliate in modo (a volte compulsivamente) reiterato.

Di fronte a un quadro simile, cosa si propone uno psicoterapeuta, quando prende in analisi un paziente?

Con tutta evidenza, a mio avviso, due cose: innanzitutto quella di aiutare la persona che si rivolge a lui in cerca di aiuto a prendere consapevolezza dei contenuti psichici che sono alla base del suo malessere.

E di conseguenza, successivamente, stimolarla, aiutarla, accompagnarla a modificare i comportamenti e le scelte sbagliate che da quei contenuti psichici insani (perché privi di un rapporto sano con la Realtà) derivano.

Questo cosa comporta, cosa implica?

Un cambiamento quasi sempre (ma io sarei portato a eliminare il “quasi”) radicale (e non superficiale) del modo di vivere precedente, degli stili di vita fino ad allora praticati.

E cosa sarebbe questo cambiamento, se non quella che una volta avremmo chiamato, semplicemente e senza alcun imbarazzo, “conversione”, nel senso religioso del termine?

Ora io sono pienamente consapevole che la conversione, in termini religiosi, va intesa come un passaggio da una vita senza fede (atea o agnostica) ad una vita nella fede (in un Dio trascendente) o da una fede religiosa precedente (ad esempio, mussulmana) ad un’altra fede religiosa (ad esempio, cristiana); con tutto quello che questo comporta in termini pratici ed esistenziali.

La conversione di cui parlo qui, invece, quella che può realizzarsi in psicoterapia e che io considero nei fatti l’obiettivo principale (dichiarato o meno) di una psicoterapia, è il passaggio da una “visione del mondo” nevrotica, perché infondata (cioè senza fondamento nella realtà; e, quindi, psicologicamente scorretta) ad una più sana, perché fondata (sul “principio di realtà”) e, quindi, psicologicamente corretta.

Si tratta di due processi senza ombra di dubbio (non voglio qui creare nessuna confusione) differenti, anzi molto differenti.

Lungi da me, quindi, l’intenzione di sottovalutarne le profonde diversità e volerli identificare, omologare.

Ma come si fa a negare che tra le due “conversioni” (quella psicoterapeutica e quella classica, religiosa) esistano anche delle profonde e altrettanto evidenti analogie?

Come, del resto, in più occasioni hanno avuto modo di evidenziare e dire a chiare lettere fior di psicoterapeuti; tre nomi per tutti: Carl Gustav Jung, Victor Frankl e James Hillman.

© Giovanni Lamagna

Gelosia, amore e narcisismo.

Io penso che la gelosia, oltre che un sentimento da inscrivere tra le psicopatologie, sia anche un sentimento da considerare molto stupido.

Per due ordini di motivazioni legate a due ipotesi alternative.

La prima ipotesi è che la donna verso cui provo attrazione e amore, non ricambi il mio amore, oppure che l’abbia provato in passato, ma ora non lo provi più.

In una simile ipotesi che senso ha che io pretenda il suo amore?

L’amore, per definizione, è un sentimento libero, che o si prova spontaneamente o non si può provare in altra maniera; meno che mai si può provare per imposizione.

Che gusto c’è, quindi, a pretendere l’amore, quando esso non è provato “sponte sua”?

Come d’altra parte e a maggior ragione (me lo sono chiesto tante volte) che gusto o piacere si può provare nello stuprare una donna; una donna che mentre tu la violenti fa di tutto per respingerti?

Misteri dell’animo umano!

L’amore per sua natura è l’incanto, mi verrebbe da dire perfino il miracolo, dell’incontro spontaneo tra due desideri.

Che amore è, dunque, quello che, invece di incontrare il desiderio dell’altro o dell’altra, si scontra col rifiuto dell’altro/a?

La seconda ipotesi, quella alternativa alla prima, è che la donna che io amo ricambi il mio amore, che mi ami a sua volta e senza ombra di dubbi.

In questo caso che senso ha, che ragion d’essere ha, la mia gelosia?

Il fatto che altri uomini possano trovare attraente e desiderabile la donna che amo perché dovrebbe ingelosirmi?

Non sarebbe questa un’ulteriore conferma del suo valore di persona?

E, allora, perché mi dovrebbe dare fastidio o, addirittura, ferirmi?

