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La gelosia si può educare.

Certo che gelosia, orgoglio ferito, delusione, rabbia fanno parte della natura umana; che in buona parte è simile a quella degli altri animali!

Ma l’uomo, a differenza degli altri animali, ha una coscienza e un’intelligenza che possono aiutarlo a divenire consapevole dei suoi impulsi e ad educarli, per non restarne prigioniero.

L’uomo – volendo – si può educare a non essere possessivo, a non considerare l’altro/a una sua proprietà; e, quindi, a non essere più geloso.

Tra l’altro io sento che, quando l’altro/a non ci appartiene mai del tutto e in qualche modo ci sfugge, si sviluppa in noi un’adrenalina, un’eccitazione, che appassisce, muore, quando egli/ella sono invece per noi troppo scontati.

Un rapporto in cui non c’è la presenza di un “terzo” (quantomeno immaginario, simbolico) tende a diventare fatalmente “incestuoso”, più fraterno e amicale, che passionale ed erotico.

Accettare questa presenza ha (può avere) due effetti: ci aiuta a diventare meno possessivi e gelosi nei confronti di un nostro “rivale” (potenziale o reale) ed alimenta il nostro desiderio nei confronti del “nostro” partner.

© Giovanni Lamagna

La donna-“zoccola”, la donna-moglie, la donna-madre e la donna-amante.

La donna “zoccola” di solito confligge radicalmente con la donna “moglie” e con la donna “madre”.

E persino con la donna “amante”.

Perché questa, di solito, fa la “zoccola” con l’uomo di cui è amante, ma, il più delle volte, lo vuole, lo desidera come marito, per cui tende, aspira, a trasformarsi, prima o poi, in donna “moglie” e, magari, anche in donna “madre”.

Mentre la vera e compiuta donna “zoccola” fa la “zoccola” con tutti gli uomini con i quali viene a contatto e non lo fa perché ha una sottesa aspirazione a diventare “moglie” dell’amante e, ancora meno, a diventare “madre” dei suoi figli.

Anche se questi due ruoli sociali – sia detto per inciso – non confliggono di per sé e per principio con l’essere una donna “zoccola”.

L’essere “zoccola” è, infatti, un modus vivendi, che può conciliarsi benissimo anche con l’essere moglie e l’essere madre.

Si tratta di vivere questi due ruoli, però, senza dimenticarsi di essere innanzitutto femmina, cioè, appunto, “zoccola”.

Si può essere, quindi, benissimo moglie-zoccola e madre-zoccola; ci sono, infatti, donne che sono “zoccole” pur essendo mogli e, perfino, pur essendo madri.

Mentre non tutte le mogli e le madri sono anche “zoccole”.

O, meglio, a dirla tutta, la maggior parte delle donne non ci tengono proprio ad essere ed apparire “zoccole”.

Perché questo nel loro immaginario (in parte anche fondato: non si può negarlo!) rovinerebbe la loro reputazione sociale.

© Giovanni Lamagna

La “donna sexy”.

La donna che si abbiglia, si muove, gesticola, parla in un certo modo, ovverossia la donna seducente, provocante, in altre parole la donna che, nel linguaggio oramai diventato comune, anche se decisamente frivolo e banale, viene definita “sexy”, è la donna che non si adatta semplicemente a recepire il desiderio dell’uomo e a corrispondervi.

Non si limita cioè (nel migliore dei casi) a condividere il desiderio del maschio, quando esso si manifesta; come se lei non ne potesse provare uno autonomo e goderne pienamente in quanto soggetto e non solo oggetto di desiderio.

Ma è la donna che non ha inibizioni nell’affermare autonomamente il proprio desiderio, anche prima che si manifesti quello del maschio; ovviamente dopo averlo in primo luogo riconosciuto dentro di sé e non averlo rimosso.

Come, invece, purtroppo avviene spesso nel caso delle donne (non solo delle donne, ma soprattutto nel caso delle donne), sotto il peso di antiche, anzi ataviche convenzioni, che le volevano (ma ancora oggi, in molte realtà sociali, continuano a volerle) non solo pudiche, ma anche, in molti casi, ritrose, reticenti, dunque, in qualche modo, respingenti (almeno in un primo momento) nei confronti del desiderio maschile.

E’, in altre parole, la donna adulta, matura, autonoma, culturalmente e psicologicamente evoluta, disinibita, che sa affermare sé stessa, che non abbisogna in prima istanza del desiderio del maschio e non si nasconde dietro di esso per manifestare il proprio, quasi a non volersene assumere la responsabilità piena, ovverossia in prima persona.

