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La donna-“zoccola”, la donna-moglie, la donna-madre e la donna-amante.

La donna “zoccola” di solito confligge radicalmente con la donna “moglie” e con la donna “madre”.

E persino con la donna “amante”.

Perché questa, di solito, fa la “zoccola” con l’uomo di cui è amante, ma, il più delle volte, lo vuole, lo desidera come marito, per cui tende, aspira, a trasformarsi, prima o poi, in donna “moglie” e, magari, anche in donna “madre”.

Mentre la vera e compiuta donna “zoccola” fa la “zoccola” con tutti gli uomini con i quali viene a contatto e non lo fa perché ha una sottesa aspirazione a diventare “moglie” dell’amante e, ancora meno, a diventare “madre” dei suoi figli.

Anche se questi due ruoli sociali – sia detto per inciso – non confliggono di per sé e per principio con l’essere una donna “zoccola”.

L’essere “zoccola” è, infatti, un modus vivendi, che può conciliarsi benissimo anche con l’essere moglie e l’essere madre.

Si tratta di vivere questi due ruoli, però, senza dimenticarsi di essere innanzitutto femmina, cioè, appunto, “zoccola”.

Si può essere, quindi, benissimo moglie-zoccola e madre-zoccola; ci sono, infatti, donne che sono “zoccole” pur essendo mogli e, perfino, pur essendo madri.

Mentre non tutte le mogli e le madri sono anche “zoccole”.

O, meglio, a dirla tutta, la maggior parte delle donne non ci tengono proprio ad essere ed apparire “zoccole”.

Perché questo nel loro immaginario (in parte anche fondato: non si può negarlo!) rovinerebbe la loro reputazione sociale.

© Giovanni Lamagna

Dio e/o inconscio.

Ciò che gli uomini chiamano da vari millenni “Dio” o “divino” per me altro non è che l’inconscio.

Nel duplice senso di “ciò che ci è ancora sconosciuto” e di “ciò che un tempo abbiamo conosciuto, ma abbiamo poi rimosso”.

L’aspirazione al “divino”, all’unità con Dio, altro non è che il desiderio di rendere conscio l’inconscio.

Il freudiano “Laddove c’era l’Es ci sarà l’Io” è dunque un movimento di natura squisitamente religiosa.

Direi (quasi) un’esperienza mistica.

Di espansione (volendo, continua e interminabile) del Sé cosciente, consapevole.

Qui l’allusione al concetto di “analisi terminabile e interminabile” di Freud, con tutta evidenza, non è casuale, ma del tutto voluto.

© Giovanni Lamagna

Noi e gli altri.

Gli altri sono per noi come degli specchi, nei quali ci riflettiamo, nei quali ricerchiamo il nostro volto, quello nel quale identificarci.

I rapporti con gli altri, attraverso questo gioco di specchi, ci aiutano a trovare il nostro “vero” volto, a costruire la nostra identità.

Per questo, soprattutto da un certo momento in poi, in genere dalla fine dell’adolescenza, le persone che hanno un significato profondo per noi si assomigliano un po’ tutte: perché ci raccontano più o meno la stessa storia, ci rimandano più o meno lo stesso volto, quello nel quale ci riconosciamo e che ci dà sicurezza, stabilità.

Tendiamo, perciò, a sfuggire le persone che invece ci chiedono cose (valori, ideali, scelte, comportamenti, gesti, posture…) diverse, che alludono ad altre identità.

Tendiamo a sottrarci al loro sguardo, perché questo crea dentro di noi una divisione, un conflitto, che minacciano la nostra stabilità.

Ecco perché, a mio avviso, è molto vero il vecchio adagio “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”!

E questa è la prima “verità” che riguarda il nostro rapporto con gli altri.

La seconda “verità” è questa: non si può piacere a tutti, perché le persone sono diverse, in alcuni casi molto diverse.

Se piaci ad una che ha certi gusti, certe preferenze, un certo stile di vita, una certa visione del mondo, non puoi piacere ad altre che hanno gusti, preferenze, stili di vita, visioni del mondo diversi, a volte opposti.

