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Figlio/a di zoccola!

A Napoli si usa appellare spesso qualcuno o qualcuna con l’espressione “sei un figlio (o una figlia) di zoccola!”.

A volte con un’intenzione chiaramente offensiva e dispregiativa.

Più spesso col tono affettuoso di chi sta a fare addirittura un complimento.

Perché dico questo?

Per evidenziare che (anche) nella cultura popolare il termine “zoccola” ha una valenza quantomeno ambivalente.

Può significare una persona del tutto negativa: volgare, rozza, moralmente inaffidabile, una persona che si prostituisce.

Ma può anche significare (e più spesso significa) una persona in gamba, una persona con i giusti attributi (e qui non mi riferisco solo a quelli sessuali, anche se pure a quelli), una persona che sa quello che vuole e sa farsi valere; in svariati campi.

© Giovanni Lamagna

Non basta voler amare. Bisogna imparare ad amare.

Non basta volere amare.

Ancora meno basta dire “Ti amo”.

Occorre, si deve, sapere amare, per amare davvero.

Occorre, insomma, tradurre l’intenzione di amare, il sentimento dell’amore, in atti effettivi di amore, di cura, attenzione, rispetto, interesse, ascolto, verso la persona che si dice di amare, che si desidera amare.

Infatti, quasi sempre in noi – come ci ha insegnato la psicoanalisi, specie Jung, che sosteneva l’esistenza in noi di una duplice personalità – c’è una persona che vuole una cosa e una persona che ne vuole un’altra, a volte addirittura una opposta alla prima.

C’è, dunque, una persona che ama effettivamente e una persona che, se non arriva proprio ad odiare (anche se, alle volte, arriva persino a questo), di certo non ama per davvero.

Ora, fin quando questa seconda persona è viva, attiva in noi, fin quando non sfumerà, non si dissolverà, perché sarà stata sconfitta, domata e resa inerme, l’amore in noi, il nostro amore sarà sempre in conflitto con sentimenti che ad esso si oppongono e, quindi, sarà disturbato, incerto, ambivalente, a volte impotente, come paralizzato.

Ne consegue che non basta volere amare.

Bisogna imparare ad amare, bisogna fare dell’amore una “costruzione”, come dice una bella canzone di Ivano Fossati.

L’amore in noi non è, affatto, un moto spontaneo, naturale, scontato, come i più ritengono: se io provo amore per una persona, allora la sto anche amando.

No, non è così, non è così semplice.

In amore non si nasce già imparati, l’amore si deve imparare, si deve apprendere.

Come diceva il grande Eric Fromm, l’amore è un’arte.

Che, come tutte le arti, si apprende, bisogna apprendere.

Se non ci sono, però, la giusta volontà, il desiderio fermo e non oscillante, la decisione forte e non più contrastata di andare alla scuola dell’amore, l’amore non si apprende, rimane in noi una pia intenzione, che non si realizza poi nei fatti.

La volontà e il desiderio di amare non diventano capacità effettiva di amare.

Come spiega bene Luigi Zoja (in “Nascere non basta. Iniziazione e tossicodipendenza”; 1985, Raffaello Cortina Editore), “L’innamoramento… nasce dall’inconscio. Ma… ha poi bisogno di forza di volontà, di forza dell’Io, per trasformarsi da fantasia autistica in evento reale che assolve una funzione rinnovatrice.”

E diventare, quindi, amore.

“L’amore – afferma ancora Zoja – poco alla volta, non dovrebbe essere più vissuto come “trasporto”, come qualcosa di esterno all’Io, come spinta dell’inconscio che ci trasporta. Va spostato nell’Io.”

In altre parole anche qui – come ci ha insegnato Freud – all’Es (l’amore come forza dell’inconscio, puro “trasporto” e “fantasia autistica”) dovrà subentrare l’Io (l’amore come forza conscia, della volontà; e, quindi, “evento reale”).

© Giovanni Lamagna

Il problema riguarda SOLO gli uomini?

Nella rubrica che tiene quotidianamente sul “Corriere della Sera”, quella del 2 giugno 2023, Massimo Gramellini così scrive:

“La procuratrice della Repubblica Letizia Mannella esorta le donne a non recarsi all’ultimo appuntamento con il maschio violento. Saggia precauzione, ma più che sul comportamento delle vittime vorrei accendere l’attenzione su quello dei carnefici. Giulia Tramontano era perfettamente consapevole di quanto balordo fosse Alessandro Impagnatiello: ne aveva scoperto la doppia vita, al punto da accettare un incontro con l’altra ragazza a cui aveva ingarbugliato l’esistenza. Le due donne rimaste incinte dello stesso uomo si erano date appuntamento al bar dove Impagnatiello lavorava.

