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Alcune tesi fondamentali per me in materia di psicoterapia.

Nel capitolo intitolato “Sul fenomeno del suicidio” del libro “In dialogo con Carl Gustav Jung”, curato da Anna Jaffé (Bollati Boringhieri 2023; p. 151-155), il grande psicoanalista svizzero affronta in modo specifico – come dice il titolo – il tema della cura della tendenza al suicidio in alcuni pazienti.

Ma alcune sue affermazioni qui riportate, a mio avviso, si possono estendere alla psicoterapia in generale, alla cura anche di altri tipi di pazienti; e credo, suppongo, che Jung non avrebbe avuto obiezioni a questa mia lettura delle sue parole.

Cosa dice, dunque, Jung?

Enucleo qui di seguito quelle che mi sono sembrate le sue tre tesi principali in proposito (alcune prese alla lettera dal testo citato) e ne do una mia interpretazione, senza – presumo – fare alcuna forzatura indebita.

1.Ci sono persone che entrano in terapia, ma non recepiscono nulla di quello che il terapeuta dice loro; in questo caso, prima o poi, “il paziente abbandonerà la terapia o l’analisi.” (p. 152).

Qui do per scontato che il terapeuta, di cui sta parlando Jung, sia esperto e dotato della necessaria e adeguata empatia, che non faccia errori grossolani nell’approccio con la persona che è venuta a cercare il suo aiuto; e che, quindi, l’abbandono della terapia non dipenda dalla professionalità dello psicoterapeuta (come, invece, in altri casi, può accadere e si può ritenere).

Ci sono pazienti coi quali si ha l’impressione di parlare ad un muro; qui Jung, a proposito di una sua paziente, afferma testualmente: “Avrei potuto parlare altrettanto bene – o forse anche meglio – con una pietra.”; di fronte a pazienti di questo tipo il terapeuta non può fare molto; non può aiutare il paziente “se l’interessato stesso non lo vuole; verrebbe curato contro la sua volontà, e questo non si può fare.” (p. 152)

Dal che io deduco – e questa mi sembra una prima tesi fondamentale implicita nel pensiero di Jung – che una psicoterapia può avere un esito positivo, ovverossia sbloccare un paziente che soffre di conflitti nevrotici, solo se nel paziente la volontà inconscia di guarire è almeno un poco superiore alla sua volontà inconscia di restare nella sua nevrosi; dalla quale evidentemente – come tutti i nevrotici – ricava il famoso “vantaggio secondario”, di cui parlava Freud (lezione n. 23 di “Introduzione alla psicoanalisi”).

2. Di fronte a questo tipo di paziente e dopo aver fatto vari tentativi di sblocco della sua nevrosi, il terapeuta dovrebbe prendere onestamente atto della sua impotenza nella relazione di aiuto e comunicargli quello che Jung – molto candidamente e fermamente – ebbe il coraggio (quasi cinico) di comunicare ad una sua paziente, che era decisa a suicidarsi (e lui ne era pienamente consapevole): “Io non posso più esserle di aiuto. Io non posso più darle alcun consiglio.” (p. 153)

Ci sono pazienti che affrontano la terapia con un atteggiamento così sciatto e superficiale, che l’analista farebbe bene ad affrontarli di petto con un atteggiamento forte e deciso, senza alcuna forma di complice (e, potremmo dire, persino banale) tolleranza; Jung in questo testo confessa di essersi adirato una volta con una sua paziente di questo tipo e di averla addirittura “mandata via” in malo modo; eppure si trattava di una paziente a rischio suicidio.

Ci sono nevrotici, nei quali la “volontà di morte” è (più o meno vistosamente) superiore alla “volontà di vivere”; il che non significa che essi arriveranno necessariamente al suicidio (come accade, purtroppo, in alcuni casi estremi).

Spesso questa “volontà di morte” si presenta in individui che conducono (almeno apparentemente) una vita del tutto normale; che si aggrappano disperatamente a vari “oggetti” esterni a sé (un matrimonio, un figlio, un nipote, gli amici, il lavoro, la fama, la ricchezza, il potere…), che diano un senso alla loro vita, ma sono incapaci di trovare questo senso dentro di sé.

Naturalmente questi soggetti è come se vivessero – dice Jung – “con un solo piede o… con una sola mano”; e non è certo questa una “condizione ideale”. (p. 155)

“È qualcosa a cui ci si rassegna”. Ma “… non è la soluzione ideale”. Anche se in “certe circostanze non si può fare altrimenti. Allora è giusto rassegnarsi… Se un paziente… arriva… a quarant’anni a rassegnarsi, nessuno può impedirglielo. Ma che sia felice così, oppure che sia normale, che trovi tutto questo come ricco di senso è un altro paio di maniche.” (p. 155)

Questa mi sembra, allora, la seconda tesi fondamentale in materia di conduzione di una psicoterapia contenuta in questo capitolo: quando uno psicoterapeuta si rende conto che la psicoterapia non approderà a nulla di buono, è bene che congedi il suo paziente, senza tanti salamelecchi e senza troppa diplomazia, ma persino con una certa durezza; ci sono pazienti che sono (si dimostrano) incurabili, che sono destinati a vivere una vita apparentemente normale ma in realtà infelice, a campare metaforicamente con una sola mano o un solo piede.

