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La vita non ha un senso, ma può darselo.
La vita ha un senso, può avere un senso, ma non è un senso che sta fuori di lei, che le proviene dall’esterno.
Bensì è un senso che la vita può trovare solo dentro sé stessa, che la vita si dà – quando ci riesce – da sé stessa.
Da questo punto di vista la vita non ha un fondamento esterno su cui poggiarsi, ma galleggia su un vuoto assoluto di senso.
Il senso che la vita può trovare in sé è, quindi, del tutto precario, fragile, instabile, soggetto a continui scossoni e messe in crisi.
Ma, se l’uomo non lo trova, la sua vita è condannata a inabissarsi nel mare senza fondo del non senso.
Coerenza logica vorrebbe – se la vita fosse solo logica – che chi non trova un senso alla sua vita se la togliesse, suicidandosi.
Ma – per fortuna o per sfortuna: non so! – la vita non è solo logica; come hanno potuto verificare di persona i vari Schopenhauer, Nietzsche e Cioran, filosofi del nichilismo.
© Giovanni Lamagna
Perché, nonostante tutto, desideriamo vivere?
Perché, nonostante tutto, desideriamo vivere? Tutti, chi più e chi meno, poveri e ricchi, sani e malati, belli e brutti, intelligenti e stupidi.
Nonostante che numerosi e illustri filosofi, soprattutto in questi ultimi due secoli, ci abbiano indotto a pensare che la vita è solo dolore e noia, sofferenze e malanni, un triste capriccio della natura.
Forse la risposta sta nel fatto – per quanto banale esso possa sembrare – che non è per niente vero quello che illustri filosofi hanno sostenuto; penso, per fare solo tre esempi, a Leopardi, a Schopenhauer e a Cioran.
Forse la vita non è solo dolore e noia, dispiaceri e sventure, come tanti filosofi – soprattutto moderni e, ancor più, contemporanei – si sono convinti a credere e hanno provato a convincerci.
La vita è anche gioie e piaceri, è anche avventure e scoperte.
Anzi forse, nonostante tutto, i secondi, per ognuno di noi, prevalgono sui primi.
Ne possiamo concludere che, quindi, la vita – checché ne pensino i Leopardi, gli Schopenahuer e i Cioran – vale la pena di essere vissuta, nonostante si concluda con la morte, che – non a caso – la maggior parte di noi si augura arrivi il più tardi possibile.
D’altra parte quegli stessi pensatori hanno confermato tale verità coi fatti, in contraddizione con le parole da loro dette e scritte.
Infatti, se pensavano veramente e fino in fondo le cose che affermavano sulla vita, perché hanno preferito tenersela cara, fino alla morte naturale, e non togliersela anticipandone la fine; come pure, se fossero stati coerenti con le loro teorie, avrebbero potuto fare?
© Giovanni Lamagna
Tre miti da sfatare.
Credo che sarebbe ora di sfatare alcuni miti che si sono affermati e consolidati quasi universalmente nel pensiero filosofico nel corso della sua storia, specie di quella moderna e contemporanea, sulla base di una presunta visione realistica dell’uomo, ma che, a mio avviso, del “realismo” ha ben poco, perché è legata a giudizi precostituiti piuttosto che ad una lettura fredda, razionale e, quindi, obiettiva della realtà.
E perciò, a mio avviso, sono dei veri e propri miti, per quanto rivestiti di (apparentemente) fredda, scientifica razionalità.
Ci troviamo, insomma, di fronte al classico pensiero “realista” che è più realista del Re.
In modo particolare tre sono i miti, che a mio modesto modo di vedere, andrebbero sfatati o (quantomeno parzialmente) rivisitati e rivisti:
1) l’uomo è per sua natura, intrinseca e immodificabile, strutturalmente “cattivo” (vedi Machiavelli, vedi Hobbes…);
2) l’uomo è condannato ad essere irrimediabilmente infelice: l’infelicità è la condizione umana basica (vedi Schopenhauer, vedi Cioran…);
3) la politica è una professione come le altre e va esercitata (solo) da coloro che ne hanno la predisposizione intellettuale e vocazionale (vedi Max Weber).