I simili o gli affini si attraggono, legano tra di loro, così come gli opposti e i diversi si respingono, fanno attrito, scintille.

Succede poi (ed è questa la terza “verità”, forse la più importante delle tre) che a volte incontriamo persone che ci rimandano un’immagine “altra” da quella nella quale siamo soliti riconoscerci.

Un’immagine che non ci piace, che quantomeno ci turba, che non vorremmo (almeno a livello conscio) fosse la nostra.

A volte perché essa ci ripugna decisamente, contrasta con l’idea che ci siamo fatti di noi stessi e con quello che vorremmo essere.

Altre volte, invece, proprio perché – sotto, sotto – noi vorremmo che essa ci appartenesse, ci corrispondesse, almeno come aspirazione, come desiderio inconsci.

In questo caso gli altri ci propongono un’immagine che ci attira (almeno ad un livello inconscio), ma che non riusciamo, malgrado qualche tentativo fatto, a rendere nostra.

Allora, quasi per un riflesso condizionato, sia nell’uno che nell’altro caso, tendiamo ad allontanarci da queste persone, a sfuggire loro.

O a viverle come ostili e quindi con aggressività.

La verità ci fa male, si sa; e non tutti riescono a reggere il dolore che a volte essa ci procura.

© Giovanni Lamagna

Eros e thanatos.

Freud (nel suo “Al di là del principio di piacere; 1920) dà per scontata l’aspirazione – che egli ritiene la più universale delle aspirazioni presenti in tutti gli esseri viventi – “a ritornare alla quiete del mondo inorganico”, in altre parole all’estinzione, cioè alla morte.

E aggiunge: “Abbiamo tutti sperimentato come il massimo piacere che possiamo attingere, il piacere dell’atto sessuale, sia legato con la momentanea estinzione di un eccitamento estremamente intenso.” (Biblioteca Boringhieri; 1975; pag. 99)

Vede, in altre parole, un’analogia tra la tendenza naturale degli esseri viventi ad estinguersi, cioè a passare dallo stato organico a quello inorganico, e l’esperienza del piacere, articolata nelle seguenti fasi, così disposte in sequenza: – stimolo, – eccitazione, – acme e scarica edonistica, – estinzione dell’eccitazione.

Francamente e con tutto il rispetto per il grande pensatore viennese, trovo questa analogia alquanto indebita, anzi una vera e propria forzatura.

Come si faccia ad associare un’esperienza del tutto spiacevole e non desiderabile, come è la morte, ad un’esperienza estremamente piacevole e desiderabile, come è l’atto sessuale, a me risulta francamente incomprensibile.

Non è certo il fatto che entrambe le esperienze si concludano con uno stato di “quiete” che giustifica tale associazione.

L’associazione che fa Freud è simile a quella che farebbe chi volesse vedere un’analogia tra lo stato di sazietà di chi ha appena mangiato (per soddisfare un bisogno fisiologico, innanzitutto, quello della fame, ma in alcuni casi anche per soddisfare il piacere legato al gusto del mangiare) e lo stato di inappetenza di cui soffrono spesso coloro che non godono di buona salute o il rifiuto del cibo che è caratteristico dell’anoressia.

Si tratta di tre condizioni psicofisiche che hanno certamente un fattore che le accomuna (il rifiuto del cibo), ma sono del tutto incomparabili sotto gli altri aspetti.

A maggior ragione come si fa a paragonare lo stato di (indubbia) quiete (tra l’altro “eterna”) che raggiunge la persona che muore con lo stato di quiete (invece momentaneo) che raggiunge la persona che ha compiuto un atto sessuale ed ha ottenuto un orgasmo?

Lo stato di quiete post coitum o post orgasmo è benefico, vivificante, è funzionale ad una vita sia fisica che psichica piena, sana, soddisfacente, piacevole, gratificante.

Lo stato di quiete che si ottiene con la morte è tutt’altro, anzi è esattamente l’opposto: non solo conclude l’esistenza (altro che vivificarla!), ma quasi sempre (a meno di una morte improvvisa ed istantanea) sopravviene dopo una fase più o meno lunga e prolungata di sofferenze e di agonia.