E’ la donna che cerca l’uomo, per soddisfare il proprio desiderio, come questi cerca la donna; su un piano, dunque, di assoluta parità e reciprocità, senza alcuna asimmetria; e non ha paura, né tantomeno vergogna, di comportarsi in questo modo; anzi mostra una spavalderia, che per alcuni è sfrontatezza, per alcuni altri (ancora oggi, perlomeno in alcune realtà geografiche e in alcuni ambienti culturali) è addirittura volgarità; per qualche altro ancora denota “facili costumi”.

E’ la donna che, ad esempio, non delega al maschio la conduzione (tempi, modi, luoghi, posizioni…) dell’atto sessuale – come avviene invece, ancora oggi, nella maggior parte dei rapporti sessuali – ma se ne fa pienamente attrice, anzi protagonista, allo stesso, identico, modo del maschio.

Per questo è una donna che attrae, che occupa indubitabilmente l’immaginario e provoca il desiderio (quantomeno quello inconscio) della maggioranza, se non della quasi totalità dei maschi, ma allo stesso tempo li intimidisce, anzi in molti casi li intimorisce e, in non poche situazioni, fa loro addirittura paura.

Mentre, al contrario, provoca l’invidia, la gelosia e, quindi, l’aggressività (latente e in molti casi del tutto manifesta) di molte donne, che non hanno (purtroppo per loro!) raggiunta la sua stessa libertà culturale e psicologica, ancora schiave di vecchi e arretrati modelli di femminilità.

© Giovanni Lamagna

Il tuo piacere è (può essere) il mio piacere.

E’ del tutto vero – come sostiene Massimo Recalcati, nel suo “Esiste il rapporto sessuale?” (Raffaello Cortina Editore, 2021), muovendo dalla lezione del suo maestro, Lacan – che noi non possiamo sentire il piacere dell’altro come se fosse il nostro.

A maggior ragione – io aggiungo per inciso– nessuno di noi può avvertire il dolore dell’altro come se fosse il suo, davvero il suo.

Da questo punto di vista noi umani – come del resto anche gli altri animali- siamo “condannati” ad una separatezza ontologica, che niente e nessuno potranno mai annullare.

E, però, è anche vero che io posso avvertire (ho gli strumenti per farlo, volendo) il piacere che sale, che monta nel corpo dell’altro, coglierne distintamente l’onda e farmene toccare, in alcuni casi perfino (estaticamente) travolgere.

Proprio come quando sono a mare: l’onda rimane onda ed io resto io; ma l’onda che mi arriva e mi travolge l’avverto; eccome!

E il piacere che prova l’altro sarà pure fisiologicamente il piacere solo dell’altro, ma non lo è altrettanto psicologicamente.

Perché psicologicamente io lo avverto, se ci presto attenzione, se mi ci sintonizzo; e, nel momento in cui l’avverto, diventa anche mio.

Aggiungendo piacere a piacere: un piacere ben reale, che si fa sentire nel mio corpo, oltre che nella mia mente.

Lo sa bene chi, quando fa sesso, vive questo atto non come semplice sfogo di una spinta fisiologica, ma come ricerca di una comunione emozionale, sentimentale ed affettiva, quindi amorosa, con l’altro/a.

E’ proprio questo (tra l’altro) che fa una profonda differenza tra un atto masturbatorio (dove l’altro/a è del tutto assente o è, tutt’al più, presente nell’immaginario, nella fantasia) e un atto sessuale vissuto in (reale) comunione con l’altro/a.

Dove l’altro/a è non solo fisicamente presente, ma vive il suo piacere in sintonia con il mio ed io vivo il mio in sintonia con il suo.

In questo caso – è vero – si rimane comunque due persone distinte e il piacere dell’uno è diverso, distinto, dal piacere dell’altro e inassimilabile ad esso.

E’ anche vero però che in quel momento si realizza (può realizzarsi) una vera, percepibile, comunione di anime, nella quale il piacere dell’uno psicologicamente si fonde con quello dell’altro/a ed aumenta esponenzialmente nella misura in cui questa comunione si è venuta a creare.

In questo senso, a mio avviso e al contrario di quanto sostengono Recalcati e Lacan, il piacere dell’altro è (può essere) anche il mio piacere, io posso arrivare a sentire, in qualche modo, il piacere dell’altro come se fosse mio.

© Giovanni Lamagna

L’esistenza che si apre all’Essere: la via estetica, la via filosofica e la via mistica.

La via estetica.

Se l’esistenza umana è pura contingenza e precarietà senza senso, perché senza alcun fondamento che la trascenda, in altre parole senza alcun fondamento metafisico, non per questo l’esistenza umana è condannata irrimediabilmente e fatalmente a restare prigioniera di questa pura contingenza e, quindi, dell’assenza di ogni senso.