Non dovrebbe, invece e piuttosto, lusingarmi, lusingare in qualche modo il mio narcisismo, che sempre si lega (è inutile negarlo!) al sentimento dell’amore.

E qui veniamo ad un’altra (non piccola) questione, che voglio però affrontare solo di passaggio; dunque l’accennerò appena.

Chi nega l’esistenza di una componente narcisistica in amore, in realtà, la nasconde a sé stesso e si dimostra uno sciocco, che può diventare addirittura pericoloso.

Negarlo è solo un poco lungimirante mettere la testa sotto la sabbia.

Perché, invece, se fossimo più consapevoli del nostro strutturale narcisismo, forse saremmo meglio in grado di tenerlo, almeno in qualche misura, a bada, sotto controllo.

D’altra parte è talmente vero che narcisismo e amore sono indissolubilmente legati, che quando questo narcisismo viene ferito perché la persona che amo non corrisponde al mio amore, in alcune situazioni estreme, che possiamo con buone ragioni definire patologiche, questo narcisismo ferito può portare a gesti estremi, come i femminicidi, di cui le cronache sono così spesso costrette ad occuparsi.

E in questi giorni ne stiamo avendo, purtroppo, l’ennesima conferma.

© Giovanni Lamagna

Coppie in crisi e ricerca di alternative.

Ci sono rapporti di coppia che sono in evidente crisi.

Chi vi è coinvolto è portato allora naturalmente a cercare altrove.

Questa fase e questo passaggio sono molto rischiosi.

Perché non è detto che ciò che si trova altrove sia molto migliore di quello che già si ha e che è in crisi.

Potrebbe essere migliore per certi aspetti, ma peggiore per altri.

Bisogna allora andare a verificare con prudenza i pro e i contro, prima di buttarsi a capofitto in una nuova relazione.

© Giovanni Lamagna

Riproduzione fisica e riproduzione spirituale.

Credo che in ognuno di noi alberghi il desiderio recondito (effimero? vano?), potremmo dire anche l’ambizione, di lasciare un’eredità, un segno del proprio passaggio su questa terra.

Propendo a pensare che questa volontà e questo desiderio siano in qualche modo collegati alla funzione biologica e istintiva della riproduzione, sia quella materna che quella paterna.

Esiste dunque il desiderio di una riproduzione fisica che si manifesta e realizza nella procreazione dei figli.

Ma esiste anche il desiderio di una riproduzione spirituale, culturale, intellettuale, che per alcuni è ancora più importante di quella fisica.

Corrisponde al bisogno di lasciare traccia di noi, di quello che abbiamo sperimentato, capito, compreso in questo viaggio/passaggio sulla terra, da destinare come mappa cognitiva a coloro che ci sopravvivranno o addirittura nasceranno dopo di noi.

Nel vagheggiamento che le persone, alle quali presumiamo di lasciare questa nostra testimonianza, ce lo riconosceranno mentre siamo ancora in vita o ce ne saranno grati post mortem, quando non ci saremo più.

Forse questo desiderio è del tutto illusorio, perciò nevrotico o addirittura un po’ folle; ma (tant’è!) questo desiderio ad alcuni di noi li aiuta a vivere, a dare un senso e una ragione alla loro esistenza.

© Giovanni Lamagna

Vuoto e pieno, silenzio e chiasso

Ci sono persone che per far notare la loro presenza o il loro passaggio devono necessariamente fare quanto più rumore è possibile attorno a sé.

Che riempia o, meglio, nasconda il vuoto e l’imbecillità di cui sono fatte.

Ad esempio, faccio solo un esempio, sparare i fuochi d’artificio, spendendo centinaia e, a volte, migliaia di euro, alla mezzanotte del 31 dicembre.

Ci sono, invece, persone (ma purtroppo sono la minoranza) che non hanno bisogno di fare tanto rumore: la loro presenza e il loro passaggio si impongono da sole.

Sono come circondate da un’aura di pienezza e di saggezza.

Queste persone è impossibile non notarle, se si è minimamente interessati alla saggezza e alla sapienza e non ai fuochi fatui dell’apparenza.

