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A quale futuro stiamo andando incontro?

Stamattina leggevo una pagina del libro di Aniela Jaffé “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023), anticipata dall’inserto “Robinson”, uscito con “la Repubblica” del 27 maggio 2023, pagina nella quale veniva in grande evidenza l’importanza che ha avuto il Buddhismo per il grande pensatore svizzero.

Ad un certo punto Jung afferma: “A volte mi sono chiesto se non sono la reincarnazione di un indiano. Se così fosse, sarei stato di certo un buddhista.”

E mi è venuto spontaneo pensare all’India e poi alla Cina attuali e mi sono chiesto: quanto di Buddhismo sopravvive oggi, a pochi decenni di distanza da quando Jung fece questa affermazione, in questi due paesi, dove il Buddhismo 2500 anni fa nacque, si sviluppò e prosperò?

Ho l’impressione – da quanto ne so – che ne sopravvive ben poco e, forse, temo, ne sopravvivrà sempre meno in futuro, travolto dallo sviluppo tecnologico, industriale e postindustriale, che ha oramai preso piede anche in quei due paesi, che tendono sempre più ad assomigliare, almeno da questo punto di vista, alle società occidentali.

Si sta verificando insomma, anche in India e Cina, ciò che si è verificato già da quasi due secoli in Occidente: un progressivo ma sempre più impetuoso rinnegamento delle antiche tradizioni spirituali su cui Oriente ed Occidente si erano fondati e retti per più di due millenni.

In India sta tramontando il Buddhismo e credo che prima o poi tramonterà anche l’Induismo; in Cina il Buddhismo (così come il Confucianesimo) sono morti già da alcuni decenni, sotto i colpi della rivoluzione comunista; in Occidente già da molto tempo è tramontato – nei fatti, se non nella forma – il Cristianesimo nelle sue varie correnti; e la stessa cosa si può dire dell’Ebraismo.

Queste grandi tradizioni spirituali sono oramai ridotte ad essere vissute e testimoniate in piccole riserve, largamente minoritarie, che si assottigliano sempre più col passare del tempo e che, forse, prima o poi, (tutto lascia pensare questo) saranno destinate a sparire completamente.

Ho parlato di “rinnegamento” e non di “modificazione” o “evoluzione”.

Una evoluzione, alla luce dei cambiamenti storici intervenuti in due millenni, sarebbe stata normale, inevitabile e perfino positiva; l’aggiornamento (ovverossia la “secolarizzazione”) di un pensiero religioso (ma, in fondo, anche filosofico) per molti aspetti fondato sul mito, alla luce del progresso scientifico, era, infatti, non solo necessario ma – almeno a mio modo di vedere – oltremodo positivo e auspicabile.

Avrebbe consentito di salvare il “bambino” (l’essenza del messaggio spirituale contenuto in quelle antiche tradizioni) e di buttare “l’acqua sporca” (gli orpelli mitici, i rituali barocchi e i sistemi di potere sacerdotali e non, legati a quelle tradizioni), senza gettare (come, invece. è stato fatto) anche il bambino assieme all’acqua sporca.

Il rinnegamento è, infatti, tutt’altra cosa; il rinnegamento è il ribaltamento, la distruzione delle radici stesse su cui le civiltà dell’Occidente e dell’Oriente per due millenni si sono fondate; è un vero e proprio cambio di identità, di natura, di codice genetico.

E questo, a mio giudizio, non ha nulla di positivo e auspicabile; non prelude a nulla di buono; anzi, mi sa di vera e propria “alienazione” culturale, cioè di rinuncia al nucleo, all’essenza stessa, della propria identità antropologica e del proprio patrimonio storico.

Tra l’altro proprio nel momento in cui l’abbattimento di tante barriere – che per millenni avevano tenuto lontani, quasi incomunicabili tra loro, Oriente e Occidente – avrebbe potuto consentire un positivo incontro e un fecondo intreccio di culture tanto diverse.

Per cui mi chiedo: reggerà una “civiltà” (ammesso che possa ancora definirsi così la nuova Era che tende a profilarsi) che si aliena dal proprio passato, che lo divella, senza neanche una vera e propria rigorosa analisi critica, ma sotto l’impulso di un “progresso”, di uno “sviluppo”, che ad un certo punto le sono sfuggiti di mano?