L’essere umano ha, infatti, la capacità/possibilità di trovare “dei varchi, degli spiragli” nella “fatticità irrimediabile dell’esistenza”. Ciò accade per Sartre – secondo la lettura che ne dà Recalcati, nel suo “Ritorno a Jean-Paul Sartre”; 2021; pag. 24-26 – principalmente attraverso l’esperienza estetica.

Attraverso l’immaginazione, l’uomo ha la possibilità di trascendere la pura e opprimente fatticità dell’esistenza, di darle respiro, di aprirla all’Essere, come “ciò che può sottrarre l’esistenza dal peso dell’esistenza”. Un Essere che “non ha però nulla di metafisico, non è al di là del mondo poiché non appare se non nel mezzo del mondo.”

Nel suo studio sull’immaginario (“L’immaginario. Psicologia fenomenologica dell’immaginazione”)Sartre riconosce all’immaginazione il potere di annullare, come scrive Recalcati, “l’orrore del reale catapultandoci in un altro mondo”: il mondo della bellezza, della pura “Forma dell’Essere”.

“Il reale – infatti, come scrive Sartre – non è mai bello. La bellezza è un valore che possiamo riferire solo all’immaginario e che implica l’annullamento (néantisation) del mondo nella sua struttura essenziale”. La Forma estetica ci libera (almeno per un momento: quello del godimento dell’opera d’arte) dal peso assurdo dell’esistenza.

Non ho obiezioni da muovere a Recalcati e Sartre: la Forma estetica, attraverso l’opera d’arte (sia nella dimensione della fruizione, sia soprattutto nella dimensione della produzione), è senz’altro una via privilegiata per sfuggire alla trappola oppressiva dell’esistenza, per – in qualche modo – trascenderla e per cogliere l’Essere, sia pure l’Essere come viene inteso da Sartre e da Recalcati.

Penso, però, che la “via estetica” non sia l’unica via, l’unico varco, l’unico spiraglio che l’uomo possa aprirsi nella “massa informe dell’esistenza” per accedere alla Forma dell’Essere. Credo che ce ne siano almeno altre due: proverò a indicarle.

La via filosofica.

La prima di queste altre due vie è, a mio avviso, quella filosofica.

La filosofia nasce, infatti, dalla stessa condizione esistenziale da cui nasce l’opera d’arte: dall’ “incontro traumatico del soggetto con un pieno (quello dell’esistenza) che non necessita di altro se non di sé stesso, di un assoluto privo di significato” (Recalcati; ibidem; pag. 19).

La filosofia nasce “dall’urto sconcertante con la pura contingenza dell’esistenza” (ibidem; pag.19), dalla constatazione che “l’esistenza non ha senso, non porta con sé alcun significato a priori, nessuna essenza…”; che l’esistenza “è, in sé, assurda” (ibidem; pag. 23).

Ma (aggiungo io) la filosofia nasce anche dall’esigenza, che è quasi un bisogno impellente, di trascendere questa contingenza e di trovarle un qualche senso.

Un senso che (come la Forma dell’Essere a cui aspira l’opera d’arte) “non ha però nulla di metafisico, non è al di là del mondo poiché non appare se non nel mezzo del mondo” (ibidem; pag.25).

Un senso che “ci libera dall’eccesso assurdo dell’esistenza”, ma allo stesso tempo “… non è rivolto a una trascendenza metafisica” (ibidem; pag.26).

E’ quel quid che può aiutarci a vivere, a sopra-vivere, a restare in vita, anche dopo che abbiamo preso coscienza che il vivere è orientato alla morte e che non ha nessun fondamento; così come il galleggiare sull’acqua “facendo il morto” ci consente di non sprofondare pur senza avere uno scoglio, una boa, una zattera, su cui trovare appiglio.

In altre parole con la via filosofica – come già con la via estetica, tracciata da Sartre ne “La nausea” – “non si tratta di ricostruire alcun senso metafisico del mondo di cui la Nausea ha svelato impietosamente e irreversibilmente l’assenza, ma di dare all’esistenza, che resta ontologicamente priva di senso, la possibilità di avere un senso singolare sullo sfondo di questo non senso.” (ibidem; pag. 31).

La via mistica.

Una terza via, oltre a quella estetica e a quella filosofica, per non sprofondare nel vuoto, anzi negli abissi senza fondo del non senso, è, a mio avviso, quella mistica.

Non certo la mistica come viene comunemente intesa, la mistica delle religioni tradizionali, ovverossia l’affidarsi cieco, infantile e perciò nevrotico all’Altro, capace di dare “un fondamento ontologico” alla nostra esistenza.

Sia chiaro – anche per me come per Recalcati – la vita umana non ha nessun fondamento, è “priva di ogni possibile giustificazione, di ogni possibile garanzia” (ibidem; pag. 11).