© Giovanni Lamagna

I gesti della preghiera

Ci sono certi gesti che in tutte le epoche hanno significato e in tutte le latitudini significano ancora una qualche forma di preghiera, se per preghiera intendiamo un atteggiamento universale, che accomuna (possiamo dirlo) tutti gli uomini (per certi aspetti anche i laici), di fronte al mistero e, in alcuni casi, al dramma della vita.

Ne indicherò alcuni (quelli che a me sembrano i principali, perché i più ricorrenti) e cercherò poi di decodificarne sinteticamente il significato, cioè il senso che essi possono avere nel linguaggio del corpo che è loro proprio, anche dal punto di vista di chi non crede in un’entità ultraterrena, ma ne coglie comunque il valore in qualche modo universale:

  1. congiungere le mani;
  2. piegare il capo;
  3. socchiudere gli occhi;
  4. elevare gli occhi al cielo;
  5. allargare le braccia;
  6. inginocchiarsi;
  7. piegare il busto in avanti all’altezza del bacino dopo essersi inginocchiati;
  8. stendersi a terra con tutto il corpo supino in avanti;
  9. camminare.

1.Il congiungere le mani ha per me il significato simbolico di congiungere, ricomporre in unità le diverse parti di sé; esprime fisicamente un bisogno di concentrazione, di unificazione interiore, spirituale. Che ha un valore e un significato anche per chi non si rivolge a nessuna divinità.

2. Piegare il capo è un gesto di umiltà, di predisposizione all’ascolto, specie della propria verità e del proprio daimon interiore, di accettazione e, in certi casi perfino di sottomissione, al proprio destino.

3. Socchiudere gli occhi esprime il bisogno di allontanarsi, almeno momentaneamente, dal mondo visibile che ci circonda per entrare meglio in contatto col mondo invisibile che è dentro di noi. Lo può fare e talvolta lo fa anche un laico, quando vuole concentrarsi e non essere oggetto di distrazioni.

4. Elevare gli occhi al cielo sta ad indicare il bisogno di guardare a un mondo e a un destino che ci sovrasta e di cui dobbiamo tener conto nel nostro sentire, pensare e agire; può esprimere anche la semplice tensione, connaturata a tutti gli umani, non necessariamente religiosi, a trascendersi, a superare se stessi.

5. Allargare le braccia esprime il desiderio di accogliere dentro di sé l’universo mondo e allo stesso tempo il desiderio di farsi accogliere, quasi abbracciare, dallo stesso; in altre parole un desiderio di unità e di comunione.

6. L’inginocchiarsi è un gesto ancora più potente dell’inchinare il capo. E’ il segno dell’affidamento profondo al mistero che ci sovrasta e che tutti ci contiene.

7. Il piegare il busto in avanti all’altezza del bacino, dopo essersi inginocchiati, esprime con ancora maggiore forza il senso di sottomissione che già denotava l’inginocchiamento.

8. Lo stendersi a terra con tutto il corpo supino in avanti è il gesto che esprime al massimo il sentimento dell’umiltà, termine che non a caso deriva dal latino  “humus”, cioè “terra”.

Sta a significare: io non sono altra cosa dalla terra su cui sono poggiato, anzi steso: mi affido e abbandono totalmente alla volontà del Dio o del destino che mi sovrasta.

9. Anche il camminare può essere un momento e un atteggiamento di preghiera: i monaci che si recano in processione in chiesa, col loro camminare solenne, lento e consapevole già stanno pregando, ancora prima di iniziare la loro preghiera formale.

Una volta nei nostri quartieri si svolgevano ed ancora oggi in alcuni paesi si svolgono delle processioni, soprattutto nel corso di alcune festività religiose, che erano e sono a pieno titolo una forma di preghiera, un modo di manifestare anche con il corpo la propria devozione o adorazione del mistero che viene celebrato nell’occasione specifica.

Il camminare lento, consapevole, meditativo, a volte addirittura contemplativo, magari in mezzo ad un bel paesaggio e a contatto con la natura, anche per un laico è la metafora fisica di una consapevolezza tutta spirituale: siamo di passaggio su questa terra e abbiamo un compito da realizzare, quello di mettere in atto le nostre potenzialità, di evolvere, di essere sempre in cammino, appunto.

© Giovanni Lamagna