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Le ragioni del cuore e quelle della testa.
Io concordo con Blaise Pascal che il cuore ha delle ragioni diverse da quelle dell’intelletto, delle ragioni che la ragione non conosce.
E però penso, ritengo, che le ragioni del cuore e quelle della ragione debbano andare il più possibile d’accordo.
Che esse non debbano contraddirsi o andare in conflitto.
Quando questo accade, infatti, si verifica una scissione, più o meno grave, della personalità, che si chiama nevrosi.
E questa genera inevitabilmente un disagio, un malessere, più o meno gravi.
Che possono anche diventare cronici, se non affrontati e risolti.
© Giovanni Lamagna
Quando la nostra rabbia ha radici lontane, molto lontane.
Quando stiamo male, spesso proviamo rabbia; e la prima cosa che facciamo è quella di prendercela con gli altri, di indirizzare la nostra rabbia contro gli altri.
In primis con quelli che abbiamo a tiro, che ci stanno più vicini.
Come se fosse (solo e in primis) colpa degli altri se stiamo male; e se, perciò, siamo arrabbiati; come se essi fossero la “causa prima” del nostro malessere.
Mentre in realtà non è così, non è oggettivamente così.
In realtà – se volessimo essere del tutto sinceri e radicalmente onesti – noi ce la dovremmo prendere (anche, anzi soprattutto) con noi stessi.
Perché nessuno ci impone di stare con le persone che abbiamo d’attorno.
Se ci stiamo, evidentemente è perché ne traiamo delle convenienze.
Solo che la rabbia ci annebbia la vista e ci fa vedere, invece, solo le cose negative e non anche quelle positive, che – nonostante tutto – ci fanno preferire la compagnia di alcuni a quella di altri e, a maggior ragione, alla totale solitudine.
Quando siamo arrabbiati dovremmo prendercela innanzitutto con noi stessi, che ci siamo infilati e messi in certe situazioni.
Comprese quelle che ci hanno portato ad avere rapporti (in certi casi, addirittura convivere) con le persone verso cui proviamo rabbia.
Tutt’al più, dunque, dovremmo prendercela con il nostro passato (specie con quello legato alla nostra infanzia) che ci ha reso così come siamo (per una grandissima percentuale) e ci ha portato pertanto a fare (spesso) scelte sbagliate, a stare con le persone e nei posti sbagliati, quelle a cui poi oggi (spesso) attribuiamo le ragioni della nostra rabbia.
Ma – anche qui – che senso ha prendersela con il passato, addirittura con le nostre radici, con la nostra infanzia?
Di questo passo dovremmo risalire addirittura ad Adamo ed Eva per trovare le cause e le origini del nostro malessere e, quindi, della nostra insofferenza.
Anche qui, forse, la cosa più conveniente (e saggia: sempre che ci teniamo a diventare minimamente saggi) è accettare il passato che ci trasciniamo appresso e, non dico farci pace, ma quantomeno imparare a conviverci.
Tanto quel passato 1) non lo possiamo più modificare e 2) non ne siamo noi i responsabili.
Nessun bambino è responsabile delle condizioni e dell’ambiente in cui è nato e cresciuto; del dolore vissuto e, quindi, della rabbia e, in certi casi, persino del rancore, accumulati negli anni della sua infanzia.
In conclusione: forse, questa presa di coscienza ci aiuterà (potrebbe aiutarci) a diventare un po’ più tolleranti e misericordiosi con noi stessi.
Ad essere meno arrabbiati con noi stessi; e, indirettamente, di conseguenza, anche con gli altri.
Specialmente con quelli che abbiamo maggiormente a tiro, coi quali spesso conviviamo, verso i quali nutriamo rancore per come sono e per come si comportano.
Non è cosa facile, sicuramente; di certo è più facile a dirsi che a farsi.
Ma che alternative abbiamo?
Tanto vale – quantomeno – provarci.
© Giovanni Lamagna
Cure oggettivamente date e risonanze emotive che rilasciano.
Le esperienze fisiche di tutti i bambini che sono “sopravvissuti” alla loro infanzia sono tutte più o meno le stesse: oggettivamente, materialmente si somigliano.
Sono esperienze di cura, di accudimento, soprattutto di nutrimento, da parte delle figure genitoriali (specie della madre) o di figure sostitutive, ma più o meno equivalenti.
