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L’aggressività nel rapporto di coppia.

Perché – in molti casi – si diventa estremamente aggressivi nel rapporto di coppia?

Per la ragione molto semplice, persino banale, che il rapporto di coppia è quello nel quale la maggior parte delle persone investe di più.

Come in nessun altro rapporto.

In altre parole noi nel rapporto di coppia – specie all’inizio – tendiamo a ricercare le stesse gratificazioni che abbiamo sperimentato nel rapporto coi nostri genitori, specie nel rapporto con nostra madre.

Anzi tendiamo a cercare perfino le gratificazioni che non siamo riusciti a sperimentare allora, le gratificazioni che ci sono mancate, che non abbiamo ricevuto in quella fase decisiva della nostra vita affettiva.

Vorremmo così riempire – attraverso il rapporto di coppia –  dei vuoti – qualcuno parla addirittura di ferite – che ci portiamo appresso da quando eravamo bambini.

Sta tutta qui la estrema complessità e difficolta dei rapporti di coppia.

E la ragione dei loro numerosi e frequenti fallimenti.

© Giovanni Lamagna

Sesso e psiche.

Le difficoltà, che incontriamo quando facciamo sesso, hanno più spesso una ragione e spiegazione psichica che una ragione e spiegazione fisica.

Questa è la dimostrazione inconfutabile che l’atto sessuale – almeno per noi esseri umani – ha una natura e valenza psichica ancor più che fisica.

© Giovanni Lamagna

Difficoltà a prendere sonno.

È difficile prendere sonno quando la vita ti preme dentro.

Quando, cioè, hai bisogno di realizzare delle cose e ti sembra di non aver tempo per farlo.

Perché la morte ti rincorre, sta dietro l’angolo ad aspettarti.

© Giovanni Lamagna

Difficoltà a parlare e scrivere.

Non è vero, a mio avviso, che l’incapacità di parlare o di scrivere in maniera adeguata dipenda (innanzitutto) dalla mancanza o carenza di strumentazione tecnica: la conoscenza del lessico, dell’ortografia, della grammatica e della sintassi…

Io credo che dipenda piuttosto e innanzitutto dalla difficoltà/incapacità di entrare in contatto con i propri pensieri, i propri sentimenti, le proprie emozioni, con le proprie pulsioni primarie.

Insomma da una carenza di vita interiore o da una sua scissione.

È questa incapacità di vedere e di leggere pensieri, sentimenti, emozioni, pulsioni, che sicuramente abitano in ognuno di noi, che ci rende difficile (o, addirittura, impossibile) trovare le parole e la loro giusta disposizione per dirli/e, esprimerli/e.

Se questa incapacità o queste difficoltà, che sono di natura psicologica, vengono superate, si risolvono, in maniera quasi automatica, anche la incapacità o le difficoltà di natura tecnica a parlare e scrivere.

© Giovanni Lamagna

Scrivere e parlare.

La maggior parte degli uomini ha difficoltà a mettere nero su bianco, cioè a scrivere.

Molto di più che a parlare.

E non credo soltanto perché scrivere è più faticoso che parlare.

Ma anche (e forse soprattutto) perché lo scritto impegna di più che il parlato.

Sia con sé stessi che con gli altri.

“Verba volant, scripta manent”.

© Giovanni Lamagna

Dopo aver visto l’ultimo film di Nanni Moretti “Il sol dell’avvenire”.

Il cinema di Nanni Moretti (da “Ecce bombo” in poi, il primo film che ho visto di questo autore nel lontano 1978) è sempre stato un cinema di confessione, una sorta di diario per immagini o di auto-psicoanalisi davanti alla macchina da presa.

Questo film lo è forse ancora di più, in una forma ancora più dichiarata.

In primo luogo perché, non a caso, alcune sue scene sono dedicate alla psicoterapia della moglie del protagonista (Paola), attraverso la quale Giovanni (Moretti), il marito/regista, sembra quasi voler psicoanalizzare sé stesso.