La ricerca, anzi la “passione umana per la propria giustificazione” è per Lacan “il perno del fantasma del desiderio nevrotico… E’ il tratto infantile che contrassegna il nevrotico soprattutto nel suo rapporto con l’Altro materno.” (ibidem; pag. 11).

In cosa consiste allora la via mistica come fuoriuscita dalla gabbia del puro esistere e apertura (mi verrebbe di dire “trascendimento”) verso la forma dell’Essere?

Non certo nella regressione verso l’ “illusione nevrotica dell’Altro come luogo della giustificazione della propria esistenza” (ibidem; pag. 12).

Non certo nell’esperienza religiosa che sta alla base “della passione umana per “essere”, per farsi essere”, che “rivela il fantasma fondamentale del … desiderio” degli uomini: vivere rassicurati all’ombra dell’esistenza del grande Altro” (ibidem; pg. 12) cioè di un Dio trascendente.

Non certo nella credenza “che l’esistenza possa avere un suo senso a priori, che il suo essere trovi fondamento nel grande Altro della garanzia”, che l’esistenza sia un “dono di Dio, giustificata alla sua origine” (ibidem, pg 13).

Non certo nella vocazione ad una vita ordinata, stabile e pianificata.

Non certo nella “idealizzazione retorica” di un “uomo che ha un Mandato, un Compito, che ha, appunto, Diritto ad esistere…” e si sente inoltre il “centro del mondo”. (ibidem; pg.13).

Ma al contrario nella presa d’atto radicale (non solo intellettuale, ma soprattutto emotivo-affettiva) della propria mancanza d’essere, nello scontro scabroso e scandaloso del non senso dell’esistenza e allo stesso tempo nella possibilità di non rimanere impantanati in questo non senso, ma di generare dalla ferita dell’esistenza una chance altra.

Come?

Attraverso l’esperienza da parte dell’uomo della condivisione intima, profonda, della stessa ferita esistenziale con gli altri suoi simili, addirittura con tutti gli altri viventi, perfino con l’Universo mondo, attraversato spesso da disastri e cataclismi che alludono alla stessa sofferenza radicale, ontologica, dell’essere umano.

In altre parole attraverso l’esperienza della com-passione, di quello che il letterato francese Romain Rolland, amico di Sigmund Freud, definì il “sentimento oceanico”.

Anche questa esperienza, come quella che facciamo quando godiamo di un’opera d’arte o quando la nostra mente si illumina per un’intuizione filosofica, ha nell’uomo l’effetto di “attenuare analgesicamente il dolore della ferita che lo attraversa” (ibidem; pag. 33), di trasmettere “un po’ di calore per attenuare il gelo del nostro comune viaggio nella neve” (ibidem; pag. 31).

© Giovanni Lamagna

Amore e amicizia

E’ sempre duro, difficile, anzi terribile, per me constatare, ogni volta, come gli uomini (e per uomini qui intendo ovviamente sia i maschi che le femmine) diano molto più valore all’amore che all’amicizia; o, meglio, a quello che io preferisco definire “il cosiddetto amore”, cioè una certa idea dell’amore, non certo il “vero amore”.

Nella persuasione assurda, che io reputo addirittura stupida, che l’amicizia non sia fatta della stessa sostanza dell’amore, che l’amicizia sia altra cosa dall’amore, che l’amore sia una cosa e l’amicizia un’altra.

Chi la pensa così, a mio avviso, non ha mai sperimentato e quindi non ha mai compreso cosa siano né l’amore né l’amicizia.

Confonde l’amore con quel sentimento possessivo ed esclusivo che ci fa sentire una sola cosa con l’altro/a, pappa e ciccia, quel legame simbiotico che ci chiude (beninteso, ci auto-rinchiude) in un rapporto con una persona e (quasi) ci impedisce di vedere tutte le altre, quella relazione che Erich Fromm giustamente e opportunamente, nel suo “L’arte di amare” (1956), definisce di “egotismo a due”.

Quel rapporto che in nome della sicurezza (della reciproca protezione; da che, da chi, poi? dal resto del mondo?) rinuncia alla libertà; che, per guardarsi in continuazione negli occhi, rinuncia a guardare in avanti e attorno a sé; e che quindi rinuncia a godere della bellezza del mondo intero, nella falsa prospettiva che questa si riassuma in una sola persona, si racchiuda in un unico sguardo.

Come è diversa l’amicizia da questo (pseudo) amore! Ne è anzi l’opposto.