Il loro colloquio rappresenta una sorta di manifesto: mentre Giulia e l’altra ragazza parlavano, e parlando acquisivano ancora più coscienza della situazione, era colui che le aveva ingannate a rifiutare il confronto e a scappare dal locale per prepararsi a spezzare sul nascere quel patto di solidarietà femminile, assassinando una delle due «alleate» che ostacolavano il libero dipanarsi del suo egoismo. È verità mai abbastanza ribadita che la violenza sulle donne è un problema che riguarda anzitutto gli uomini. Quelli che crescono con una concezione distorta dell’amore, visto come possesso degli altri, anziché come cessione di sé. Se i genitori riuscissero a insegnare almeno questo ai figli maschi, darebbero un rinnovato senso al loro ruolo di educatori. Impresa molto difficile perché l’educazione sentimentale non si trasmette con i libri e tantomeno con le prediche. Funziona solo con l’esempio.”

Capisco quello che dice Gramellini e lo condivido in buona parte, ma non condivido del tutto il suo pensiero e l’analisi che vi sottende.

A mio sommesso avviso, (lo dico, con la voce flebile e con la coda in mezzo alle gambe, che dovremmo avere sempre noi maschi, quando parliamo di questi argomenti) il problema sicuramente “riguarda anzitutto gli uomini”, ma non riguarda SOLO gli uomini, riguarda ANCHE le donne.

Se, infatti, alcune donne, ancora oggi, si fanno abbindolare da uomini simili, vuol dire che hanno un problema pure loro: questo se vogliamo chiamare le cose col loro nome.

L’assassino di cui stiamo parlando (come tutti i maschi che compiono femminicidi) è indubbiamente un “mostro”, ma i mostri non sono del tutto altro da noi, come i pazzi non sono del tutto altro da noi; questo ci ha insegnato Basaglia.

I mostri stanno anche dentro ognuno di noi; quindi i mostri stanno anche dentro le povere donne che evidentemente se li vanno a cercare anche fuori di loro; non sembri oltraggioso tale giudizio, anche se mi rendo conto di primo acchito può sembrare tale.

Non si spiegano altrimenti l’infatuazione che le prende di fronte a certi uomini e l’accondiscendenza con cui soggiacciono alle loro angherie, a volte per moltissimo tempo, prima di finire come finiscono.

Ovviamente qui non intendo minimamente assolvere il maschio assassino e quasi rivoltare le responsabilità; anche se (come sempre) prima di emettere condanne sarebbe importante cercare di capire e analizzare.

Sto solo dicendo che (come da più di un secolo ha scoperto e dimostrato la psicoanalisi) c’è un filo di complicità che lega sempre vittima e carnefice.

Per cui bisogna curare (e in maniera possibilmente preventiva, anche se mi rendo conto la cosa non è semplice) sia la vittima che il carnefice.

Non ha senso, quindi, dire (come fa Gramellini in maniera così perentoria e, a mio avviso, un po’ semplicistica, così noi maschi ci facciamo belli con le donne) che il problema è SOLO degli uomini; ovviamente degli ALTRI uomini, perché noi (che scriviamo) siamo diversi, non abbiamo nulla a che fare con i mostri.

Il problema, invece, come sempre in questi casi, è un problema che riguarda le relazioni e le relazioni spesso sono malate, anche quelle che non finiscono in maniera così tragica; occorre prenderne atto.

E, quando sono malate, non lo sono mai solo per responsabilità di uno/a.

Quando le relazioni sono malate le responsabilità sono sempre (in qualche misura; non sto dicendo certo che lo sono – sempre – al 50% e al 50%) di entrambe le persone coinvolte nella relazione.

In questo discorso (il mio può sembrare freddo e, quindi, cinico) non ci devono fare velo la (persino) ovvia, naturale, giusta, sacrosanta pietà che proviamo (e dobbiamo provare) per la vittima; e lo sdegno, il senso di rivolta morale che di conseguenza proviamo verso l’assassino.

Altrimenti rischiamo di cadere nella retorica, che è dannosa non solo perché non ci fa vedere le cose per quelle che sono, ma tende a rimuovere i mostri che sono in ognuno di noi; anche se l’intenzione vorrebbe essere tutt’altra.