Ecco perché l’associazione che fa Freud e dalla quale sono partito per fare questa piccola riflessione a commento – a me sembra – francamente infondata!

© Giovanni Lamagna

Sulla performance di Roberto Benigni all’ultimo Festival di Sanremo. Due modi diversi (e, per molti aspetti, opposti) di guardare lo stesso fatto.

Qualche giorno dopo la performance di Roberto Benigni all’ultimo festival di Sanremo ho avuto modo di leggere l’articolo di Luigino Bruni, comparso l’11 febbraio scorso su “Avvenire”, il quotidiano della CEI (Conferenza Episcopale Italiana).

L’articolo esprime un giudizio sulla apparizione di Benigni, dal quale dissento profondamente. Lo riporto qui sotto integralmente e subito dopo esprimo le mie valutazioni.

Cantico dei cantici. Il corpo delle donne (intimità della Bibbia)

di Luigino Bruni

Sono tra coloro che sono rimasti delusi dalla performance di Roberto Benigni al Festival di Sanremo dedicata al biblico Cantico dei Cantici. Forse perché avevo aspettative alte, grazie al ricordo, vivissimo, delle sue meravigliose letture di Dante, della Costituzione italiana, dei Dieci comandamenti; forse perché Benigni ci ha donato film molto amati per la loro poesia e forza etica.

Ma, forse, in questa delusione c’è anche qualcosa di più. Il corpo delle donne, insieme a quello dei bambini, è il primo bene che una civiltà deve tutelare e proteggere con tutte le sue forze. Quando un uomo, un maschio, parla del corpo della donna, prima deve togliersi i calzari dai piedi perché sta entrando in un territorio sacro, una terra fatta sacra da molto amore e da moltissimo dolore. Da sempre il corpo della donna, prima di essere icona dell’amore, è stato immagine di potere, di violenza, di abusi e di soprusi, di corpo ferito e di eros comprato dai maschi. Non si può parlare del corpo delle donne senza avere ben in mente i molti millenni di storia umana in cui le donne hanno vissuto il proprio corpo come luogo da custodire e da preservare dall’uso cattivo dei maschi, un uso sbagliato che ancora troppo spesso è presente e non solo storia.

Ho guardato Benigni insieme a mia mamma e mia sorella. Due donne moderne, laiche, riconciliate con la vita e con i corpi loro, dei figli e dei mariti. Non hanno detto una parola durante lo spettacolo, ma l’aria di casa si è riempita di un pudore mescolato con l’imbarazzo e il disagio. Accanto a loro, io ho avuto forte l’impressione di vedere sullo schermo una donna denudata in pubblico da Benigni, senza che lei avesse dato il suo consenso, denudata ai soli fini dello show. Ho visto quella giovane donna medio-orientale, vissuta due millenni e mezzo fa, e in lei ho rivisto le bellissime ragazze delle Mezzaluna fertile (il Cantico mette insieme antichi poemi nuziali babilonesi e cananei).

Una ragazza ‘bruna’ in un mondo di maschi, in una cultura patriarcale che vedeva poco e male le donne, nascoste sotto la tenda, a occuparsi per tutta la vita di bambini e anziani. Quando nella Bibbia si incrocia una donna non è mai un incontro banale. Quelle donne hanno in genere lottato e sofferto molto per entrare in quel racconto, hanno dovuto farsi spazio in una cultura che non glielo dava spontaneamente.

Donne che vivevano poco e male, quasi tutte analfabete, e non di rado morivano per gravidanze non sempre volute e desiderate. Quale eros conosceva quella ragazza del Cantico? Non certamente quello delle fantasie di noi maschi del XXI secolo, né quello che ci ha raccontato Benigni. Il Cantico è testo profetico, perché dice ai maschi e alle donne del suo tempo quale fosse il disegno di Dio sulla donna e sull’amore. Non era la descrizione dell’eros che quegli antichi scrittori vedevano attorno a loro, ma l’eros di un mondo futuro sempre desiderato e mai raggiunto. Non dobbiamo infatti dimenticare che il Cantico è un intreccio di presenza e di assenza dell’amato. È anche un canto all’amore non trovato, che fugge, che non si trova: «Lungo la notte, ho cercato l’amore dell’anima mia; l’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi alzerò e farò il giro della città per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amore dell’anima mia. L’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi hanno incontrata le guardie che fanno la ronda in città: ‘Avete visto l’amore dell’anima mia?’» (Cantico 3,1-3). Senza questa dimensione di mancanza, di assenza, di limite, non si comprende l’eros che diventa solo gioco o sterile ricerca di piacere. L’eros è insieme pienezza e indigenza, ferita e benedizione. Ferita per tutti, uomini e donne, ma diversamente e di più per le donne (ferita, cioè vulnus).