I bambini che non vengono sufficientemente nutriti, accuditi e curati non riescono a sopravvivere oltre l’infanzia o addirittura oltre le prime settimane o mesi di vita: questo ci dicono la scienza e, prima ancora, le statistiche.
Ciò che cambia (e a volte profondamente) nelle varie esperienze è la risonanza emotiva che esse rilasciano nel bambino.
Ci sono carezze e carezze, baci e baci, abbracci e abbracci, rimproveri e rimproveri, parole e parole, ascolti e ascolti, attenzioni e attenzioni…
A volte questa risonanza nel bambino è di profondo piacere e benessere, altre volte di profonda frustrazione e malessere.
Tra questi due estremi si situa una vasta gamma di sfumature diverse, alcune più vicine al primo altre più vicine al secondo.
Il risultato è una traccia emotiva comunque incancellabile nella vita del bambino, che persisterà anche nella sua vita di adulto e ne segnerà il destino emotivo ed affettivo.
In certi casi ne pregiudicherà addirittura la stessa salute psicofisica.
© Giovanni Lamagna
Capriccio e desiderio (2)
La realizzazione di un desiderio produce integrazione tra le varie parti di sé.
E, quindi, un benessere e una soddisfazione pieni, duraturi.
La realizzazione di un capriccio provoca, invece, dissipazione interiore.
E, quindi, dopo un breve appagamento, malessere e insoddisfazione.
È questa la cartina di tornasole per distinguere un desiderio da un capriccio.
Gli alberi si riconoscono dai frutti che producono (Luca 6, 44).
© Giovanni Lamagna
“Mi sento gli occhi addosso”.
Ha senso l’espressione “mi sento gli occhi addosso”?
Secondo me sì.
Perché nei rapporti umani (ma forse anche in quelli tra animali e, forse, addirittura tra vegetali) si viene a creare sempre una corrente energetica.
Che a volte è positiva, nel senso che genera in noi benessere; quando le persone che ci stanno attorno ci vogliono bene e ci incoraggiano nelle nostre scelte.
Altre volte è negativa, nel senso che ci provoca malessere; quando le persone che ci sono vicine non solo non ci amano, ma addirittura si augurano il nostro male.
L’espressione “mi sento gli occhi addosso” si riferisce a questa seconda, spiacevole, sensazione; molto fondata e per niente paranoica.
© Giovanni Lamagna
Psicoterapia e conversione.
Una psicoterapia che non si ponga l’obiettivo primario di realizzare una vera e propria “conversione” della persona che vi si accinge per me non è una vera psicoterapia.
È una psicoterapia superficiale, per modo di dire: una psicoterapia all’acqua di rose.
In questo senso per me il processo terapeutico ha qualcosa di iniziatico, anzi aggiungo perfino di religioso, anche se di una religione del tutto laica e individuale, senza dogmi, chiese, sacerdoti e templi.
D’altra parte, perché una persona si decide a fare una psicoterapia, coi costi economici, di tempo e di impegno energetico che essa comporta?
Evidentemente perché sta male!
E perché sta male?
Perché evidentemente ha introiettato (in genere, sin dall’infanzia) contenuti psichici (emozioni, effetti, sentimenti, pensieri, fedi) che non hanno un sano, corretto rapporto con la realtà.
E, di conseguenza, assume abitualmente, cronicamente, comportamenti insani e fa scelte sbagliate in modo (a volte compulsivamente) reiterato.
Di fronte a un quadro simile, cosa si propone uno psicoterapeuta, quando prende in analisi un paziente?
Con tutta evidenza, a mio avviso, due cose: innanzitutto quella di aiutare la persona che si rivolge a lui in cerca di aiuto a prendere consapevolezza dei contenuti psichici che sono alla base del suo malessere.
E di conseguenza, successivamente, stimolarla, aiutarla, accompagnarla a modificare i comportamenti e le scelte sbagliate che da quei contenuti psichici insani (perché privi di un rapporto sano con la Realtà) derivano.
Questo cosa comporta, cosa implica?
Un cambiamento quasi sempre (ma io sarei portato a eliminare il “quasi”) radicale (e non superficiale) del modo di vivere precedente, degli stili di vita fino ad allora praticati.
