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Istinto, pulsione, desiderio e “legge di castrazione”.

Il puro istinto per diventare pulsione e, quindi, desiderio, nell’uomo ha sempre bisogno di trovare un ostacolo, un freno, un limite.

Quella che Massimo Recalcati (con il suo maestro Lacan) chiama “la legge della castrazione”.

La quale non impedisce né vieta affatto il godimento, ma semplicemente lo sposta dal suo primo oggetto (la “Cosa” materna) e lo rinvia ad altri oggetti.

Nel desiderio, pertanto, non c’è mai piena e totale corrispondenza tra la spinta a desiderare e l’oggetto desiderato.

Permane sempre una distanza, una mancanza.

Ma è proprio questa, che – come del resto ci insegna il mito – alimenta il desiderio e lo tiene non solo costantemente vivo, ma lo rende – a differenza del puro istinto animale – strutturalmente “perverso e polimorfo”.

© Giovanni Lamagna

Vita monastica, vita spirituale, voto di castità e dimensione sessuale del vivere.

La vita monastica ha sempre avuto per me un fascino.

Non posso negare che in certi momenti mi ha attratto addirittura come una possibile scelta di vita.

Perché rappresenta una condizione particolarmente favorevole all’esercizio della vita spirituale.

Ma non poteva diventare la mia scelta di vita, perché essa presuppone il voto della castità.

Esige cioè la rinuncia ad una dimensione del vivere, quella sessuale, che per me, lungi dal rappresentare un ostacolo alla vita spirituale, può significare addirittura un mezzo, una via, di crescita, di elevazione spirituale.

© Giovanni Lamagna

Odi et amo.

La natura umana è caratterizzata da una strutturale e radicale ambivalenza.

L’uomo ha un disperato bisogno dell’Altro, per vincere (o, quantomeno, illudersi di vincere) la propria radicale e strutturale solitudine.

Potremmo anche dire, quindi, che l’uomo ha un disperato bisogno d’amore.

Dell’amore che riceve, ma anche dell’amore che dà.

Senza amore l’uomo muore.

Spiritualmente sempre; in certi casi, perfino fisicamente.

Allo stesso tempo l’uomo vive l’Altro come limite, come barriera, come ostacolo alla sua ingordigia, alla sua ambizione di essere come Dio, al suo desiderio di sconfinamento e onnipotenza.

E, quindi, l’uomo – allo stesso tempo che ama – odia pure.

Il suo amore è, dunque, sempre viziato, ambiguo, ambivalente, contraddittorio.

Non è mai puro, diritto, univoco, senza macchie.

Lo colse bene Gaio Valerio Catullo, quando, quasi ventuno secoli fa, scrisse il famoso carme 85:

Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.

Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

Odio e amo. Forse mi chiedi come io faccia.

Non lo so, ma sento che ciò accade, e ne sono tormentato

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A sua volta, l’odio in fondo è sempre il segno di una dipendenza, di un bisogno mai del tutto soddisfatto, impossibile da soddisfare pienamente: quello di inglobare l’altro, di assimilarlo a noi.

Io ti odio perché la tua presenza mi dice nei fatti che io non sono Tutto, che io manco di qualcosa, che tu sei una parte di me che mi manca, che è insuperabilmente, irrimediabilmente e irrecuperabilmente separata da me.

La tua presenza/esistenza non conforta solo la mia solitudine, come in certi momenti felici accade.

Ma la conferma, la sancisce; e in maniera radicale, strutturale.

Questa ambivalenza radicale e strutturale si manifesta a volte, in tutta la sua massima evidenza e con esplosiva violenza, nell’assassinio della persona che si dice di amare.

Più spesso femminicidio che omicidio.

Come a confermare l’antico mito, secondo il quale Eva sarebbe stata creata manipolando una costola di Adamo.

Eva, quindi, prima della sua creazione, sarebbe stata una sola cosa con Adamo.

Mentre, dal momento della sua creazione, non lo sarà più; e non lo sarà più per sempre.

Nessun amore potrà mai colmare questa distanza, suturare questa separazione.

E per questo (forse) l’amore è sempre venato dall’odio.

O, quantomeno, da una quota parte di aggressività, se non proprio di odio.

© Giovanni Lamagna

Benessere e fatica.

Mi convinco ogni giorno di più che nella vita abbiamo bisogno di modelli di riferimento più alti di noi, che ci elevino, ci innalzino al di sopra di noi.

Modelli ai quali tentare di assomigliare, facendo uno sforzo, trascendendo noi stessi, gettando il cuore oltre l’ostacolo.

Questo vuol dire realmente esistere; da “ex-sistere”: stare fuori, uscire da sé.