La mia impressione profonda è che un tale cambiamento – al di là del giudizio di merito che se ne possa o voglia dare – non rappresenti, non costituisca un semplice passaggio di epoca, di Evo, come lo furono quelli dall’età antica al Medioevo e da questo all’Età moderna e da questa all’Età contemporanea.

No, oggi, – mi sbaglierò, ma la mia impressione è questa – ci troviamo in presenza di un vero e proprio passaggio non di epoca, ma di Era, come lo fu quello che segnò il passaggio dalla Preistoria alla Storia; di quelli che avvengono ogni tot millenni e non ogni tot secoli.

Non a caso da qualche anno circolano espressioni quali “fine della storia” o “post-umano”, che già linguisticamente sono molto più radicali delle espressioni o dei termini, che fin qui nella Storia hanno segnato i cambiamenti d’epoca e che ho prima citato.

Passando al giudizio di merito e per concludere questa riflessione, cosa ci destinerà il futuro non è dato (a nessuno e meno che mai a uno come me) prevederlo con certezza; ma la mia impressione è che non si stia preparando nulla di buono per le future generazioni.

Spero ovviamente di sbagliarmi; me lo auguro per i nostri figli e, soprattutto, per i nostri nipoti; la mia generazione, infatti, di questo futuro (di questa nuova Era, come sopra l’ho definita) potrà vedere solo le prime luci dell’alba; ma le mie impressioni, intuizioni e previsioni sono purtroppo negative; e non posso fare a meno qui di dichiararle.

Nella speranza sottintesa (a cui la volontà non può permettersi di rinunciare), ma (devo dire) molto disincantata (se in me interviene solo la ragione), che si possa ancora invertire la tendenza in atto, se e quando si prendesse consapevolezza dei rischi devastanti e, forse, suicidi a cui l’Umanità tutta sta andando incontro.

© Giovanni Lamagna

A quale futuro stiamo andando incontro?

Stamattina leggevo una pagina del libro di Aniela Jaffé “In dialogo con Carl Gustav Jung” (Bollati Boringhieri 2023), anticipata dall’inserto “Robinson”, uscito con “la Repubblica” del 27 maggio 2023, pagina nella quale veniva in grande evidenza l’importanza che ha avuto il Buddhismo per il grande pensatore svizzero.

Ad un certo punto Jung afferma: “A volte mi sono chiesto se non sono la reincarnazione di un indiano. Se così fosse, sarei stato di certo un buddhista.”

E mi è venuto spontaneo pensare all’India e poi alla Cina attuali e mi sono chiesto: quanto di Buddhismo sopravvive oggi, a pochi decenni di distanza da quando Jung fece questa affermazione, in questi due paesi, dove il Buddhismo 2500 anni fa nacque, si sviluppò e prosperò?

Ho l’impressione – da quanto ne so – che ne sopravvive ben poco e, forse, temo, ne sopravvivrà sempre meno in futuro, travolto dallo sviluppo tecnologico, industriale e postindustriale, che ha oramai preso piede anche in quei due paesi, che tendono sempre più ad assomigliare, almeno da questo punto di vista, alle società occidentali.

Si sta verificando insomma, anche in India e Cina, ciò che si è verificato già da quasi due secoli in Occidente: un progressivo ma sempre più impetuoso rinnegamento delle antiche tradizioni spirituali su cui Oriente ed Occidente si erano fondati e retti per più di due millenni.

In India e Cina sta tramontando (se non è già tramontato) il Buddhismo (ma lo stesso discorso lo si potrebbe fare per l’Induismo); in Occidente già da tempo è tramontato – nei fatti, se non nella forma – il Cristianesimo (ma si può dire altrettanto dell’Ebraismo).

Tutte e quattro queste grandi tradizioni spirituali sono oramai ridotte ad essere vissute e testimoniate in piccole riserve, largamente minoritarie, che si assottigliano sempre più col passare del tempo e che, forse, prima o poi, (tutto lascia pensare questo) saranno destinate a sparire completamente.

Ho parlato di “rinnegamento” e non di “modificazione” o “evoluzione”.

Una evoluzione, alla luce dei cambiamenti storici intervenuti in due millenni, sarebbe stata normale, inevitabile e perfino positiva; l’aggiornamento (ovverossia la “secolarizzazione”) di un pensiero religioso (ma, in fondo, anche filosofico) per molti aspetti fondato sul mito, alla luce del progresso scientifico, era, infatti, non solo necessario ma – almeno a mio modo di vedere – oltremodo positivo e auspicabile.