E poi perché il film procede per spezzoni disordinati, messi in sequenza quasi a caso, come se fossero il frutto, il parto di libere associazioni, come avviene appunto (o dovrebbe avvenire) in una seduta di psicoanalisi.

Attraverso la psicoanalisi dell’autore, infine, noi spettatori siamo portati a nostra volta a psicoanalizzarci, a guardare dentro noi stessi, identificandoci coi o dissociandoci dai vari personaggi del film in maniera sempre emotivamente molto forte.

Da questa sorta di diario aperto o di autoanalisi pubblica – ovviamente confusi e a tratti perfino caotici – è possibile cogliere però, in maniera abbastanza chiara e distinta, i temi centrali del film, che sono poi quelli classici della filmografia di Moretti.

Innanzitutto l’amore e la politica, che a me appaiono posti sullo stesso piano, intrecciati in maniera che definirei indissolubile, essendo i temi che hanno caratterizzato un’intera generazione (quella che ha vissuto la sua giovinezza a cavallo tra gli anni ’60 e ‘70).

O almeno quella parte di generazione, che – pur essendo, a pensarci bene, minoritaria – ne ha comunque segnato il tratto caratteristico, potremmo anche dire storico: la commistione indissolubile tra pubblico e privato (“il personale è politico”).

Relativamente a queste due tematiche (che sono quelle centrali del film) una battuta mi ha colpito in un modo particolare; quella che pronuncia Margherita Buy (Paola la moglie di Giovanni, il regista) in una delle sedute con lo psicoanalista: “Io e Giovanni parliamo di tutto… di politica, di cinema, di lavoro… tranne che di noi due…”.

Come ad esprimere un bisogno, un desiderio ed allo stesso tempo confessare una difficoltà, un’incapacità, che sono non solo di Moretti uomo, ma forse quelle di una intera generazione.

Bisogni, desideri, difficoltà, incapacità, che, a loro volta, mi ricordano una canzone famosa di Giorgio Gaber, “Chiedo scusa se parlo di Maria”, le cui parole raccontano un problema molto simile a quello espresso da Paola/Buy nel film di Moretti:

Non è facile parlare di Maria… ci son troppe cose che sembrano più importanti… mi interesso di politica e sociologia… per trovare gli strumenti e andare avanti… mi interesso di qualsiasi ideologia… ma mi è difficile parlare di Maria…

Se sapessi parlare di Maria… se sapessi davvero capire la sua esistenza… avrei capito esattamente la realtà… la paura, la tensione, la violenza… avrei capito il capitale, la borghesia… ma la mia rabbia è che non so parlare di Maria…”

Il terzo tema che emerge dal film è una riflessione sul cinema stesso: il cinema di oggi e il cinema del passato, quello a cui Moretti chiaramente si ispira (a cominciare, ovviamente, da quello di Fellini, di cui nel film ricorrono almeno tre citazioni, parlate o semplicemente sceniche).

Il quarto è collegato al terzo: è il tema della violenza, che sembra essere diventato quello centrale di un certo cinema contemporaneo e che Moretti stigmatizza in maniera esplicita e molto forte: è una vera e propria istigazione alla violenza; la tragedia greca o Shakespeare (per citare alcune battute del film) non c’entrano nulla!

Il quinto mi sembra essere il tema della “terza età”: forse per la prima volta nei suoi film Moretti si vede e si riconosce come uomo oramai anziano, che non ha più molto tempo davanti a sé (chiara l’allusione a questo tema, quando dice ai suoi attori: “… bisogna accelerare, andare più veloci!”).

Moretti lo affronta con dolente malinconia, che a tratti sfiora persino la depressione; ma questa poi alla fine non la vince, perché ben presto in lui prevale il bambino, che canta, che balla, che ha occhi pieni di candido stupore, che gioca perfino a pallone da solo in una piazza vuota.

Infine, il tema di una visione (a voler usare un aggettivo eufemistico) disincantata del presente, che, non a caso, nella prima stesura della sceneggiatura ispira al regista-autore-del-film-nel-film una scena finale disperata, quasi nichilista, figlia evidente del suo “pessimismo della ragione”.