Chi, invece, cerca solo il riposo, chi nella vita si accontenta di poco, di avere come modelli di riferimento coloro che gli assomigliano o, addirittura, stanno spiritualmente, psicologicamente, ad un livello inferiore al suo, sarà destinato a vivacchiare nella mediocrità ed a provare dunque un senso di vuoto, di mancanza, che lo renderà perennemente insoddisfatto.

Confonderà il desiderio di riposo, tranquillità, conforto con quello di benessere e di felicità, che invece – paradossalmente – esigono una certa tensione, una qualche fatica.

Un po’ come colui che vorrebbe provare il benessere, la gioia, di camminare o andare in bicicletta senza muovere le gambe o senza pedalare, senza fare cioè alcuno sforzo o fatica.

© Giovanni Lamagna

Sulle carezze

Ne “L’essere e il nulla” Jean Paul Sartre così scrive:

Le carezze sono appropriazione del corpo dell’altro; è evidente che, se le carezze non consistessero che nello sfiorare o toccare, non potrebbero avere alcun rapporto con il potente desiderio che pretendono di colmare; rimarrebbero alla superficie, come gli sguardi, e non potrebbero rendermi padrone dell’altro. Si sa quanto sia insufficiente la famosa frase: “Contatto di due epidermidi”. La carezza non vuole essere un semplice contatto; sembra che solo l’uomo la possa ridurre a semplice contatto, e allora viene meno al suo significato.

Perché la carezza non è un semplice sfiorare: ma un foggiare. Carezzando l’altro, io faccio nascere la sua carne con la mia carezza, sotto le mie dita“.

In questa riflessione di Sartre ritrovo delle esperienze che sono anche le mie, mentre ce ne sono altre che non riesco a condividere.

Innanzitutto non condivido l’affermazione che le carezze rappresentino una “appropriazione del corpo dell’altro”: sento che questa affermazione non corrisponde al vero.

E’ vero, certamente, che, quando carezzo una persona e questa persona ne prova piacere, avviene una sorta di cedimento di questa persona nei miei confronti, che si abbandona al piacere che le sto donando e, quindi, in un certo senso, si abbandona a me, si affida, quasi in atto di resa, alle mie mani.

Ma, se questo avviene, avviene per una sua scelta, per una sua volontà, per una sua decisione; avviene perché si fida di me, sente che la sto amando, che voglio il suo piacere, anzi voglio il suo bene e perciò diventa complice del mio amore, del mio desiderio di lei.

Il mio desiderio di lei diventa allora il suo desiderio di me. In quel momento due desideri si incontrano, si incrociano: non c’è nessun possesso di uno/a nei confronti dell’altro/a, ma è un venirsi incontro, un concedersi liberamente e reciprocamente.

Se non fosse così, se non ci fosse il suo pieno e libero consenso, l’altro/a, anziché abbandonarsi alle mie carezze e trarne piacere (a volte sublime piacere), si irrigidirebbe, diventerebbe di marmo, impermeabile ad ogni stimolo e condivisione edonistici.

Quindi, è senz’altro vero che le mie mani carezzando possono donare piacere, anche un sublime piacere, ma lo possono fare solo a condizione che l’altro/a si apra, si conceda liberamente, per sua autonoma e fiduciosa decisione, alle mie carezze e al beneficio che esse possono, sono in grado di donare.

Per questo, a mio avviso, in nessun modo le carezze sono in grado di affermare un potere proprietario sul corpo dell’altro, come invece afferma (o, perlomeno, sembra affermare) Sartre.

Semmai è esattamente il contrario: le mie carezze sono in grado di procurare piacere all’altro/a solo nella misura in cui lo/a lasciano totalmente libero, padrone di sé o, quantomeno, del tutto consenziente.

Questo non significa che le mie carezze si fermino o debbano fermarsi per forza alla pura e semplice superficie del corpo dell’altro, alla sua epidermide, che rappresentino quindi solo un contatto tra due pelli.

Qui bisogna dire che ci sono carezze e carezze. Ci sono carezze maldestre, rozze, quelle dei principianti, di chi ha poche volte carezzato, o di chi è incapace di esprimere amore, ammesso che questo amore lo senta realmente: di fronte a queste carezze il corpo dell’altro si chiude piuttosto che aprirsi, si irrigidisce piuttosto che abbandonarsi, si contrappone anziché concedersi.

E ci sono carezze che sono tocchi di velluto, di piuma, che sfiorano il corpo dell’altro/a e lo eccitano, nel senso letterale del termine, nel senso cioè che lo stimolano a “uscire-fuori” dalla corazza protettiva nella quale ciascuno di noi tende a rinchiudersi istintivamente per proteggersi da eventuali minacce esterne.