Avrebbe consentito di salvare il “bambino” (l’essenza del messaggio spirituale contenuto in quelle antiche tradizioni) e di buttare “l’acqua sporca” (gli orpelli mitici, i rituali barocchi e i sistemi di potere sacerdotali e non, legati a quelle tradizioni), senza buttare (come, invece. è stato fatto) anche il bambino assieme all’acqua sporca.

Il rinnegamento è, infatti, tutt’altra cosa; il rinnegamento è il ribaltamento, la distruzione delle radici stesse su cui le civiltà dell’Occidente e dell’Oriente per due millenni si sono fondate; è un vero e proprio cambio di identità, di natura, di codice genetico.

E questo, a mio giudizio, non ha nulla di positivo e auspicabile; non prelude a nulla di buono; anzi, mi sa di vera e propria “alienazione”, cioè di rinuncia al nucleo, all’essenza stessa, della propria identità storica.

Per cui mi chiedo: reggerà una “civiltà” (ammesso che possa ancora definirsi così la nuova Era che tende a profilarsi) che si aliena dal proprio passato, che lo divella, senza neanche una vera e propria rigorosa analisi critica, ma sotto l’impulso di un “progresso”, di uno “sviluppo”, che ad un certo punto le sono sfuggiti di mano?

La mia impressione profonda è che un tale cambiamento – al di là del giudizio di merito che se ne possa o voglia dare – non rappresenti, non costituisca un semplice passaggio di epoca, di Evo, come lo furono quelli dall’età antica al Medioevo e da questo all’Età moderna e da questa all’Età contemporanea.

No, oggi, ho l’impressione, ci troviamo in presenza di un vero e proprio passaggio di Era, come lo fu quello dalla Preistoria alla Storia; di quelli che avvengono ogni tot millenni e non ogni tot secoli.

Non a caso da qualche anno circolano espressioni quali “fine della storia” o “post-umano”, che già linguisticamente sono molto più radicali delle espressioni o dei termini, che fin qui nella Storia hanno segnato i cambiamenti d’epoca e che ho prima citato.

Passando al giudizio di merito e per concludere questa riflessione, cosa ci destinerà il futuro non è dato (a nessuno e meno che mai a uno come me) prevederlo con certezza; ma la mia impressione è che non si stia preparando nulla di buono per le future generazioni.

Spero ovviamente di sbagliarmi; me lo auguro per i nostri figli e, soprattutto, per i nostri nipoti; la mia generazione, infatti, di questo futuro (di questa nuova Era, come sopra l’ho definita) potrà vedere solo le prime luci dell’alba; ma le mie impressioni, intuizioni e previsioni sono purtroppo negative; e non posso fare a meno qui di dichiararle.

Nella speranza sottintesa (a cui la volontà non può permettersi di rinunciare), ma (devo dire) molto disincantata (se in me interviene solo la ragione), che si possa ancora invertire la tendenza in atto, se e quando si prendesse consapevolezza dei rischi devastanti e, forse, suicidi a cui l’Umanità tutta sta andando incontro.

© Giovanni Lamagna

Opportunità, limiti e rischi di facebook.

Facebook costituisce, come ben sanno coloro che lo frequentano da anni, una sorta di foro, agorà, di piazza o mercato moderni: offre pertanto occasioni e opportunità di incontro (e – perché no? –  di apprendimento) straordinarie.

Con la differenza (non piccola: è persino banale dirlo) che nei fori e nelle agorà di una volta l’incontro tra le persone era fisico, reale, oltre che emotivo, mentale, intellettuale; avveniva nel vis a vis.

Su facebook l’incontro è, invece, solo verbale, al massimo emotivo ed intellettuale; è, quindi, “virtuale”, per usare il linguaggio della Rete.

L’assenza del contatto fisico, vis a vis, non è ovviamente ininfluente; produce anzi effetti negativi importanti, significativi.

Il primo: in molti casi, ho l’impressione, che la Rete costituisca addirittura una sorta di difesa rispetto al coinvolgimento reale delle persone nel rapporto; è un contatto che resta emotivamente freddo, poco coinvolgente; che arriva alla soglia dell’intimità, ma sta bene attento a non attraversarla, a non superarla.