© Giovanni Lamagna

Il perdono esige il pentimento.

Il pentimento è una condizione/premessa indispensabile del perdono, per ricevere un perdono.

Senza una reale conversione del cuore non ci può essere perdono.

Il perdono, infatti, non è e non può essere un atto di gratuito e unilaterale buonismo.

Ma è, può essere solo – ammesso che si verifichi, che maturi – la presa d’atto, il riconoscimento di una realtà da parte chi ha ricevuto un’offesa, di chi è stato ferito.

Di quale realtà?

Che chi ha commesso una colpa non è più la stessa persona che l’ha commessa, ma è cambiata profondamente nel cuore; si è pentita profondamente del male commesso; è diventata (spiritualmente, psicologicamente) un’altra persona.

Non importa, dunque, quando avviene il pentimento; il pentimento può anche avvenire – al limite – “in limine mortis”.

Il perdono non conta il tempo in cui si è rimasti nella colpa; non è misurato su questo tempo.

Al perdono basta semplicemente che il pentimento ci sia stato, che la conversione del cuore sia realmente avvenuta.

Il perdono non conosce l’espressione “è troppo tardi!”.

Il perdono preferisce l’espressione “meglio tardi che mai!”.

Il perdono è sempre lì pronto, disponibile a manifestarsi.

Non attende altro che la conversione del cuore di chi ha commesso una colpa.

Purché essa sia reale, sincera.

Questa è l’unica condizione – ma indispensabile, ineludibile – perché il perdono si attivi, si manifesti.

Il perdono non conosce vendetta.

Il perdono è strutturalmente, intrinsecamente, animato dalla misericordia.

La quale si manifesta – per definizione – solo davanti alla miseria della colpa, non certo di fronte allo splendore della virtù.

La virtù, infatti, non ha – come è ovvio – bisogno di misericordia; è la colpa che la invoca.

Purché sia una colpa alla quale segua un pentimento sincero, profondo e adeguato.

Che deve essere, dunque, caratterizzato innanzitutto dal dolore e dal rimorso, proporzionati alla colpa commessa.

E poi dalla intenzione, dalla decisione e dall’impegno sinceri, profondi, non formali, di invertire la rotta, di cambiare vita, di non ricadere più nella stessa colpa.

Questo è il vero pentimento; condizione necessaria, indispensabile, perché ci sia un corrispondente perdono.

Diverso è il perdono che si realizza all’interno del cuore di chi ha ricevuto un’offesa, di chi è stato ferito, addirittura di chi sta per essere ucciso, a prescindere dal pentimento di chi ha offeso, ferito, addirittura ucciso.

Quello, ad esempio, di Gesù, che sulla croce pronuncia la celebre frase “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno!”.

Qui il perdono è un atto unilaterale, che non si manifesta però all’esterno; è il perdono di chi ha elaborato il proprio rancore e l’eventuale desiderio di vendetta.

E’ il sentimento di chi ha fatto pace con se stesso più che con l’altro, con colui che lo ha offeso o ferito o sta per ucciderlo.

Questo perdono – come già detto – può anche prescindere dal pentimento dell’altro; ma è un fatto tutto privato, interiore, che non si manifesta (e, forse, non deve manifestarsi) all’esterno.

Se, infatti, fosse concesso, troppo facilmente, diciamo pure gratuitamente, a chi si è reso autore di una colpa, sarebbe falso, inautentico e, addirittura, controproducente.

Nel senso che ostacolerebbe o, addirittura, forse impedirebbe il necessario percorso di redenzione (che presuppone ineludibilmente il pentimento) di chi ha commesso la colpa per la quale si è disposti a concedere il perdono.

O, magari, lo si è già concesso all’interno del proprio cuore, come atto però del tutto privato, non (ancora) reso pubblico.

Qui – sia detto a completamento della riflessione fin qui svolta – quello che vale per gli individui, i singoli, vale a maggior ragione, secondo me, per uno Stato, per una società o anche per una piccola comunità.

Che hanno il diritto sacrosanto di difendersi dai pericoli potenziali che attentano alla loro pacifica convivenza e, quindi, di limitare la libertà di chi l’ha offesa o anche solo (potenzialmente) la minaccia.

Uno Stato, una società, una comunità non possono riabilitare e neanche liberare da un’eventuale detenzione chi si è reso colpevole di un reato senza che ci sia stato un preventivo pentimento da parte del reo.