Due amici non si guardano solo negli occhi. Certo, ogni tanto lo fanno anche! Due amici si riconoscono innanzitutto dal fatto che non devono mai abbassare gli occhi l’uno di fronte all’altro. Perché essi non hanno mai da nascondersi nulla: sono due libri aperti, due case di vetro, l’uno per l’altro.

Ma due amici sono tali soprattutto perché guardano nella stessa direzione, guardano al mondo con gli stessi occhi. E, spesso, non hanno nemmeno bisogno di dirselo, di parlarne, perché si intendono al volo, senza neanche aver bisogno di fare ricorso alle parole o a tante parole.

E per questo gli amici, i veri amici, non hanno bisogno di chiudersi, di chiudere la loro amicizia in un hortus conclusus, di chiudersi in un rapporto prigione, per quanto dorata essa possa essere. L’amicizia, la vera amicizia, è sempre aperta ad altre relazioni, ad altre e nuove amicizie.

Perché la vera amicizia, per sua natura, per definizione, al contrario di tanti (pseudo) amori, non è gelosa, non è possessiva, non considera l’altro come una sua proprietà esclusiva. Non sacrifica mai la libertà per la sicurezza, ma nutre la sicurezza con la libertà e la libertà con la sicurezza.

Certo, l’amicizia (di solito) non prevede il sesso. Almeno così pensa, ritiene il comune (ma banale) immaginario. E, forse, questo, anzi sicuramente questo, fa ritenere l’amore superiore all’amicizia. Come se il sesso fosse un’esperienza superiore alla condivisione di una comune visione del mondo, dell’unum sentire, che è tipico delle vere e profonde amicizie.

Ma è poi vero anche questo? O non è anche questo uno dei tanti luoghi comuni del pensare piccolo borghese, cioè del pensare convenzionale che ha fatto della “proprietà privata” il valore sommo e di riferimento di ogni altro, il modello paradigmatico di ogni altra relazione tra soggetti, comprese quelle emotive, sentimentali, erotiche?

Perché, infatti, l’amicizia, laddove due amici ne provassero l’impulso e il desiderio, non dovrebbe poter sfociare anche nel sesso, dovrebbe escludere l’esperienza dell’incontro e della fusione dei sensi e dei corpi? Cosa lo vieta in linea di principio?

Obiezione: perché allora sarebbe amore!

Come se ciò che due amici provano normalmente, quando sentono le loro anime (cioè emozioni, sentimenti, idee, pensieri, valori, ideali…) muoversi all’unisono, non fosse già amore.

Come se l’amore (il vero amore, non il sentimento zuccheroso, mieloso, da “baci perugina”, che normalmente chiamiamo “amore”) non dovesse già comprendere l’amicizia.

E come se il rapporto che si fonda essenzialmente (se non esclusivamente) sull’attrazione sessuale, sui rapporti sessuali e su sentimenti esclusivi e possessivi di appartenenza reciproca, più che su una reale, forte, profonda, condivisione di pensieri, interessi, valori, ideali, in altre parole di visioni del mondo, potesse essere definito realmente “amore”.

Quanta confusione regna (da quando l’uomo ha potuto cominciare a definirsi tale, da quando esiste cioè l’homo sapiens) su questi due territori: quello dell’amicizia e quello dell’amore!

E quanta strada deve ancora compiere l’uomo per pervenire ad una più corretta conoscenza e consapevolezza dell’una e dell’altro e raggiungere in questo modo la sua piena e compiuta umanità!

© Giovanni Lamagna

Recensione del film “E’ stata la mano di Dio” (2021) di Paolo Sorrentino

Ho appena visto l’ultimo film di Paolo Sorrentino, “E’ stata la mano di Dio”, e dico subito che mi è piaciuto: è un bel film, senz’altro un film d’autore!

Certo Sorrentino non è Fellini, anche se al regista riminese chiaramente e dichiaratamente si ispira, per cui è quasi impossibile non paragonarlo col mostro sacro, suo mentore virtuale.

Sorrentino indubbiamente non ha il genio magico e, diciamolo pure, inimitabile di Fellini, però è certamente una persona molto interiore, che sa guardarsi dentro e, come tutte le persone interiori, ha perciò molte cose da dire.

Non lo sa fare nel modo visionario, incandescente, seduttivo, scoppiettante e incantatore di Fellini, ma lo sa fare sicuramente con buona maestria e padronanza, sia nel costruire le storie sia nel renderle sul grande schermo.

Questo film – tanto per restare all’accostamento con Fellini – è un vero e proprio Amarcord sorrentiniano. Così come “La grande bellezza” fu la versione sorrentiniana de “La dolce vita” felliniana.