Tanto è vero che spesso le persone in contatto sulla rete, quando si incontrano fisicamente (nei rari casi in cui ciò avviene), molte volte fanno finta di non conoscersi; o, nel migliore dei casi, si riconoscono ma a stento si salutano.

Il secondo risultato è che gli scambi intellettuali sono molto meno trasformativi di quelli che una volta erano (e sono ancora oggi) i rapporti fisici, vis a vis: le parole scambiate, il più delle volte, scivolano sul cuore e sulla testa delle persone apparentemente entrate in contatto e non producono, quindi, veri e profondi cambiamenti.

Il terzo effetto negativo (il peggiore di tutti) è che non poche volte gli scambi comunicativi che avvengono in rete sono violenti, carichi di aggressività.

Come se la distanza consentisse sfoghi di violenza che la vicinanza fisica probabilmente limiterebbe.

A distanza, infatti, la violenza fa oggettivamente meno male e questo dà più facilmente la stura all’aggressività, che, quando si è a contatto fisicamente, si tende a controllare maggiormente, per i danni reali, persino fisici, che essa potrebbe generare.

Verrebbe da chiedersi, a questo punto: sono maggiori le opportunità o i limiti e i rischi di facebook?

La mia risposta a questa domanda è che molto dipende dalle persone che lo frequentano: ci sono persone per le quali facebook è una reale opportunità di crescita umana, altre per le quali è solo un rifugio, un’evasione dal mondo dei rapporti reali e, quindi, un fattore di regressione.

I rischi, beninteso, ci sono anche per le prime; il maggiore è quello di diventarne in qualche modo dipendenti e di scivolare, quindi, quasi senza rendersene conto, verso una forma di socializzazione che privilegia il contatto virtuale, in rete, a quello reale, fisico, vis a vis.

Ma anche le opportunità sono ben reali: innanzitutto perché su facebook ci è data possibilità di incrociare persone che non avremmo modo di conoscere nella vita reale, se non altro perché abitano e vivono a distanza (a volte notevole distanza) dal nostro luogo di residenza.

E in secondo luogo perché vi si incontrano sì persone di basso livello, che nel quasi anonimato dello spazio virtuale si sentono libere di sparare (come già faceva notare Umberto Eco) le più grandi imbecillità, ma vi si incontrano anche persone di notevole spessore umano e intellettuale, dalle quali si può imparare molto.

In altre parole facebook è un libro sempre aperto, che possiamo sfogliare quotidianamente, quando vogliamo, le cui pagine affrontano gli argomenti più diversi.

Sicuramente in maniera disordinata e persino caotica; ma dalle quali, altrettanto sicuramente, si possono apprendere molte cose, come se si sfogliasse un’enciclopedia autogestita dagli utenti, se queste pagine le si sa selezionare e sottoporre a vaglio critico.

© Giovanni Lamagna

I rischi della comunicazione.

La maggior parte delle persone (ho l’impressione) preferiscono rinunciare alla comunicazione piena ed appagante che potrebbero avere, pur di non rompere il guscio in cui sono chiuse, rintanate, che dà loro l’impressione (tra l’altro, falsa) di proteggerle e ripararle da ogni rischio.

Si accontentano, quindi, di una comunicazione che dà loro solo conferme, che fondamentalmente le rassicura e non le mette mai davvero in discussione e meno che mai in crisi, fatta il più delle volte di vuota chiacchiera superficiale, che non realizza mai il vero contatto con l’altro.

© Giovanni Lamagna

Eros e gioco.

Per tener vivo il desiderio erotico c’è bisogno della disponibilità a giocare, di capacità ludica.

Ma, come tutti sappiamo, anche il più bello dei giochi dura poco.

Quindi per continuare a tener vivo e piacevole il gioco, c’è bisogno di variare continuamente il gioco.

Di conseguenza il desiderio erotico, per rimanere vivo, ha bisogno di continue trasgressioni.

Altrimenti si spegne, è destinato fatalmente ad esaurirsi.

Ma quante coppie tengono conto di questo dato di realtà, di questa fisiologia del desiderio erotico?

Molte coppie (o anche uno solo dei partner della coppia) preferiscono rinunciare a tener vivo il desiderio, per non affrontare gli imprevisti e, quindi, i rischi del gioco.