Anzi non lo possono (e, a mio avviso, non lo debbono) fare, se questo pentimento non è stato attentamente, approfonditamente, adeguatamente esaminato ed accertato, attraverso un percorso, necessariamente non breve, non troppo spicciativo, di riabilitazione e di reinserimento sociale.

Infatti, a mio avviso, il bene e l’interesse di una comunità vengono prima, precedono nella scala dei valori, quelli del singolo componente della comunità.

A maggior ragione se questo singolo si è reso colpevole di un reato che ha offeso, ferito, danneggiato la sua comunità.

Non solo nessun perdono è possibile, ma nessuna riabilitazione è lecita, è ammissibile, laddove non ci sia stato un preventivo e (ripeto) sufficientemente accertato pentimento del reo.

Meno che mai ovviamente possono essere presi in considerazione laddove da parte del reo si manifesti una perdurante disposizione o addirittura manifesta dichiarazione a voler continuare a delinquere.

Qui ogni riferimento all’odierna attualità non è per niente casuale, ma coscientemente pensato e voluto.

© Giovanni Lamagna

I concetti di “Dio” e di “anima” nel pensiero buddhista.

Dopo aver affermato e, quindi, riconosciuto che il Buddhismo nega sia il concetto di Dio che quello di anima, Vito Mancuso, nel suo “I quattro maestri” (Garzanti; 2020), tra la pag. 194 e la pag. 203, cerca di recuperare entrambi i concetti, come dimensioni di pensiero sostanzialmente, anche se non esplicitamente, presenti nel Buddhismo,

Ma in questo modo, almeno a mio avviso, egli non rende un buon servigio (come, invece, molto probabilmente, era nelle sue intenzioni) al Buddhismo stesso, almeno come pensiero in qualche modo compatibile con l’evoluzione (prevalente) del pensiero filosofico (occidentale) degli ultimi 4/5 secoli.

Cosa dice Mancuso rispetto al concetto di Dio? Egli parte dall’assunto che, quando si parla di Dio, “si intende rimandare a un livello dell’essere diverso rispetto a quello della vita ordinaria, ritenuto più vero, più giusto, più stabile, permanente e non impermanente, pace infinita e non lotta continua.”

E poi aggiunge: “… parlando di Dio si intende anche affermare che questo livello più vero dell’essere, pur essendo totalmente altro, è altresì fortemente intrecciato con il nostro livello dell’essere, così che è possibile accedervi qui e ora, entrarvi in comunione, sperimentarlo, viverne. E’ quanto il Buddha sperimentò con l’esperienza del nirvana…”

Per, infine, concludere, in buona sostanza, che quindi il concetto di “divino” non è affatto estraneo, ma pienamente presente, per quanto solo sottinteso, nel pensiero buddhista.

Qui, almeno in questo passaggio, Mancuso si dimostra un cattivo filosofo, perché identifica, fa coincidere termini ed esperienze diverse, confondendo i concetti, invece di chiarirli.

Innanzitutto fa coincidere il concetto di “divino” con il concetto di “Dio”; mentre i due concetti non coincidono affatto; il “divino” non è “Dio”; perlomeno non è il Dio trascendente, separato da questo mondo, creatore e non creato, eterno, infinito e onnisciente, come lo intende la gran parte delle tradizioni religiose del mondo.

In secondo luogo l’esperienza del “nirvana”, come la descrive il Buddha, è appunto un’esperienza etica, meditativa, ascetica, contemplativa, mistica, ma pur sempre un’esperienza umana, quindi un’esperienza che può essere analizzata con gli strumenti e descritta coi termini della psicologia.

Un’esperienza che potremmo anche definire, in senso lato e metaforico, esperienza del “divino”, ma di un divino che “è qui, ora, in questo mondo; è questo mondo diversamente sperimentato”; non è certo l’esperienza di un mondo altro, diverso, separato, da quello nel quale ora viviamo.

Ora cosa ha a che fare questa esperienza con il concetto di “Dio” classicamente inteso, come ce lo hanno trasmesso le maggiori tradizioni religiose del mondo e perfino la maggioranza delle filosofie dei primi due millenni di storia di questa disciplina di pensiero? A mio avviso, nulla; anzi le è del tutto incompatibile.

Più complesso si fa il discorso relativamente all’anima, sia relativamente a quello che fa Buddha che a quello che fa Mancuso.