Che però, d’improvviso, al termine della lavorazione, quasi all’ultimo ciak, viene completamente ribaltata (è forse questo l’esito finale della psicoterapia pubblica a cui Moretti si è sottoposto?) da una visione del futuro, nonostante tutto sommato, illuminata dalla speranza.

Visione, io credo, figlia di un “ottimismo della volontà”, a cui evidentemente l’autore – nonostante tutto – pur senza ricorrere ad alcuna sdolcinatura retorica, non sa e non vuole rinunciare.

La citazione delle parole di Gramsci mi pare qui d’obbligo vista la presenza incombente nel film del grande (ed eretico) pensatore sardo, posta forse in contrapposizione all’altro grande (ma allineato e coperto) esponente del PCI, Togliatti.

Anche qui non a caso la scena finale del film, che si svolge lungo i Fori imperiali di una Roma luminosa e assolata, è una sorta di citazione della marcia del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, completamente rivisitata, però.

A marciare, infatti, sono gli attori storici di Moretti, quelli che hanno recitato in molti suoi film (cosa voleva dire Moretti qui: il suo addio al cinema? mi auguro di no!), e allo stesso tempo i politici (a cominciare da Togliatti) che sono stati protagonisti di sfondo del suo “film nel film”.

Marciano però sotto i vessilli degli sconfitti della Storia (si intravede – unico e, a mio avviso, non casuale – il ritratto di Trotsky), a voler significare che non è vero che la storia non si può fare con i “se” e i “ma”.

La tesi di Moretti (affermata in modo esplicito nel film) è che la Storia la si può giudicare e valutare (eccome!) con i “se”, se non altro perché questo potrebbe insegnarci qualcosa per il futuro e impedirci gli stessi errori (spesso tragici) compiuti in passato.

In conclusione – sembra dire Moretti – non si può e non si deve rinunciare alla speranza e alla lotta perché in futuro il sole (le utopie in cui molte generazioni avevano creduto) torni a splendere.

Magari apprendendo dalle lezioni che ci ha dato la Storia e correggendo gli sbagli, in certi casi i clamorosi abbagli, che quelle utopie contenevano e che hanno portato agli esiti disastrosi, che sono sotto gli occhi di tutti noi.

Come chiudere, infine, questa mia personale e direi intima recensione del film di Moretti, senza citare le canzoni che ne formano, in un certo senso, la colonna sonora (un classico morettiano!)?

In modo particolare: “Think”, cantata da Aretha Franklin e ascoltata in auto da Giovanni e Paola, che, quasi in trance, si mettono a ballare fanciullescamente (specie Moretti) sulle note della musica.

E poi “Sono solo parole” di Fabrizio Moro, cantata a squarciagola, come in un momento liberatorio, da tutta la troupe del film che Giovanni/Moretti sta girando; forse a significare che le parole della politica sono insignificanti e vane, quando sono staccate dalla vita reale, emotiva e sentimentale, anche privata, delle persone.

Quindi “Lontano, lontano” di Luigi Tenco, che compare in un momento topico della lavorazione del film, quando il vero tema si rivela essere (finalmente!) quello dell’amore e non quello politico; quando Barbara Boulova, con sfacciato e femminile candore, sbotta e dice “Chi se ne frega della politica, questo è un film d’amore!”.

E poi “La canzone dell’amore perduto” di Fabrizio De André, che fa da sottofondo malinconico alla separazione in atto tra Paola e Giovanni, che Paola è (oramai e, anche qui, finalmente!) decisa a realizzare (“il rapporto con te è troppo faticoso”), ma alla quale Giovanni, il marito/regista, invece, non vuole rassegnarsi.

E, infine, “Voglio vederti danzare” di Franco Battiato, che chiude la lavorazione del film a cui sta lavorando il regista Giovanni/Moretti in forma definitivamente liberatoria, quando la scena (prevista) dell’impiccagione del protagonista (Silvio Orlando) viene sostituita da un ballo collettivo degli attori, che diventa poi corteo lungo la via dei Fori imperiali.