3. Afferma Jung: “Che lo si voglia o meno: quando uno viene analizzato abbastanza a lungo, arriva da solo alle domande fondamentali. Non è proprio possibile altrimenti.” (p. 155)

Ed è proprio qui – a mio avviso – che un’analisi si può bloccare ed avere come suo esito (triste) l’abbandono: quando il paziente non vuole (o non ce la fa: ma questo cambia poco in termini di ricadute terapeutiche) affrontare queste “domande fondamentali”; quando ne è terrorizzato o quando non vuole affrontare (per pigrizia o per paura) i cambiamenti che le risposte a queste domande comporterebbero di conseguenza.

È questa, mi pare, la terza tesi fondamentale che si può ricavare dal pensiero di Jung in materia di psicoterapia: l’esito di questa non è mai scontato; può essere positivo, ma può anche essere negativo; una psicoterapia può sbloccare un paziente e aprirgli nuovi orizzonti mentali e, quindi, esistenziali; ma può anche arenarsi.

La psicoterapia si arena quando, di fronte alle “domande fondamentali” a cui, prima o poi, il percorso psicoterapeutico conduce, il paziente si rifiuta o è incapace di darsi delle risposte congrue, adeguate, soddisfacenti e di fare scelte conseguenti.

È da sottolineare, a mio avviso, in modo particolare questo secondo aspetto: quello delle scelte conseguenti.

Perché, per avere un buon esito psicoterapeutico, non basta capire sé stessi, come siamo fatti e come funzioniamo; bisogna anche avere o trovare da qualche parte la forza, il coraggio e l’energia necessari per mettere poi concretamente in atto le cose che si sono capite.

Che, nella maggior parte dei casi, significa realizzare dei cambiamenti radicali: nei comportamenti, nelle scelte, nelle situazioni, che hanno resa fino a quel momento infelice la nostra vita.

Se non si trovano la forza e il coraggio di realizzare questi cambiamenti, la psicoterapia sarà servita a ben poco, si sarà risolta in un sostanziale fallimento.

© Giovanni Lamagna

Psicoterapia e conversione.

Una psicoterapia che non si ponga l’obiettivo primario di realizzare una vera e propria “conversione” della persona che vi si accinge per me non è una vera psicoterapia.

È una psicoterapia superficiale, per modo di dire: una psicoterapia all’acqua di rose.

In questo senso per me il processo terapeutico ha qualcosa di iniziatico, anzi aggiungo perfino di religioso, anche se di una religione del tutto laica e individuale, senza dogmi, chiese, sacerdoti e templi.

D’altra parte, perché una persona si decide a fare una psicoterapia, coi costi economici, di tempo e di impegno energetico che essa comporta?

Evidentemente perché sta male!

E perché sta male?

Perché evidentemente ha introiettato (in genere, sin dall’infanzia) contenuti psichici (emozioni, effetti, sentimenti, pensieri, fedi) che non hanno un sano, corretto rapporto con la realtà.

E, di conseguenza, assume abitualmente, cronicamente, comportamenti insani e fa scelte sbagliate in modo (a volte compulsivamente) reiterato.

Di fronte a un quadro simile, cosa si propone uno psicoterapeuta, quando prende in analisi un paziente?

Con tutta evidenza, a mio avviso, due cose: innanzitutto quella di aiutare la persona che si rivolge a lui in cerca di aiuto a prendere consapevolezza dei contenuti psichici che sono alla base del suo malessere.

E di conseguenza, successivamente, stimolarla, aiutarla, accompagnarla a modificare i comportamenti e le scelte sbagliate che da quei contenuti psichici insani (perché privi di un rapporto sano con la Realtà) derivano.

Questo cosa comporta, cosa implica?

Un cambiamento quasi sempre (ma io sarei portato a eliminare il “quasi”) radicale (e non superficiale) del modo di vivere precedente, degli stili di vita fino ad allora praticati.

E cosa sarebbe questo cambiamento, se non quella che una volta avremmo chiamato, semplicemente e senza alcun imbarazzo, “conversione”, nel senso religioso del termine?

Ora io sono pienamente consapevole che la conversione, in termini religiosi, va intesa come un passaggio da una vita senza fede (atea o agnostica) ad una vita nella fede (in un Dio trascendente) o da una fede religiosa precedente (ad esempio, mussulmana) ad un’altra fede religiosa (ad esempio, cristiana); con tutto quello che questo comporta in termini pratici ed esistenziali.

La conversione di cui parlo qui, invece, quella che può realizzarsi in psicoterapia e che io considero nei fatti l’obiettivo principale (dichiarato o meno) di una psicoterapia, è il passaggio da una “visione del mondo” nevrotica, perché infondata (cioè senza fondamento nella realtà; e, quindi, psicologicamente scorretta) ad una più sana, perché fondata (sul “principio di realtà”) e, quindi, psicologicamente corretta.

Si tratta di due processi senza ombra di dubbio (non voglio qui creare nessuna confusione) differenti, anzi molto differenti.

Lungi da me, quindi, l’intenzione di sottovalutarne le profonde diversità e volerli identificare, omologare.

Ma come si fa a negare che tra le due “conversioni” (quella psicoterapeutica e quella classica, religiosa) esistano anche delle profonde e altrettanto evidenti analogie?

Come, del resto, in più occasioni hanno avuto modo di evidenziare e dire a chiare lettere fior di psicoterapeuti; tre nomi per tutti: Carl Gustav Jung, Victor Frankl e James Hillman.

© Giovanni Lamagna