L’idea da cui nasce è, infatti, probabilmente la stessa da cui originò il meraviglioso film di ricordi del regista riminese: il desiderio/esigenza di ripercorrere la propria adolescenza, di rivisitare i luoghi in cui essa si svolse, di ritrovare persone, episodi, atmosfere, dolori, tragedie, che la caratterizzarono.

Quasi per fare i conti con quella fase della vita, prolungatasi forse fin troppo a lungo, e per uscirne definitivamente, aprendone una nuova.

E, come il film di Fellini ovviamente era ambientato a Rimini, così l’Amarcord di Sorrentino non poteva che essere ambientato a Napoli.

Due contesti evidentemente molto diversi, immerso spesso nella nebbia più fitta il primo, estremamente luminoso e solare il secondo; entrambi però accomunati dall’allegria quasi ridanciana, dal gusto per lo scherzo, anzi per lo sberleffo, dal piacere di godere della sensualità dei corpi.

Fatta questa premessa, evidenzierei che il film di Sorrentino si divide in due tempi nettamente distinti tra di loro, quasi contrapposti.

Le caratteristiche principali del primo sono la risata, la gioia di vivere, la convivialità allegra. Nel corso del primo tempo si ride molto, sembra quasi di assistere ad un film comico; come d’altra parte si rideva molto nell’Amarcord felliniano.

Ma già l’ultima scena del primo tempo preannuncia un radicale cambio di registro, che si affermerà poi pienamente nel secondo tempo; alla commedia (spesso comica) subentrerà prima il dolore acuto e poi la vera e propria tragedia.

La svolta viene annunciata dal pianto e dal tremore isterico della madre (Teresa Saponangelo) del giovane Fabio (Filippo Scotti: Sorrentino adolescente), che scopre il tradimento (in corso forse già da svariati anni) del marito (Toni Servillo) con una sua collega di ufficio.

E si realizza pienamente con la scena dei due genitori di Fabio, che dopo la breve separazione, dopo essersi riappacificati, quando hanno coronato finalmente il loro sogno (molto piccolo-borghese) di avere una casa in montagna (a Roccaraso), accendono il camino e sprovvedutamente vi si addormentano davanti, seduti sul divano, mentre l’uno legge “Un uomo” di Oriana Fallaci e l’altra sferruzza a maglia; respirano così l’aria che diventa sempre più velenosa per le esalazioni del monossido di carbonio e vanno incontro ad una tragica e prematura morte.

I tre figli riescono a salvarsi dalla stessa sorte per puro miracolo, perché non hanno accompagnato i genitori (come pure questi avrebbero desiderato) nel weekend a Roccaraso: Marchino (Marlon Joubert), perché tutto preso dal nuovo amore per una ragazza, Daniela (Rossella Di Lucca), perché vive isolata in un mondo tutto suo (e, infatti, nel film compare pochissimo), infine Fabietto, perché non voleva perdersi la partita Napoli-Empoli, dove avrebbe visto giocare il suo idolo Diego Armando Maradona, nuovo acquisto del Napoli.

Questo di Maradona è uno dei capitoli più importanti dell’adolescenza di Fabio/Sorrentino e, per conseguenza del film; uno di quelli sul quale si è maggiormente costruito l’immaginario del giovane adolescente; Maradona è visto come una specie di divinità calata in terra, che compensa le frustrazioni di un’intera città e ne realizza i sogni a lungo, troppo a lungo, repressi, perché considerati impossibili.

Emblematica, quasi onirica, la scena in cui il ragazzo, mentre attraversa la strada, vede Maradona in un’auto ferma ad un semaforo rosso: il suo sguardo resta paralizzato per svariati secondi, i suoi occhi non credono a quello che stanno vedendo, e con in suoi quelli della piccola folla che ha ricevuto la grazia di una simile visione.

Come non riandare con la memoria alla scena felliniana dei riminesi che a bordo delle loro barche si spingono al largo per assistere nel buio della notte e col mare mosso al passaggio luccicante e favoloso del transatlantico Rex?

L’altro personaggio molto significativo dell’adolescenza di Fabio-Sorrentino è la zia Patrizia (Luisa Ranieri), sorella della madre, donna di straordinaria e prorompente bellezza, che accende le fantasie e le pulsioni erotico-sessuali del giovane ragazzo e di quelle del fratello Marchino.

Patrizia è una bellissima donna, ma anche estremamente frustrata, sia perché non riesce a rimanere incinta, sia perché vive con un marito, Franco (Massimiliano Gallo) che spesso e volentieri la riempie di botte; per questo dà spesso in stranezze.

Emblematica la scena della famiglia allargata ai numerosissimi parenti, in gita su un grande gozzo al largo della penisola sorrentina, quando Patrizia, col massimo candore e allo stesso tempo massima spudoratezza, si toglie tutti i vestiti di dosso e si stende completamente nuda, meravigliosamente nuda, sulla tolda della barca e tutti gli astanti la guardano allibiti e allo stesso tempo desideranti.