Talvolta è uno solo dei partner che vorrebbe giocare , mentre l’altro/a vi si oppone.

Il primo, allora, ad un certo punto perde interesse , non prova più desiderio.

Mentre il secondo lo mantiene. Ma lo mantiene perché è il primo che, in realtà, lo tiene vivo grazie alle sue richieste (implicite) di gioco.

Potremmo dire grazie, paradossalmente, al suo sottrarsi al desiderio dell’altro: ricordiamoci che il desiderio viene alimentato dalla “mancanza di”, che eros è figlio di poenìa.

Se il primo rinunciasse a fare richieste di gioco, anche il secondo probabilmente vedrebbe esaurirsi il suo desiderio.

L’eros nella coppia, senza gioco, è destinato fatalmente a spegnersi, ad esaurirsi.

Per tenersi vivo ha bisogno che entrambi i partner siano disposti al gioco, siano complici e attivi nel proporre l’uno/a all’altro/a dei giochi.

Perché un rapporto erotico duri, si mantenga in vita, non basta il cosiddetto “amore”, cioè l’affetto, l’aiuto reciproco, il rispetto, la condivisione intellettuale. Non basta neanche l’amicizia.

C’è bisogno della disponibilità reciproca al gioco.

Potremmo dire perfino che eros e gioco sono sinonimi.

Giovanni Lamagna

L’uomo tra bisogno di sicurezza e desiderio di avventura.

La vita di noi si uomini si muove tra due opposte polarità, un bisogno e un desiderio tra di loro opposti eppure complementari.

Il bisogno di sicurezza, di cura, di assistenza, di serenità e tranquillità. E il desiderio opposto di mettersi in gioco, anche a costo di sottoporre a rischio le proprie sicurezze, per provare il brivido eccitante, adrenalinico, del pericolo, dell’avventura.

Ce lo insegnano anche le favole. Cappuccetto rosso poteva starsene tranquillamente a casa sua a giocare con le sue bambole o a coltivare il suo giardinetto.

Ed invece sentì il bisogno di andare a trovare la nonna (anche qui ancora un bisogno di affetto e di sicurezza; e però evidentemente un affetto altro rispetto a quello che le garantivano già i suoi genitori).

Ma per soddisfare questo suo bisogno doveva affrontare il bosco, col pericolo di incontrare il lupo, con le incognite che questo comportava.

Eppure non ebbe esitazioni: si avviò, decisa a non farsi paralizzare dall’ansia per i rischi che il tragitto avrebbe comportato.

Ho pensato a questo e mi è apparso ancora più chiaro di altre volte, appena qualche giorno fa, quando giocando con la mia nipotina di due anni e mezzo, ad un certo punto Ludovica mi ha chiesto di disegnarle, sul foglio bianco che avevamo davanti, un lupo.

Guarda un po’: è evidente che il lupo è un archetipo!

Allora io gliel’ho disegnato, così alla buona come ne sono stato capace. E lei subito ha messo il ditino vicino alla bocca dell’animale che avevo disegnato.

Ne è nata una piccola (ma significativa) sceneggiata. Ha cominciato a lamentarsi, quasi piangendo, che il lupo le aveva dato un morso.

E allora io le ho baciato il ditino e poi con una mano ho fatto per picchiare il lupo. E lei è diventata subito tutta sorridente: il lamento si è trasformato in gioia.

Questa situazione si è poi ripetuta svariate volte, fino a che il gioco non le è venuto a noia e siamo passati ad altro.

L’episodio racconta bene a mio avviso quello che ho provato a teorizzare all’inizio e che ben prima di me avevano già teorizzato ben più illustri pensatori.

Quello che lo ha fatto con più chiarezza è stato sicuramente – come tutti sappiamo – Sigmund Freud.

L’uomo è animale domestico e stanziale, ma è anche animale randagio e nomade, è contadino ma anche cacciatore, anzi è stato prima di tutto cacciatore e poi è diventato contadino.

In lui quindi ci sono le stigmate di entrambe le situazioni da lui primordialmente vissute: c’è lo stigma della sedentarietà e della sicurezza e quello della movimentazione e del rischio.

La sua vita è un’oscillazione continua tra queste due polarità. Non sta bene, non sta veramente bene, se si ferma, se si blocca, in una soltanto di essa.