© Giovanni Lamagna

Recensione del film “La dea fortuna” di Ferzan Ozpetek

Ieri pomeriggio sono andato a vedere l’ultimo film di Ferzan Ozpetek “La dea fortuna”, con Stefano Accorsi, Edoardo Leo e Jasmine Trinca.

Il film è complessivamente bello, anche se alterna momenti alti a momenti bassi o, meglio, a momenti nei quali la tensione quantomeno cala.

Ci sono alcune scene topiche che toccano profondamente il cuore ed emozionano, ce ne sono altre (parecchie) che sono poco credibili e, in qualche caso, sfiorano la banalità.

Comunque le prime valgono la visione del film e consigliano di andare a vederlo.

Cosa ha voluto raccontare il film?

Ha voluto raccontare la storia di un rapporto di coppia, di un normale rapporto di coppia. Il fatto che nello specifico la coppia del film sia una coppia di omosessuali è un puro accidente.

Perché i problemi che vive la coppia protagonista del film sono i problemi che vivono tutte le coppie, omosessuali ed eterosessuali, “regolarizzate” e di fatto: sono i problemi tipici della struttura-coppia.

Passata la fase dell’innamoramento, la passione tende a spegnersi ed emergono le difficoltà dell’integrazione tra due modi (più o meno radicalmente diversi) di emozionarsi, di vivere gli affetti, di pensare, di comportarsi, di progettare la vita.

L’esito (quasi fatale) è quello di cercare altrove ciò che non si riesce a trovare più nel rapporto con l’altro di coppia, quello che – con linguaggio volgare nel senso etimologico del termine (da “vulgus”) – si definisce “tradimento”.

Per cui la coppia, anche questa coppia del film, arriva a interrogarsi se abbia ancora senso restare assieme, a porsi domande su ciò che ha unito i due partner e su cosa sia successo di così grave da aver creato un baratro nella comunicazione e nella intesa una volta così facili e naturali.

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I due protagonisti, Arturo e Alessandro (interpretati in maniera intensa da Stefano Accorsi e Leonardo Leo; specie quest’ultimo: semplicemente strepitoso!), il primo scrittore fallito (si guadagna da vivere facendo delle traduzioni), il secondo idraulico (sta spesso fuori casa a causa del suo lavoro), stanno per separarsi.

Quando nella loro vita insorge un fatto nuovo, che la sconvolge (“inguaia”) ancora di più, ma che allo stesso tempo si rivelerà per loro (paradossalmente) una vera e propria ancora di salvezza.

Una vecchia amica di entrambi, Annamaria (Jasmine Trinca), single, ma con due figli (Martina e Sandro, di 12 e 9 anni), ha scoperto di avere una grave malformazione congenita al cervello e deve ricoverarsi in ospedale per fare degli accertamenti.

Si presenta allora un giorno a casa di Arturo ed Alessandro, mentre questi stanno facendo una festa sul loro terrazzo di casa piena di amici, e chiede loro di occuparsi dei due bambini durante il tempo del suo ricovero. I due accettano.

Alessandro con grande disponibilità, quasi con entusiasmo.

Il film lascia capire che tra Alessandro e Annamaria in passato c’è stata una storia, forse Alessandro è addirittura il padre del bambino, che non a caso porta il suo stesso nome.

Arturo con più riluttanza e con molti impacci e “distrazioni”.

In ogni caso entrambi pensano che l’esperienza nuova sarà di breve durata, perché Annamaria sarà presto dimessa dall’ospedale e si riprenderà i bambini.

Le cose, invece, si complicano, perché la malattia della donna si rivela più complessa di quello che si era ipotizzato in un primo momento e i due compagni sono costretti a prolungare la loro assistenza ai due figli della loro amica.

Tutto questo mentre il loro rapporto precipita ulteriormente. Alessandro scopre addirittura che Arturo da due anni vive una relazione importante che gli ha tenuto nascosta, approfittando dei suoi lunghi allontanamenti da casa per motivi di lavoro.