Perché, mentre nei confronti dell’esistenza o meno di Dio, – dice Mancuso – “Buddha sospese il giudizio con il suo silenzio, sul concetto di anima egli prese esplicitamente posizione parlando di non-anima, anatman, negò cioè la realtà dell’anima (in sanscrito atman) per affermare piuttosto l’assenza di un sé individuale e permanente. Per il Buddha infatti l’individuo è soltanto un insieme di aggregati impermanenti e il più delle volte ricolmi di sofferenza…”.

Qui manifesto subito il mio accordo con Buddha e, allo stesso tempo, il mio dissenso da lui.

Sono sostanzialmente d’accordo con lui sul fatto che l’individuo, come del resto ogni altra realtà singolare, anche quelle esclusivamente materiali (come, ad esempio, una pietra) siano realtà “impermanenti”, destinate cioè ad avere un inizio e una fine, quindi a non durare in eterno.

Non sono d’accordo, invece, con lui sul fatto che le varie realtà, specie quelle non esclusivamente materiali (come, ad esempio, una psiche umana) non abbiano “un sé individuale”, che non si confonda con altre realtà individuali (ad esempio, una pietra), almeno per la fase in cui l’insieme di aggregati che la costituisce si mantiene unito, compatto, potremmo anche dire in vita.

Non sono inoltre d’accordo con Buddha sul fatto che ciò che caratterizza le varie realtà individuali, singolari, sia soprattutto, se non esclusivamente, la sofferenza; perché ciò contrasta – a quanto mi consta – con il sentimento diffuso e prevalente della gran parte di esse o, almeno, di quelle umane.

Non sono, infatti, in grado di dire se una roccia o un fiore o un cane siano felici o almeno contenti di stare al mondo.

Ma sono bene in grado di affermare che la maggior parte degli uomini sono contenti di essere venuti al mondo e ci vogliono restare il più a lungo possibile, anche se questo loro stare al mondo non è esente da dolori fisici e sofferenze psichiche; altrimenti avrebbero la possibilità e troverebbero il modo di dargli volontariamente un termine.

Vengo, dunque, al discorso (molto singolare, a mio avviso!) che fa Mancuso sul tema dell’anima.

Egli da un lato concorda sul fatto che quella che Buddha chiama “mente” (citta) e che lui (Mancuso) definisce come “centro di volizione personale” o “coscienza” o “io psichico” sia destinata a perire, allo stesso modo del corpo, dall’altro afferma che non “finisce tutto” con la morte. Anzi attribuisce anche a Buddha questo suo pensiero.

Il suo ragionamento francamente mi pare che si arrampichi sugli specchi; proverò a dimostrare perché.

In primis si chiede: che cosa intendiamo concretamente con il concetto di “anima spirituale”? E si dà la seguente risposta, che articola su tre punti fondamentali:

“1) l’esperienza dell’esistenza di un centro di volizione personale detto anche libero arbitrio, capace di intendere e di volere, e che si esprime principalmente nella consapevolezza e nell’intenzione;

2) l’esperienza della possibilità di connessione con l’essere eterno, il livello più vero della realtà, la verità, fino alla possibilità di esserne parte;

3) l’esperienza dell’esistenza di un principio di continuità personale che garantisce la possibilità della conservazione del lavoro spirituale svolto e dell’energia morale accumulata.”

Secondo Mancuso “il Buddha, pur negando l’esistenza dell’anima a livello concettuale, riconobbe pienamente le (tre) esperienze fondamentali che ne sono alla base.”

Proverò, allora, ad entrare nel merito dei tre ragionamenti fondamentali di Mancuso e a distinguere gli argomenti sui quali concordo da quelli sui quali dissento, perché mi appaiono incongrui.

1.Buddha “nega l’esistenza di un sé separato ma sottolinea con molta forza la volizione autonoma in prima persona singolare, la prima delle tre esperienze veicolate dal concetto di anima, ovvero la capacità di volere coscientemente e responsabilmente…”.

Buddha, infatti, “insistette sempre sul fatto che il lavoro di liberazione dalla ruota dell’esistenza tramite la ruota del Dharma debba essere compiuto dal singolo individuo e che nessun altro lo possa compiere al suo posto, non essendoci spazio per gli interventi soprannaturali…

Le ultime parole attribuitegli richiamano esattamente lo sforzo personale “Continuate a esercitarvi, instancabilmente”, a rimarcare nel modo più netto la centralità della volontà personale.”. E fin qui concordo con Mancuso.

2. Non concordo affatto, invece, con la seconda affermazione che fa – tra l’altro molto sbrigativamente, dandola quasi per scontata sul piano logico-teoretico – Mancuso relativamente al concetto di “anima”: la possibilità per questa “di connessione con l’essere eterno fino alla possibilità di esserne parte”.