Come non riandare anche qui ad una delle scene madri dell’Amarcord felliniano: quella in cui la tabaccaia prosperosa e sensuale alla sera, prima sella chiusura, fa entrare nel suo negozio i ragazzi del borgo che sono soliti guardarla sbavanti e pieni di desiderio, abbassa la saracinesca e mostra loro, seduttiva e complice, le sue enormi, debordanti tette?

Patrizia è per Fabietto l’altro mito della sua adolescenza, l’unico che può competere nel suo immaginario sognante con quello di Maradona.

La morte tragica di Saverio e Maria segna, come una ferita non più rimarginabile, la vita dei tre figli, in modo particolare quella di Fabietto, che al contrario del fratello maggiore, Marchino, il quale intende darsi alla bella vita per rimuovere il dolore per la perdita dei genitori, non se ne fa una ragione, non riesce ad allontanare da sé le tracce del trauma vissuto.

Si rifugia così nel mondo dell’immaginario, che gli sembra senza ombra di dubbi preferibile alla realtà che egli definisce “scadente”. E in questo modo dentro di lui affiora un poco alla volta e infine si manifesta chiaramente la vocazione a fare il regista di film.

In questo suo percorso di (parziale) elaborazione del trauma (la elaborazione definitiva avverrà forse proprio con la costruzione e realizzazione di questo film: ecco il suo senso e la sua motivazione di fondo!) lo aiutano quattro figure significative.

1. La zia Patrizia, che non solo, come abbiamo già visto, è stato il primo oggetto dei suoi ardori erotici e sessuali, in quanto incarnazione stessa, sublime, della femminilità e dell’erotismo; ma è anche colei che incoraggia subito, appena Fabio glielo rivela, e con grande forza il suo sogno di diventare un autore di film.

2. Armando (Biagio Manna) un giovane contrabbandiere (Fabio lo incontra per caso allo stadio e con lui familiarizza condividendo il tifo per Maradona), che lo introduce in un mondo per lui (cresciuto in un ambiente piccolo borghese) completamente altro, quello della camorra e della violenza, alternata però anche a grande generosità e persino tenerezza.

3. La baronessa Focale (Betti Pedrazzi), una signora anziana, nobile decaduta, dall’aria solo apparentemente altera e distaccata, che abitava nello stesso palazzo ed era di famiglia in casa Schisa.

Che, quando si rende conto del momento molto difficile che sta attraversando Fabio, con un pretesto lo attira a casa sua e con modi molto garbati ed estremamente seduttivi, lo introduce ai misteri del sesso: la prima volta di Fabio!

E’ questa una delle scene più sexy e conturbanti del film, paragonabile e forse addirittura superiore a quella della zia Patrizia completamente nuda sulla tolda della barca davanti ad un pubblico di spettatori che la guardavano carichi di stupore e meraviglia.

Lì c’era il trionfo solare e spettacolare della bellezza fisica di Luisa Ranieri (zia Patrizia), esaltata dalla luce e dalla natura, con la monta ovvia del desiderio degli astanti maschili, in particolare di Fabio e di suo fratello Marchino, e forse persino l’invidia delle astanti femminili.

Qui, invece, si realizzano – nella penombra di una camera da letto e nel tete a tete – la celebrazione delle arti seduttive, affinate con gli anni e con l’esperienza, di un’anziana signora e il rito di iniziazione al sesso di un giovane, che fino ad allora lo aveva solamente fantasticato e, quindi, si mostra timido e imbranato.

Anche qui come non associare la scena dell’anziana baronessa che seduce e inizia al sesso il giovane Fabio a quella felliniana della splendida Gradisca che maliziosamente attizza prima e poi svezza, anche se solo con un bacio, i giovani adolescenti riminesi che sbavavano per lei?

4. Infine, Antonio Capuano (Ciro Capano), un regista napoletano, un po’ di nicchia, che all’inizio strapazza violentemente il giovane Fabio, che gli ha confidato il suo desiderio di diventare regista cinematografico, come per metterlo alla prova e saggiare l’autenticità della sua vocazione.

Ma poi si addolcisce, intenerisce e gli dà persino alcuni consigli, il più importante dei quali mi pare è “Non disunirti!”.

Che io ho interpretato così: non perdere i contatti con le tue radici, quindi con la tua famiglia, con la tua città di origine, con i simboli e i miti che hanno segnato la tua adolescenza, con il tuo dolore di fondo; perché è da lì che potrai ricevere la linfa che alimenterà la tua creatività, le cose che vorrai dire e tradurre in immagini.