A questo punto la convivenza coi bambini diventa insostenibile e Alessandro e Arturo sono costretti ad accompagnarli a Palermo dalla nonna, la vecchia madre di Annamaria (Barbara Alberti), una nobile decaduta, una donna fredda e autoritaria, che aveva vessato la figlia bambina e ne aveva causato non solo la fuga da casa, ancora molto giovane, ma soprattutto il carattere ribelle.

Sulla nave in viaggio per Palermo il film vive uno dei momenti topici dal punto di vista emozionale. Arturo, con le lacrime agli occhi, parla ai due bambini, come se fossero adulti, dei suoi problemi con Alessandro. E i due bambini mostrano di capire, come forse manco un adulto sarebbe stato capace di fare.

(Tra parentesi: questo momento è reso ancora più intenso e magico dalla voce in sottofondo di una splendida Mina, che canta una struggente canzone di Ivano Fossati, “Luna diamante”, inserita nel CD “mina fossati” di recente uscita)

Quando Alessandro e Arturo tornano a Roma, vanno a fare visita ad Annamaria, che il giorno dopo dovrà essere operata. Ma mentre stanno con lei, in un momento in cui l’allegria e il buonumore si alternano al dolore e alla malinconia, improvvisamente Annamaria viene meno e muore tra le loro braccia.

A questo punto i due compagni si rimettono in viaggio per Palermo e vanno a riprendersi con la forza i due bambini, sfidando l’opposizione e le minacce della nonna.

La scena finale è quella di un bel bagno a quattro nelle acque del mare siciliano in attesa della nave che li riporterà sul continente.

Ciascuno dei quattro esegue il rituale della Dea Fortuna, insegnato loro da Annamaria, che serve a tenere con sé la persona più cara al mondo: guardare fisso per qualche istante il volto della persona amata, poi chiudere gli occhi e subito dopo riaprirli, perché l’immagine, come fotografata, scenda fino al cuore.

In questo modo tra di loro quasi si materializza la presenza di Annamaria, che diventa l’amalgama, spirituale eppure molto concreta, della nuova singolare famiglia di fatto che si è venuta a creare.

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Che cosa ci ha voluto dire questo film? O, meglio, cosa ha detto a me? Essenzialmente due cose.

La prima. Non esistono relazioni perfette o ideali. Semplicemente perché non esistono persone perfette, del tutto sane e prive di nevrosi. Siamo tutti fragili e precari, chi più e chi meno. Quindi tutti i nostri rapporti lo saranno altrettanto.

Questa consapevolezza ci dovrebbe aiutare a non essere superficiali e frettolosi nel giudicare e nell’affrontare i problemi che vivono le nostre relazioni, ad avere pazienza nel sopportarsi a vicenda, anche quando emergono (inevitabili) i problemi, a non rompere alla prima difficoltà, a non vedere solo il bicchiere mezzo vuoto, ma anche quello mezzo pieno, a non buttare l’acqua sporca con il bambino.

La seconda. La soluzione (per quanto precaria, provvisoria) sta sempre nel “terzo”. Nessuna relazione troverà mai la sua salvezza cercandola semplicemente al suo interno. Le relazioni che lo faranno saranno fatalmente destinate a implodere. A morire tristemente ripiegate su se stesse.

La relazione, una qualsiasi relazione, vive se resta “aperta”, se è capace di restare aperta, se è in grado di vivere la dialettica “dentro/fuori”, “interno/esterno” in maniera efficace.

La relazione tra Arturo e Alessandro sceglie questo tipo di soluzione e per questo è in grado, se non proprio di uscire dalle sue difficoltà, quantomeno di sopravvivere, di convivere con esse.

Ha il coraggio di aggiungere “guai” (cioè problemi, difficoltà) ai “guai” che già l’affliggevano. E proprio per questo, paradossalmente, si salva. Proprio quando pareva che stesse definitivamente morendo.

Giovanni Lamagna