Mentre le prime non riescono a superare neanche la prima barriera, il primo ostacolo, quello costituito dall’epidermide, perché vengono subito respinte, le seconde non solo oltrepassano questa prima barriera, ma scendono in profondità sotto la pelle, accendono il sangue e giungono direttamente al cervello.

Da qui, stimolando endorfine, arrivano a invadere tutte le fibre del corpo, scatenando lo sconquasso dei sensi e la loro resa.

A questo punto ne approfitto per dire che, al contrario di quanto afferma Sartre, neanche gli sguardi sono destinati per loro natura intrinseca a fermarsi alla pura e semplice superficie del corpo dell’altro/a.

Anche qui dipende dagli sguardi.

Ci sono sguardi che effettivamente si fermano alla superficie dell’altro/a: sono sguardi che “vedono” ma non “guardano”; per cui tali sguardi, non andrebbero neanche definiti come veri e propri sguardi, perché sono solo semplici e banali funzioni ottiche.

Ma ci sono anche sguardi che sono capaci di penetrare in profondità. Non certo (come è ovvio) nel corpo dell’altro/a, bensì nella sua anima. Che sono capaci cioè di leggerle dentro, cogliendone e decifrandone emozioni, sentimenti, pensieri, quasi come se avessero un potere radiografico.

La carezza, infine, e su questo sono totalmente d’accordo con Sartre, non è “un semplice contatto… Perché la carezza non è un semplice sfiorare: ma un foggiare. Carezzando l’altro, io faccio nascere la sua carne con la mia carezza, sotto le mie dita”.

Attraverso la carezza io non esercito affatto un potere proprietario, come all’inizio sostiene Sartre: questo potere non me lo riconosco, non lo desidero e non credo neppure sia possibile esercitarlo, quand’anche lo desiderassi.

Ma un potere creativo, questo sì, posso esercitarlo attraverso le carezze; beninteso, se ne ho le capacità, le doti, mi verrebbe di dire le arti.

Attraverso le mie carezze io ricreo (in senso letterale e metaforico) il corpo dell’altro/a. “Sotto le mie dita” il corpo dell’altro si trasforma, si risolleva, viene attraversato da una corrente energetica che lo rigenera, lo fa stare bene, in alcuni casi lo rende nuovo.

La persona che viene o è stata accarezzata, infatti, cambia sguardo, portamento, gestualità: si rilassa, si ammorbidisce, risplende di luce nuova, è quasi circondata da un’aura, come dopo un orgasmo.

La carezza è un contatto così poco superficiale che può portare da sola chi ne beneficia all’orgasmo, anche in assenza di congiungimento genitale. Pertanto la carezza è di per sé, per sua natura, un gesto erotico, anche quando non si propone di esserlo intenzionalmente.

© Giovanni Lamagna

Comunicazione orale e comunicazione scritta

Comunicazione orale e comunicazione scritta

Comincio a pensare che non esiste comunicazione più forte ed empatica di quella che si viene a creare (o, meglio, può venire a crearsi) tra chi scrive qualcosa su una pagina bianca e chi legge questa pagina.

Perché nella comunicazione orale, quella che si realizza nell’incontro fisico tra due persone, resta la distanza tra me e l’altro, che è strutturale, insuperabile nella sua radice ontologica; che la vicinanza fisica dà solo l’illusione di annullare.

Quando mi trovo, invece, di fronte ad una pagina scritta, se voglio entrare in connessione intellettuale ed emotiva con chi l’ha scritta, non ho alternative: devo in un certo senso introiettare lo scrittore e identificarmi fino in fondo con lui.

Ed è forse questa la situazione in cui viene a cadere del tutto (o, almeno, ha la maggiore possibilità di cadere) la distanza (in questo caso quella spirituale, non certo quella fisica) tra chi emette un messaggio e chi lo riceve.

Ed è forse per questo che, quando ci vediamo persi, quando le abbiamo tentate tutte per cercare di comunicare con una persona in forma orale e in presenza fisica, senza aver toccato la sua anima ed aver ricevuto risposte (una qualsiasi risposta, fosse anche negativa e dolorosa), ad un certo punto le scriviamo una lettera.

La speranza è che parola scritta riesca a scavare dentro di lei quel vuoto necessario all’ascolto, ma soprattutto all’empatia, che la parola orale evidentemente non era riuscito a creare, forse proprio perché la presenza fisica, dando l’illusione di garantire di per sé la comunicazione, in realtà ne era filtro e persino ostacolo.

© Giovanni Lamagna