Non credo che il Cantico sia stato scritto da una donna, e non lo credo per molte ragioni. Ma soprattutto non lo credo perché una donna non avrebbe parlato del proprio corpo e di quello del suo uomo con quelle parole. Le donne hanno altre parole per parlare dell’amore, dell’eros, della philia e dell’agape. Perché dell’eros le donne amano parlare solo due alla volta, nell’intimità di un rapporto d’amore, dove le parole non dette e quelle sussurrate sono importanti almeno quanto il corpo donato, e quando mancano queste poche parole diverse il corpo parla poco e male.

L’unico numero buono dell’eros è il due. E quando dell’eros si parla troppo e si parla in pubblico l’eros diventa altro, ed è bene usare altre parole molto meno nobili. La Bibbia ha da sempre letto quell’antico canto nuziale in modo sapienziale, allegorico e profetico, non per negare l’eros ma per salvarlo, perché l’unico modo per salvare l’eros è custodirlo nella sua intimità e nel suo nascondimento. E quando il Cantico viene letto senza ideologie e manipolazioni, non si fa una esperienza erotica, ma si fa una esperienza spirituale, mistica e soprattutto poetica: «Alzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto! Perché, ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. Il fico sta maturando i primi frutti e le viti in fiore spandono profumo. Alzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto!» (2,10-13).

La poesia è stata infatti la grande assente dalla lettura di Benigni, una poesia mangiata dalla bramosia, molto infantile, di stupire gli spettatori con quell’eros ‘nascosto’ dai preti e rabbini finalmente scoperto e liberato. Tutti i giorni i media usano i corpi delle donne per fare spettacolo, per vendere, per fare audience. E ogni giorno di più. La Bibbia non lo ha mai fatto. Parla poco di eros e di sesso, perché ne rispetta il mistero e l’intimità. La Bibbia va portata in tv, va portata ovunque, perché parla solo e sempre di vita. Ma se proviamo a manipolarla si chiude e non ci fa accedere al suo mistero e alla sua bellezza. Come, nonostante le probabili buone intenzioni, è accaduto l’altra sera sul palco di Sanremo.

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E qui di seguito le mie valutazioni, articolate per punti, seguendo la falsariga dell’articolo di Luigino Bruni.

1.Dico subito che io non sono rimasto deluso dalla performance di Benigni. Anche se non l’ho ascoltata e vista in diretta. Un po’ per l’ora tarda, non conciliabile col mio sonno, un po’ perché da tempo non nutro nei confronti di Roberto Benigni grandi aspettative.

Ritengo infatti che Roberto Benigni, uomo di spettacolo, abbia dato il meglio di sé quando ha fatto il comico. E’ scaduto, invece, almeno ai miei occhi, quando ha voluto mettersi a fare il poeta, ancora di più quando ha assunto i toni del retore, quasi del predicatore.

Nell’ultimo Sanremo l’attore toscano è stato ancora una volta enfatico, retorico e ridondante, ma almeno è uscito fuori dai canoni del prevedibile e del conformismo, nei quali invece si era spesso ridotto negli ultimi anni. Sono andato a vedermi la sua performance su Raiplay, dopo aver letto i commenti del giorno dopo e soprattutto quello di Luigino Bruni, che provo qui a chiosare.

  1. Sono d’accordo con Bruni, che il corpo delle donne è stato per millenni (e ancora oggi lo è) oggetto di potere, violenza, sfruttamento da parte del maschio. E che quindi noi maschi per parlarne dovremmo usare mille precauzioni e prudenze.