Qui pongo solo il problema, offro solo i titoli di altrettante ricerche su tesi che andrebbero ovviamente argomentate in maniera adeguata, allo stesso modo di come hanno fatto a suo tempo i cinque insigni autori da me citati, per sostenere tesi opposte.
Ma, secondo me, gli argomenti per sfatare quelli che io definisco dei veri e propri miti ci sono e sono anche abbondanti; almeno allo stesso livello (anzi per me ad un livello addirittura superiore) di quelli portati a sostegno delle loro tesi dai cinque pensatori di cui sopra.
© Giovanni Lamagna
La vita è solo sofferenza?
Io non concordo con il presupposto fondamentale del Buddhismo, il punto da cui parte e si dipana l’intero pensiero del Buddha; e cioè che la vita sia sofferenza.
Per me, al contrario di Buddha, la vita non è solo sofferenza, ma è anche piaceri, gioie, in certi momenti (e per alcuni fortunati) addirittura felicità.
Basta vedere lo sguardo di un bambino, della maggior parte dei bambini (perfino, a volte, di quelli nati e cresciuti nelle situazioni più infauste) per rendersene conto.
Certo non posso e non voglio mica negare che nel mondo ci sia tanta, anzi tantissima, sofferenza, sia a livello dei corpi che delle anime: sarebbe da sciocchi o, meglio, ciechi negarlo.
Quello che non accetto però è l’idea (per me esagerata e, quindi, infondata) che nel mondo ci sia SOLO sofferenza.
D’altra parte, se fosse veramente così, non capirei perché nell’uomo (almeno nella grande maggioranza degli uomini) ci sia tanta voglia di vivere, fosse anche solo voglia di sopravvivere.
Se la vita fosse solo (o anche soprattutto) sofferenza, non sarebbe più naturale che l’uomo desiderasse di morire piuttosto che vivere, che desiderasse di farla finita subito e prematuramente, anziché aspettare il tempo naturale della morte?
In altre parole, la mia visione del mondo, al contrario di quella buddhista, di quella di tante (se non la maggior parte delle) religioni e di alcuni filosofi radicalmente pessimisti (come, per fare solo due nomi, i primi che mi vengono in mente: Schopenhauer e Cioran) non è né pessimista né ottimista.
Perché vede, registra, prende atto che nel mondo ci sono sia il bello che il brutto, sia il vero che il falso, sia il bene che il male, sia il piacere che il dispiacere, sia la gioia che il dolore, in un impasto (misterioso) che fa della vita una lotta continua tra l’uno/a e l’altro/a; alla ricerca della migliore condizione fisica e spirituale possibile, del cosiddetto ben-essere.
Ad un unico male – almeno per ora – non possiamo opporci, un unico nemico non possiamo – almeno al giorno d’oggi – pensare di sconfiggere definitivamente: la morte.
E questo – in linea teorica – può/potrebbe giustificare il pensiero pessimista radicale.
Ma – almeno a mio avviso – manco la realtà della morte lo giustifica pienamente.
Perché è vero che la morte connota il nostro orizzonte futuro di ombre lugubri e funeree, però è anche vero che manco il pensiero della morte, che prima o poi ci raggiungerà, riesce a rovinare (e, meno che mai, a cancellare) alcune esperienze emotive di piacere, di gioia e persino di felicità, che – in momenti più o meno frequenti e prolungati – pure attraversano e in certi casi addirittura riempiono la nostra vita, impedendoci di sprofondare (come sarebbe inevitabile, se essi fossero del tutto assenti) nell’abisso della depressione e della disperazione.
E questo è un dato di realtà manifesto, verificabile e accertabile di continuo e da parte di (quasi) tutti.
Come lo è la condizione di sofferenza che a volte attraversa e, in genere, chiude, conclude la nostra vita: penso ai dolori dell’agonia che ci conduce alla morte.
Che la vita, oltre che sofferenza, sia anche piaceri e gioie, non è vaneggiamento e illusione, ma un dato di realtà incontrovertibile!
© Giovanni Lamagna