E cosa sarebbe questo cambiamento, se non quella che una volta avremmo chiamato, semplicemente e senza alcun imbarazzo, “conversione”, nel senso religioso del termine?
Ora io sono pienamente consapevole che la conversione, in termini religiosi, va intesa come un passaggio da una vita senza fede (atea o agnostica) ad una vita nella fede (in un Dio trascendente) o da una fede religiosa precedente (ad esempio, mussulmana) ad un’altra fede religiosa (ad esempio, cristiana); con tutto quello che questo comporta in termini pratici ed esistenziali.
La conversione di cui parlo qui, invece, quella che può realizzarsi in psicoterapia e che io considero nei fatti l’obiettivo principale (dichiarato o meno) di una psicoterapia, è il passaggio da una “visione del mondo” nevrotica, perché infondata (cioè senza fondamento nella realtà; e, quindi, psicologicamente scorretta) ad una più sana, perché fondata (sul “principio di realtà”) e, quindi, psicologicamente corretta.
Si tratta di due processi senza ombra di dubbio (non voglio qui creare nessuna confusione) differenti, anzi molto differenti.
Lungi da me, quindi, l’intenzione di sottovalutarne le profonde diversità e volerli identificare, omologare.
Ma come si fa a negare che tra le due “conversioni” (quella psicoterapeutica e quella classica, religiosa) esistano anche delle profonde e altrettanto evidenti analogie?
Come, del resto, in più occasioni hanno avuto modo di evidenziare e dire a chiare lettere fior di psicoterapeuti; tre nomi per tutti: Carl Gustav Jung, Victor Frankl e James Hillman.
© Giovanni Lamagna
Fantasie, fantasticherie, immaginazione
“Dobbiamo tenere a freno la fantasia su tutte le cose che riguardano il nostro malessere e il nostro benessere”, così come ci consiglia Arthur Schopenauer (“L’arte della felicità”; Adelphi 1997; p. 58)?
A mio avviso, dipende.
Certo, se ci lasciamo prendere dalla fantasia a tal punto da perdere il senso stesso della realtà, immaginando scenari del tutto impraticabili e irrealizzabili da noi, allora ha ragione Schopenauer.
Inoltre se la fantasia ci porta a ingrandire preoccupazioni e affanni oltre la loro consistenza reale, fino a farli diventare veri e propri incubi, allora Schopenauer ha ancora di più ragione.
Se la fantasia, invece, ci porta a prefigurare scenari creativi e piacevoli, che poi siamo in grado di rendere reali con le nostre scelte e la nostra azione, allora credo che Schopenauer abbia torto.
In questo ultimo caso credo che non solo non sia bene tenere a freno la fantasia, ma che sia bene coltivare la fantasia, che in questo caso è immaginazione.
In altre parole credo che una cosa siano le fantasticherie, che non hanno nessun rapporto con la realtà, altra cosa le fantasie, con le quali talvolta siamo in grado di immaginare e anticipare il reale possibile per noi.
© Giovanni Lamagna
Eros e thanatos
Ci sono persone che non possono andare oltre una certa soglia/quota di piacere e di benessere.
Come se, oltre questa soglia, mancasse loro l’aria e non potessero quindi respirare bene.
Ci sono persone, anzi, che, una volta raggiunta questa soglia/quota, avvertono il bisogno, la necessità di regredire, di sprofondare in uno stato di malessere.
Più o meno grave, più o meno acuto.
E, solo dopo aver toccato la soglia di malessere opposta e speculare a quella del benessere sperimentato per una fase (più o meno lunga), ritrovano il desiderio e l’energia per risalire nuovamente verso una dimensione di benessere.
Come se fossero incapaci di stabilizzarsi in uno stato di piacere e di benessere.
Come se fossero incapaci, a maggior ragione, di crescere negli stadi del benessere.
Come se la loro psiche avesse una necessità coatta (quasi fisiologica) di oscillare tra i due poli opposti del piacere/benessere e del dolore/malessere.
Tra Eros e Thanatos.
A conferma della famosa intuizione dell’ultimo Freud. Secondo la quale le azioni umane sono guidate non solo dalla pulsione libidica (eros), orientata alla vita, ma anche da quella opposta (thanatos), orientata alla morte.
Giovanni Lamagna