E’ pur vero, però, che ciò non deve sfociare nell’inibizione o, peggio ancora, nel bigottismo. Che ci fanno vedere il brutto e il peccato e, quindi, gridare allo scandalo, appena si parla di corpi e di eros. Eros che (sia detto per inciso) è ben altra cosa dal semplice sesso.

Faccio notare qui che Benigni nella sua performance sanremese non ha nominato solo il corpo della donna e le sue parti intime, ma anche quello del maschio e le sue parti intime.

Ha inteso parlare poi precipuamente dell’eros e non dell’amore in generale o di altre forme di amore (filia, agape…). E l’eros non lo si può neanche nominare, se non si fa riferimento ai corpi, alle sensazioni, ai sentimenti e a tutto ciò che si prova nell’atto sessuale.

Ovviamente dipende da come se ne parla. Se ne può parlare in modo volgare, con riferimento alla pura e sola anatomia: e qui sta la pornografia. O se ne può parlare con stile, delicatezza, tatto e con riferimento alle emozioni e ai sentimenti, in altre parole all’amore: e qui sta l’erotismo. A me pare con tutta evidenza che Benigni ne abbia parlato nel secondo modo. Quindi non vedo dove poggi la critica del Bruni.

  1. Capisco l’imbarazzo e il disagio che possono aver provocato le parole di Benigni, non mi riesce difficile comprenderne le ragioni e motivazioni. E però non le condivido.

C’è un pudore che non sento in me: è quello che ci fa sentire scabroso anche solo il nominare certe parole, come se esse fossero qualcosa di cui vergognarsi e da tenere nascoste per la loro stessa natura.

Non a caso le parti intime dei nostri corpi (in altre parole i nostri organi sessuali) sono state definite per secoli “pudenda”, cioè organi di cui avere vergogna, dal verbo latino “pudeo” (“vergognarsi, arrossire di vergogna”).

Credo che l’intervento di Benigni abbia voluto (e, a mio avviso, avuto il merito) di portare alla luce ciò che si tende a nascondere, di “nominare” esplicitamente ciò che si tende a tacere o nominare solo per metafore, a decontaminare e rendere innocente ciò che si tende a ritenere in qualche modo colpevole, se non peccaminoso, o quantomeno non del tutto puro (ancora oggi, nonostante l’apparente evoluzione e disinibizione dei costumi sessuali).

  1. Ha molto probabilmente ragione il professor Bruni ad affermare che le donne, la maggior parte delle donne, dell’epoca in cui fu scritto il “Cantico dei cantici” non conoscevano affatto l’eros come vi viene lì descritto. Perché erano “… donne che vivevano poco e male, quasi tutte analfabete, e non di rado morivano per gravidanze non sempre volute e desiderate”.

E, però, forse proprio per questo il Cantico dei cantici è un testo profetico, perché come tutti i testi profetici si situa fuori dal tempo in cui è stato scritto, anticipa i tempi che verranno, libera il tempo presente dai pregiudizi e dai tabù, di cui il tempo storico è prigioniero. Perfino quello attuale. Se la sua lettura (non solo quella presunta integrale fatta da Benigni, ma anche quella che ha l’imprimatur della CEI) ancora oggi genera imbarazzo e disagio, se non proprio scandalo.

  1. E’ vero, molto vero, che l’eros, il desiderio erotico, si nutrono “di mancanza, di assenza, di limite”. E’ un concetto questo su cui batte continuamente e da anni anche Massimo Recalcati, che su questi argomenti ha detto e scritto parole memorabili.

E però non vedo dove stia la contraddizione tra questo modo di intendere l’eros e il “gioco” (inteso come dinamica relazionale – vedi Erich Berne- e non frivolo passatempo) o la “ricerca del piacere” (perché questa ricerca sarebbe “sterile”, come la definisce Bruni, e non legittima aspirazione dell’essere umano?)