Il film si conclude (anche qui sulla falsariga dell’Amarcord felliniano) con la scena di Fabio che viaggia in treno, direzione Roma, per inseguire il suo sogno di fare il regista.

E in sottofondo si ascolta la famosa canzone di Pino Daniele “Napule è”, come a dire che Fabio lascia la città che lo ha visto nascere e crescere, ma non si “disunisce”: le sue radici rimangono a Napoli e daranno linfa continua alla sua creatività artistica.

© Giovanni Lamagna

Funzione sociale di pornografia e prostituzione

Sono convinto che la pornografia svolga una sua funzione sociale. Così come la svolge, perfino, la prostituzione.

Il fatto che poi entrambi i fenomeni siano terreno fertile per un mercato obiettivamente di basso livello speculativo e, in certi casi (soprattutto nel campo della prostituzione), di sfruttamento perfino criminale, non invalida l’assunto – altrettanto obiettivo – della loro indubbia funzione sociale.

La prostituzione risponde alla domanda (soprattutto maschile, ma che da un po’ di tempo sta diventando anche femminile) di una sessualità diversa, altra, diciamo pure trasgressiva, rispetto ai canoni della sessualità di norma vissuta all’interno del legame coniugale o, quantomeno, della coppia stabile.

Oltre che alla domanda ovvia di chi, non avendo un partner fisso, in questo modo soddisfa le sue voglie sessuali.

Domande (entrambe) alle quali il più delle volte vengono date risposte scadenti e, nella grande maggioranza dei casi, del tutto insoddisfacenti o addirittura frustranti.

Il che non vuol dire che le domande in sé non abbiano un loro fondamento (se non fosse così, non si capirebbe perché milioni di persone nel mondo siano coinvolte nel fenomeno) e che ad esse non sarebbe giusto che venissero date delle risposte, ovviamente e auspicabilmente meno degradanti e più gratificanti.

La stessa funzione più o meno la svolge anche la pornografia.

Con la differenza che la prostituzione è pratica reale, materiale; la pornografia è pratica soprattutto dell’immaginario.

La funzione sociale della prostituzione è, infatti, quella di soddisfare in qualche modo, per quanto, come dicevo prima, del tutto insoddisfacente e surrogatorio, un istinto, una pulsione, che altrimenti rimarrebbero del tutto negati, frustrati.

La funzione sociale più specifica della pornografia è, invece, quella di sdoganare (almeno a livello dell’immaginario, del cosiddetto “virtuale”) ciò che nella pratica reale viene considerato proibito, perché giudicato peccaminoso o, quantomeno, offensivo del “comune senso del pudore”.

“Comune senso del pudore” che – lo sappiamo benissimo – è un valore quantomeno elastico, anzi estremamente variabile, a seconda dei contesti geografici e dei tempi storici.

In questo senso la pornografia (o, meglio, ciò che viene ritenuto pornografico in un determinato contesto sociale) aiuta (o quantomeno può aiutare, almeno in alcuni casi) chi vi fa ricorso a liberarsi di pregiudizi e tabù sociali che non hanno nessun fondamento reale obiettivo nel codice etico naturale, ma sono solo (almeno in alcuni casi) il frutto di proibizioni di una società repressiva, ancora lontana dall’aver espresso tutto il suo pieno potenziale libidico.

La pornografia contribuisce, quindi, ad alzare (o ad abbassare: dipende dai punti di vista, dall’ottica morale dalla quale ci poniamo) sempre di più il livello dell’asticella che separa ciò che nel sesso – in un dato momento storico – viene ritenuto socialmente lecito da ciò che è considerato ancora illecito.

E in questo senso può svolgere (e in alcuni casi effettivamente svolge), pur con tutti i suoi grandi limiti e le sue forti contraddizioni (che qui, sia bene inteso, non intendo minimamente nascondermi o sottovalutare), una sua (per certi aspetti persino utile) funzione culturale e, quindi, sociale.

© Giovanni Lamagna

Caratteri e disgrazie

Non sono affatto convinto che, come afferma Schopenhauer, “i caratteri cupi e meticolosi incontreranno qualche dolore immaginario, ma meno dolori reali dei caratteri sereni e spensierati”, perché “chi vede tutto nero e teme sempre la peggio non avrà modo di sbagliarsi altrettanto spesso di chi attribuisce sempre alle cose un colore e un aspetto sereno” (massima n. 40; da “L’arte di essere felici”; Adelphi 2017).

La mia esperienza mi porta a dire che i caratteri cupi e tristi, al contrario di quelli sereni e spensierati, sembrano chiamarsi le disgrazie, come se le loro previsioni pessimistiche fossero altrettante profezie che si autoavverano.

© Giovanni Lamagna