Per stare bene ha bisogno di oscillare tra le due diverse situazioni: in questo modo si crea e si ricrea in continuazione.

Le alternative sono la noia, se si accontenta delle sicurezze e dei confort; o l’ansia, perfino l’angoscia, se eccede nel mettersi alla prova e nel sottoporsi ai rischi.

Entrambe, da sole, non gli fanno bene; se si alternano, invece, con sapiente equilibrio, gli assicurano l’agognato benessere.

Giovanni Lamagna

Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei.

26 dicembre 2015

Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei.

Ci sono rapporti che sono (prevalentemente) di conforto e rassicurazione e altri che sono (prevalentemente) di sprone e sollecitazione.

I primi possono essere paragonati, in senso figurato, ad un abbraccio o ad una carezza.

I secondi ad una spinta, ad un buffetto sulla guancia o, addirittura, ad un (amabile) calcio nel sedere.

I primi tendono a confermare, a stabilizzare, a consolidare quello che già siamo. A dirci: “Sei già ok come sei!”.

L’amore delle madri è in genere così.

I secondi tendono a stimolarci ai cambiamenti, ci spingono ad affrontare nuove sfide, ad aprirci a nuove prospettive. A dirci: “Coraggio, potresti arrivare oltre! Non accontentarti di rimanere lì dove già sei!”.

L’amore dei padri è in genere così.

Nella vita, ciascuno di noi ha bisogno sia degli uni che degli altri. In certi momenti più degli uni, in altri momenti più degli altri.

E non è un caso (forse) che per crescere sani, equilibrati e sereni (se non proprio felici) abbiamo bisogno sia di una madre che di un padre.

Senza la sicurezza che ci deriva dall’amore materno non saremo mai capaci di affrontare e superare gli ostacoli che la vita prima o poi, inevitabilmente, ci pone davanti.

Senza la testimonianza di un padre audace e coraggioso rimarremo rintanati nella cuccia delle nostre sicurezze e non evolveremo mai per sviluppare il nostro potenziale.

Questa storia delle due diverse tipologie di rapporti, a mio avviso, ha a che fare, è in connessione intima con la natura dei desideri che muovono il nostro agire, che modellano anzi il nostro stesso stile di vita.

Se le nostre preferenze vanno al primo tipo di rapporti, in noi sarà prevalente (su tutti gli altri) il desiderio di sicurezza e di stabilità, di una vita tranquilla, comoda, confortevole, calda, accogliente.

Saremo, per converso, meno o, addirittura, poco interessati alla nostra crescita ed evoluzione personale.

Se le nostre preferenze vanno al secondo tipo di rapporti, forse saremmo più predisposti a un tipo di vita in cui saranno centrali la ricerca, la trasgressione, lo spirito di avventura. Con i tutti gli inevitabili rischi e pericoli annessi e connessi.

Nel primo caso saremo portati ad accontentarci di quello che la vita ci offre quasi naturalmente, senza che da parte nostra siano necessari un grosso impegno e una grande ricerca per ottenerlo.

Diremo, molto probabilmente, a noi stessi ed agli altri, che più di quello che già abbiamo non desideriamo; e che certe cose semplicemente non ci interessano, anzi che non le desideriamo affatto.

Ma c’è da chiedersi (e dovremmo, forse, chiederci): certe cose non ci interessano perché i nostri gusti e le nostre preferenze vanno realmente in altre direzioni o perché queste cose ci mettono in ansia, ci fanno sentire in pericolo, ci destabilizzano, perché ci chiedono di uscire dal guscio nel quale ci sentiamo protetti e difesi?

In questo secondo caso, certo possiamo benissimo continuare a dire che certe cose non ci interessano, anzi che non ci piacciono per niente. Nessun Dio e nessuna legge umana ci obbligheranno mai a sentire e a pensare diversamente.

Ma dobbiamo sapere però che è un po’ come con la storiella della volpe e dell’uva.

La volpe desiderava afferrare l’uva e mangiarla. Ma per quanti salti facesse non riusciva ad arrivare con le zampe al ramo a cui l’uva era appesa. E allora la volpe disse “Fa niente! Tanto l’uva non mi piace!”.