  1. Anch’io non credo che il Cantico sia stato scritto da una donna: effettivamente sarebbe stato pretendere troppo per l’epoca in cui il Cantico fu scritto. E però questo significa una cosa niente affatto positiva, ma semmai negativa: significa che le donne sono vissute per secoli, anzi per millenni, sotto il peso dell’oppressione maschile, che le voleva (e ancora oggi in gran parte le vuole) oggetto del desiderio e, magari, della lussuria (“l’amante”, “la prostituta”) e, allo stesso tempo, inibite e iper-pudiche (“la madonna”, “la madre”).
  2. Non sono, infine, d’accordo che “quando dell’eros si parla troppo e si parla in pubblico l’eros diventa altro”. Non sono d’accordo: perché dipende – come ho già detto prima – da come se ne parla; se ne può parlare in maniera “volgare” ed è una cosa; se ne può parlare in maniera “colta”, per quanto esplicita, ed è un’altra cosa. A me pare che Benigni ne abbia parlato nella seconda maniera.

Ancora: non sono d’accordo che “La Bibbia ha da sempre letto quell’antico canto nuziale in modo sapienziale, allegorico e profetico, non per negare l’eros ma per salvarlo, perché l’unico modo per salvare l’eros è custodirlo nella sua intimità e nel suo nascondimento”.

Forse Luigino Bruni voleva dire che la Chiesa (non la Bibbia) ha sempre letto il Cantico dei cantici in maniera allegorica.

E, però, qui io condivido in pieno la critica (tutto sommato abbastanza garbata) che Benigni fa alla Chiesa, la quale con la sua sessuofobia (chiamiamo pure le cose col loro nome!) preferiva leggere quell’antico canto in maniera allegorica e non letterale, esattamente e con l’intento di negare o rimuovere l’eros, non certo per salvarlo. E qui, proprio qui, sta a mio avviso la positività (e, forse, persino la grandezza) della performance di Benigni.

Ancora, non sono d’accordo sul fatto che leggere il Cantico “senza ideologie e manipolazioni” porta a fare non “un’esperienza erotica”, ma “una esperienza spirituale, mistica e soprattutto poetica”.

Questo sarebbe vero se esperienza erotica ed esperienza poetica, spirituale e persino mistica fossero esperienze radicalmente diverse o, addirittura, incompatibili. Come – debbo dedurre – ritiene Luigino Bruni.

Io, invece, penso che l’erotismo possa andare benissimo d’accordo con la poesia, con la spiritualità e, perfino, col misticismo. Anzi tanto più è forte l’erotismo, quanto più è poetico, spirituale e, perfino, mistico.

Così come la poesia, l’esperienza spirituale e, perfino, quella mistica sono tanto più sane e autentiche nella misura in cui sono anche erotiche, vanno in accordo con l’eros e non lo rimuovono, né tanto meno lo demonizzano.

  1. La poesia è stata la grande assente dalla lettura di Benigni? Dipende da cosa si intende per poesia o per arte. Se fosse vero quello che afferma Luigino Bruni, dovremmo allora giudicare non poetiche molte delle poesie di Pablo Neruda (per non parlare delle novelle del “Decamerone” di Boccaccio) o non artistiche molte delle opere scultoree o pittoriche di autori antichi e moderni, oltre che contemporanei, che hanno esposto il corpo delle donne (e non solo delle donne, anche quello dei maschi: pensiamo a Michelangelo) in tutte le forme e maniere.

Tutti i giorni i media usano i corpi delle donne per fare spettacolo, per vendere, per fare audience.”: su questo sono pienamente d’accordo con Luigino Bruni. Il che non mi porta però a dire (come, invece, fa lui), con un eccesso opposto e speculare, che, per non mercificare il corpo delle donne, allora non bisogna parlare di sesso o che bisogna parlarne il meno possibile.

Io credo (e per concludere) che parlare di eros e di sesso, non solo nell’intimità del rapporto a due, ma pubblicamente, perfino su un palco, nel corso di uno spettacolo, sia pienamente legittimo.

Dipende ovviamente da come se ne parla. A me sembra, però, che Roberto Benigni nella sua performance all’ultimo Sanremo ne abbia parlato in maniera (almeno dal mio punto di vista) esemplare.

Giovanni Lamagna