In questo caso Mancuso opera quello che a me sembra un vero e proprio salto logico: perché, infatti, il riconoscimento della realtà che egli chiama “anima” dovrebbe implicare automaticamente la possibilità di entrare a far parte dell’essere eterno?

E, inoltre, su quali basi si dimostra l’esistenza di un “essere eterno”, almeno nel senso in cui lo intende Mancuso, nel senso cioè in cui comunemente qui in Occidente si intende “Dio”? Su questo argomento mi sono già soffermato in precedenza e quindi non ci ritorno sopra.

3. Anch’io concordo sulla tesi dell’anima come “continuità personale” dell’individuo. In precedenza l’ho già sostenuta e avvalorata. Concordo anche sul fatto che il buddhismo implicitamente, anche se non esplicitamente, la riconosca. Questo però cosa significa: che l’anima individuale è destinata a sopravvivere al corpo che l’ha ospitata fin quando questo è rimasto in vita?

Anche qui mi trovo davanti a un salto logico, che non sono disposto a fare.

Per me è legittimo affermare l’esistenza di una realtà psichica individuale e sono anche disposto a chiamarla, per convenzione terminologica, “anima”. Non sono disposto, però, a parlare di immortalità dell’anima. Il fatto che lo faccia il Dalai Lama attualmente vivente non è per me argomento sufficiente a favore di tale tesi.

Certo, il buddhismo afferma la teoria delle “rinascite successive”! Ma, come riconosce lo stesso Mancuso, secondo questa teoria ciò che trasmigra in altre vite non è l’individuo, non è la sua “anima immortale, quanto piuttosto l’operato dell’individuo, l’influenza e il carico morale delle sue azioni”.

Di cui io colgo l’inconfutabile nucleo di verità: ognuno di noi lascia, soprattutto alle persone che più gli sono state vicine e alle generazioni successive, l’eredità di un insegnamento e di una testimonianza personali, nella loro eventuale valenza positiva come in quella eventualmente negativa.

Ma questo cosa ha a che fare con la teoria dell’immortalità dell’anima? Nulla!

Almeno sotto questo punto di vista a me pare, dunque, che il Buddhismo si dimostri come sistema di pensiero molto più “laico” e, soprattutto, più teoreticamente rigoroso di Vito Mancuso; le cui riflessioni sono comunque per me molto stimolanti e quindi degne di tutta la mia stima e il mio apprezzamento, anche quando non le condivido o le condivido solo in parte.

© Giovanni Lamagna

Sesso e potere.

10 aprile 2016

Sesso e potere.

Esiste un rapporto tra sesso e potere, come afferma Foucault?

Certo che esiste!

Infatti, nel momento in cui io provoco un desiderio sessuale in te o tu provochi un desiderio sessuale in me, io divento (in qualche misura, più o meno intensa) dipendente da te e tu diventi dipendente da me.

Quindi io ho un potere su di te e tu hai un potere su di me. Oggettivamente. A prescindere dalle nostre volontà e intenzioni.

Potere che possiamo esercitare positivamente, cioè per la reciproca soddisfazione, io dando piacere a te e tu dando piacere a me.

In questo caso la dimensione e la motivazione del piacere sessuale prevalgono su quella del potere fine a se stesso.

Se, invece, io o tu (o entrambi) vogliamo approfittare di questo potere di cui disponiamo, per affermare, con qualche intenzionalità (o anche senza nessuna intenzionalità cosciente), la superiorità di uno dei due sull’altro/a, stabilire cioè una qualche gerarchia di potere tra noi, in altre parole far valere in termini di sfruttamento la dipendenza dell’altro/a da noi, allora il nostro rapporto (sessuale) diventa un vero e proprio rapporto di potere.

Anzi un conflitto di potere, una lotta per il potere.

Che si può esercitare anche (e persino), per fare un esempio, negandosi sessualmente all’altro/a, pur provando attrazione per l’altro/a e desiderio di fare sesso con l’altro/a.

In questo caso il piacere che può derivare da un rapporto sta più nel godimento del potere esercitato che nel godimento del sesso praticato.

Purtroppo bisogna prendere atto che molti rapporti sessuali tendono più al primo tipo di godimento che al secondo. Sono rapporti, quindi, in qualche modo pervertiti. Nel senso che hanno deviato dalla loro natura originaria.

Giovanni Lamagna