In questo secondo caso probabilmente riusciremo a fare la vita comoda e perfino tranquilla e serena, che è maggiormente nelle nostre corde emotive, ma forse rinunceremo a realizzare il nostro daimon, che in qualche modo esige sempre, invece, la disponibilità ad affrontare i rischi e i pericoli, le incognite e le sorprese, connessi alla ricerca di scenari nuovi e insoliti.

Ora (per tornare alla nostra riflessione iniziale) alcuni rapporti ci consigliano di accontentarci di quello che siamo, altri ci spingono ad andare oltre. E il più delle volte gli uni sono incompatibili con gli altri.

A seconda se privilegiamo gli uni o gli altri abbiamo già fatto una scelta implicita della direzione da dare alla nostra vita.

Questo conferma l’antico e saggio proverbio: “Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”.

Giovanni Lamagna

L’uomo, l’istinto, gli animali.

20 giugno 2015

L’uomo, l’istinto, gli animali.

Il passaggio decisivo, nella scala evolutiva, dalle scimmie antropomorfe agli australopitechi, cioè ai primi ominidi, si ha quando allo schema di comportamento dettato dall’istinto (che caratterizzava le prime) si sostituisce quello (non più “dettato” ma) caratterizzato da una qualche forma, seppure molto primitiva ed embrionale, di consapevolezza (che contraddistingueva i secondi).

Questo passaggio comporta una vera e propria separazione tra le due specie, una sorta di salto evolutivo.

L’istinto, infatti, obbliga ad una specie di risposta automatica e, quindi, del tutto prevedibile di fronte ad un determinato stimolo proveniente dal contesto (sia esterno che interno) in cui ci si trova a vivere.

La consapevolezza parte comunque da una base istintuale, ma questa non detta più in maniera automatica e scontata gli atti e i comportamenti, bensì sottopone lo schema istintuale ad una sorta di filtro, in cui grande importanza ha il ruolo del cervello, che nel frattempo si è sviluppato con gli australopitechi ed è quindi capace di operazioni più complesse di quelle di cui erano capaci le scimmie antropomorfe, anche nelle loro forme più evolute.

La consapevolezza fa sì che, di fronte ad un determinato stimolo, la risposta non sia più automatica, scontata e prevedibile, ma possa essere diversificata. Compaiono quindi nello scenario della storia la possibilità della scelta e quella del “libero arbitrio” che la sottende.

Ciò rende, in qualche modo, l’uomo simile a Dio, in quanto lo fa in qualche misura (anche se molto relativa: qui ci sarebbe molto da approfondire) arbitro e creatore del proprio destino.

Ma rappresenta, in maniera speculare, anche una condanna: l’uomo da questo momento in poi si sente ancora facente parte della natura (con tutti i vincoli che questo comporta), ma allo stesso tempo se ne sente oramai separato, come se ne fosse stato definitivamente cacciato.

E’ forse questo il senso profondo del mito della cacciata dell’uomo dal Paradiso terrestre.

Ce lo spiega bene Erich Fromm nel suo “L’arte di amare”: “… ciò che caratterizza l’esistenza dell’uomo è il fatto di essere emerso dal regno animale, dall’istinto; esso ha dominato la natura, sebbene non l’abbandoni mai; ne fa parte e tuttavia, una volta staccato dalla natura, non può farvi ritorno; scacciato dal paradiso – vale a dire da uno stato di armonia con la natura – i cherubini con la spada di fuoco gli bloccherebbero la strada, se provasse a tornarci.”

Da questo momento in poi l’uomo è chiamato ad un destino superiore, perché, consapevole di sé, è diventato in qualche modo un essere libero, padrone del proprio destino.

Ma è preda anche della paura della sua nuova condizione, che gli mette angoscia: perché non trova più in sé l’armonia con la natura che prima era scontata. E’ chiamato ora a trovare una nuova armonia, un nuovo rapporto con la natura.

Da questo momento in poi la sua vita oscillerà sempre tra questi due bisogni opposti e contrastanti , ma ugualmente potenti: ritrovare le antiche sicurezze, l’armonia perduta da un lato; affrontare le nuove sfide che la vita gli pone, i rischi che esse comportano dall’altro; accontentarsi di quello che è, di come lo ha partorito “Madre Natura”, oppure andare oltre, svilupparsi, crescere, evolversi ancora, in un processo mai concluso una volta per tutte.

Giovanni Lamagna